Daniel Mendelsohn, versatile come Ulisse
[Quest’anno il Premio Malaparte è stato assegnato a Daniel Mendelsohn. Pubblico qui di seguito il testo scritto da Giuseppe Merlino in occasione della premiazione. ot]
di Giuseppe Merlino
Daniel Mendelsohn, come Ulisse, uno dei suoi personaggi prediletti, è “versatile”, polytropos in greco antico. È un grecista, studioso dei poemi omerici, dell’Odissea soprattutto, il più romanzesco dei due poemi; è un appassionato di teoria letteraria, ed è un narratore avvincente; i suoi romanzi intrecciano narrazione e riflessione con scioltezza, audacia ed eleganza. Non esita a mostrare la sua letterarietà e anche la sua inclinazione saggistica. Il grande modello moderno di questo genere narrativo è il romanzo di Proust che affiora di tanto in tanto nei suoi libri.
Parlerò subito del suo libro più recente, tradotto in italiano da Norman Gobetti, per Einaudi, nel 2021. Il titolo è Three Rings. A tale of Exile, Narrative and Fate, Tre anelli. Una storia di Esilio, Narrazione e Destino.
L’esilio è quello frequente nella storia del popolo ebraico, ma include anche tutti gli esili provocati dalle persecuzioni e aggressioni nella storia occidentale, da Enea in poi. Della narrazione dirò solo qualcosa del modo di narrare di Mendelsohn, che intreccia il più possibile i molti fili di una trama, seguendo il consiglio di Aristotele che oppone la densità tematica e l’intreccio dei tempi di un “episodio” alla consecutività richiesta dalla cronologia della Storia, e valuta i vantaggi della “varietà”. Quanto al destino, questa parola (opposta alla parola caso) indica il sogno, segreto e sperato, che nelle vicende umane si nasconda un senso o un disegno, riconoscibile almeno retrospettivamente.
Questo l’indice del libro: Le Lycée français, L’educazione delle fanciulle, Il Tempio. I tre titoli, discretamente sibillini, nascondono tre nomi, tutti celebri in letteratura, e almeno tre libri. Le Lycée français evoca Erich Auerbach, filologo magistrale, autore, in condizioni speciali, di un capolavoro della critica novecentesca (1942-45): Mimesis, ovvero “Il realismo nella letteratura occidentale” da Omero a Proust. L’educazione delle fanciulle nasconde un autore più remoto, un aristocratico del ´600 francese, arcivescovo di Cambrai, François de Salignac de La Mothe-Fénelon, e un libro immensamente celebre in Europa e nel Levante che si intitola Les Aventures de Télémaque (1687), scritto per un Delfino di Francia e che fu all’origine della disgrazia a Corte del mistico arcivescovo e superbo prosatore. Fu esiliato nella sua diocesi al confine con la Germania, extremi hominum, come avrebbe potuto dire Ovidio esiliato a vita sulla riva del Mar Nero. Vengo al terzo capitolo, Il Tempio: il nome proprio qui è quello di un grande scrittore tedesco contemporaneo, autoesiliato in Inghilterra per un senso di colpa ereditario, legato al padre ufficiale della Wehrmacht. Il libro commentato è un libro di vagabondaggi e d’incontri nella campagna inglese sulle “tracce di una distruzione universale”; il titolo, Gli anelli di Saturno, evoca subito una malinconia radicale che è uno stile di pensiero.
Non sono biografie parziali, sono piuttosto dei biografemi, e cioè una scelta di gusti, pose, intonazioni, sintomi o locuzioni che accennano a una personalità più che definirla; che ricercano il gesto intellettuale originario da cui è scaturita l’opera. Ciascun capitolo pone una questione che si espande negli altri capitoli alla ricerca di connessioni. La forma di connessione più amata da Mendelsohn è la digressione, e cioè un procedimento che funziona cogliendo le coincidenze, le affinità, le parentele, le analogie tra il discorso principale e quelli contigui e possibili; è un’irruzione nata nei depositi della memoria e dal magnetismo di alcune parole che risvegliano un’idea accessoria e la rendono subito irrinunciabile, garantendo sempre però il ritorno al racconto principale, temporaneamente sospeso. Esemplari come microdigressioni, sono le lunghe frasi ipotattiche di Proust ricolme di incisi e subordinate allacciate le une alle altre, anche con sostanziali divagazioni e che, poi, con un meccanismo impeccabile, quasi astronomico, si ricongiungono alla frase principale sospesa, avendo però abbracciato una più vasta porzione di mondo.
Il Lycée Français, ovvero l’esilio turco e l’opera lì scritta da Erich Auerbach, riprende la questione con cui si apre Mimesis nel capitolo “La cicatrice di Ulisse”. La questione si formula così: l’Odissea (la voce greca) descrive, rischiara e nomina tutto quello che è materia del suo raccontare; nessun dettaglio è trascurato, ogni oggetto merita di essere nominato e qualificato, ogni azione è notata e limpidamente descritta. Versione ottimista della letteratura. Tutto è conoscibile e dicibile. La Bibbia (la voce ebraica, l’altra voce originaria) è reticente, laconica, muta sui dettagli, lacunosa, opaca, addirittura oscura: è una voce da interpretare, da commentare, da completare. È opinione di Auerbach che questa sia la voce più adatta a rappresentare la vita e la realtà come si presentano. L’episodio biblico portato ad esempio è la richiesta di Dio ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco; il racconto è stringatissimo, i dettagli sono aboliti e i motivi taciuti. Versione pessimista, enigmatica della letteratura.
L’educazione delle fanciulle è un trattato di Fénelon ma non è l’oggetto di questo capitolo; l’oggetto è un altro, sono Le avventure di Telemaco: “continuazione laterale” dell’Odissea. A Telemaco sono dedicati i primi quattro libri del Poema antico, poi silenzio su Telemaco, finché non lo ritroviamo a Itaca, dove intanto è sbarcato Ulisse, in incognito, dopo venti anni di guerra e peregrinazioni. Silenzio fino al libro XV dedicato ai ritrovamenti familiari, cautamente dilazionati da Ulisse avvertito della fine di Agamennone. Fénelon riempie questo silenzio raccontando un grand tour istruttivo di Telemaco, lungo il Mediterraneo, accompagnato da Mentore, in realtà la dea Atena, e istruendo allo stesso tempo il suo regale lettore, il Delfino di Francia, su come debba essere un buon re: pacifico, sobrio, generoso, casto e misericordioso. Quel che non era Luigi XIV, che lo punì. Si trovano così in questo celebratissimo libro: uno speculum principis, un romanzo di formazione, un romanzo d’avventura e un romanzo familiare con un’enfasi speciale sul rapporto padre e figlio.
Faccio anch’io una digressione: nel 1922, un giovane e brillantissimo Louis Aragon pubblicò una riscrittura “correttiva” del libro di Fénelon con lo stesso titolo e con intenti di parodia, un burlesque, insistendo su audaci combinazioni erotiche tra ninfe e dee e Telemaco, e inventando una lingua già surrealista, a derisione, forse per invidia, della bella armonia classica di Fénelon. Sul filo del nome Fénelon, Daniel Mendelsohn devia, da equilibrista, verso un amico di Proust, Bertrand de Salignac-Fénelon, diplomatico in sede a Istanbul (dove l’esule Auerbach, negli anni ´40 del Novecento, scrive il suo capolavoro, in fuga dalla Germania. Insegnò in quella Università che era priva, però, di una biblioteca per la ricerca, carenza che si rivelò provvidenziale per non venire soffocato da una schiacciante bibliografia), e dunque questo discendente del dolce arcivescovo è un altro être de fuite, come lo sarà Albertine e oggetto di un’amicizia amorosa appassionata da parte di Proust, non ricambiata come è fatale negli amori proustiani. Bertrand de Fénelon è, come si dice, l’“originale” di un seducente personaggio della Recherche: Robert de Saint-Loup, il coetaneo al quale il Narratore deve la prima esperienza di un’entusiasmante amicizia e del suo tenebroso rovescio, la delusione; la doppiezza è iscritta nello stesso cognome dell’amico: saint e loup!
La Turchia sarà evocata in altre digressioni, e soprattutto per la traduzione in turco e il successo in quei luoghi delle Avventure di Telemaco, al punto da rendere Telemàk un nuovo nome per bambini ottomani. E non parlerò delle pagine dedicate all’esodo di eruditi bizantini verso l’Italia, dopo la conquista turca di Bisanzio che riaprì l’Occidente allo studio della Grecia antica, con memorabili edizioni di Omero, di Platone e dei tragediografi, e con preziosissimi manoscritti.
Il terzo capitolo s’intitola Il Tempio, quello di Gerusalemme, distrutto due volte dalle fondamenta. Lo scrittore di cui si parla in questo capitolo è G.W. Sebald, e il libro è Gli anelli di Saturno. La questione fondamentale che pone Sebald è “la futilità di qualsiasi tentativo di ricollegarsi al passato, ancor meno di ricostruirlo, e men che mai di ricostruire quel che è stato distrutto dal tempo e da altre forze”. Questo doppio sentimento di vacuità e di fallimento viene raccontato con due esempi di passione ossessiva per il modellismo, poi scomparsa di colpo o esauritasi per malinconia. Il primo caso riguarda il giovane Mendelsohn, modellista accanito del Partenone; diventato adolescente la nuova passione “ossessiva” divenne la letteratura antica. Il progetto di una resurrezione restaurata del monumento da febbrile divenne insensato, e il modello superfluo. Così accade anche all’agricoltore inglese che è molto avanti, come racconta a Sebald, nella ricostruzione (quanto mai ipotetica) del grande Tempio e che è oppresso da un senso di fallimento e di stare costruendo una cosa morta.
In un giro ininterrotto di digressioni, Sebald perlustra un universo deperito, entropico e morente. Un’immagine definisce bene questo universo sminuito: in una grande casa disadorna e trascurata e in un parco diventato foresta, vive un’aristocratica famiglia anglo-irlandese, impoverita, e prigioniera di un’accidia insormontabile, lì Sebald incontra delle giovani ragazze che, con degli scampoli di sontuosi broccati cuciono meravigliosi copriletti che poi disfano per ricominciare daccapo; sembra il gesto di Penelope, ma quello che manca è l’attesa; qui il tempo è bloccato nella ripetizione.
Accennerò ora agli altri due libri di Daniel Mendelsohn: Gli Scomparsi, Einaudi 2018 (The lost. The search for six and six million); e Un’Odissea, un padre, un figlio e un’epopea, Einaudi 2018 (An Odissey. A Father, a Son and an Epic).
Gli Scomparsi raccontano la ricerca dello scrittore, ostinata e tortuosa, per ritrovare nello sterminato massacro di ebrei a metà del Novecento, notizie certe sulla vita e la sorte di sei suoi familiari rimasti troppo a lungo nella cittadina polacca in cui vivevano da molte generazioni. Sei vite su sei milioni di scomparsi. La disperata (disperata perché si dispera di avere un risultato, pur interiorizzando tutto l’orrore della storia) ricerca è fatta di incontri con i pochi sopravvissuti di quella comunità; con la loro fragile memoria, e poi di archivi e di visite nei luoghi stessi degli avvenimenti; qui Mendelsohn, claustrofobico, fa un’esperienza mortifera, si cala nella cantina sotterranea di una casa, terribilmente angusta, dove si erano nascosti il suo prozio e la figlia per giorni e giorni, muti ed immobili; poi, forse traditi, erano stati scoperti e massacrati. Il racconto è accompagnato dalle voci familiari dei nonni, detentori di ricordi e affabulatori di un passato lieto e onorevole, e dalle voci sapientissime di antichi rabbini che aiutano a decifrare i passi più ardui della Bibbia.
Il filo in più, quello riflessivo e intellettuale, è costante nei racconti di Mendelsohn.
Infine, Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea: un professore di letteratura greca tiene un seminario sull’Odissea in un college americano, a un piccolo gruppo di giovani matricole. Sorprendentemente, il padre ottantenne chiede di partecipare al seminario. Nel corso del semestre il lettore incomincerà a conoscere questo padre e lo stesso accadrà al figlio narratore. Egli lo conoscerà nella sua ostilità a Ulisse, al quale rifiuta lo statuto e la statura di eroe: Ulisse è bugiardo, infedele, ingeneroso, egoista! Per la franchezza con cui si esprime, e per l’intimità con cui entra nella storia ottiene un gran successo con gli studenti, e il figlio dovrà rivedere le sue idee sul padre. Il ritratto ne varietur che il figlio ha in mente è quello di un uomo non espansivo, distante, severo, laborioso, pignolo sui doveri, con un accento del Bronx; un matematico apprezzato ma senza interessi per le arti. Molti elementi di questo ritratto saranno smentiti dal suo successo nel Seminario e da quello, addirittura mondano, durante la crociera che padre e figlio faranno insieme “sulle tracce di Ulisse”. L’Odissea è il filo che imbastisce tutto il racconto ed è un buon terreno per ribaltare il rapporto tra padre e figlio, in un alternarsi di ammirazione e di irritazione, di pregiudizi e di rivelazioni. Tra il seminario e la crociera, con la mediazione di Ulisse il padre mostra la sua parte nascosta e il figlio finalmente la vede: la pudicizia degli affetti, la timidezza del corpo, la discrezione dei gesti, il gusto della perseveranza e dello sforzo, una fame intellettuale mai davvero saziata e una giovinezza istruita dal dolore.
Premio Malaparte – Capri 2 ottobre 2022