Quintetto d’estate

di Giuseppe Raudino

L’assiolo non accennava a smettere. Il suo verso copriva perfino il suono incalzante delle spazzole sul piatto. Un sorso e poi un altro ancora lo riportarono a quella notte d’autunno inoltrato, quando il ritmo della serata veniva scandito anche dal percussionista che accompagnava Chet Baker. Ileana non aveva voluto allontanarsi dalla stufa – si era infreddolita sulla moto – e diceva di essere stanchissima. Allora Stefano scostò le due poltrone e srotolò un materassino proprio sul pavimento davanti alla stufa, adagiandoci sopra due, tre plaid.
Ileana aveva deciso.

«Vieni qui» disse dopo essersi seduta sul materasso e vedendo lui che stava per tornare sulla poltrona.

Stefano si sedette dietro di lei e l’abbracciò. Le baciò i capelli. Poi scostò i capelli e le baciò il collo, vicino alla nuca. Ileana rabbrividì, come se le vibrazioni latenti di quando erano arrivati avessero avuto un’impennata, al pari di un motore silenzioso al quale si dà bruscamente gas.
Al secondo bacio andò meglio; al terzo i brividi cominciarono a diminuire e il desiderio a crescere. Mentre Stefano le sfilava il maglione, Ileana afferrò una coperta e la mise sulle spalle di entrambi. Quasi nudo, Stefano si alzò per infilare l’ultimo ciocco di legno nella stufa e richiudere velocemente lo sportellino, per poi tornare subito da Ileana, che nel frattempo si era sdraiata e lo invitava su di sé tendendo appena le braccia.
«Fa’ in fretta, ché sento freddo» comandò lei. «Vieni a scaldarmi».
Per il ragazzo fu un ordine dolcissimo da eseguire, come se qualcuno lo avesse costretto ad assaggiare un miele prelibato. Mentre facevano l’amore, i loro occhi si incrociavano sporadicamente; quando il suo sguardo vagava altrove, si posava sul rame dorato dei suoi capelli, che in quel momento parevano avere un profumo melato, e sulla fronte, dove mancava l’incavatura del naso. L’affanno del respiro, insieme col calore della stufa troppo vicina, accesero le sue guance come la buccia di certe mele appetitose.
Solo dopo l’amplesso, il corpo di Ileana cadde in una quiete profonda. Non tremava più, non era più scossa dall’incertezza che ogni slancio verso una nuova storia comporta.

***

Arrivarono senza soste intermedie a Messina. Lo Ionio, alla loro destra, li aveva accompagnati per quasi tutto il tempo, offrendo il suo azzurro intenso come segno di profondità e potenza. Al di là dello stesso mare, a cinquecento chilometri, c’erano la Grecia e le sue isole, Zante, Itaca e Cefalonia, che fanno da guardia all’ingresso del golfo di Patrasso, collegato al lungo porto di Corinto. Proprio da Corinto, guidati da Archia, erano partiti i primi coloni che avrebbero fondato Siracusa sull’isola di Ortigia ventisette secoli prima.
Il maestro, che amava Siracusa e la sua storia, gettando uno sguardo al mare, si chiedeva quali misteriosi segreti fossero sepolti lì sotto per sempre e di quali affascinanti avventure erano state testimoni le onde che sospinsero le triremi greche alla conquista della Magna Grecia.
Imbarcato il camper sul traghetto, salirono tutti sul ponte per sgranchirsi le gambe. Il maestro si avviò sulla fiancata est della nave e si affacciò per ammirare meglio il mare. Sull’altra fiancata, il Tirreno non lo interessava, voleva soltanto respirare il profumo dello Ionio, immergersi nei suoi colori e ammirare le sue profondità tenebrose. Il vento sullo stretto spirava caparbiamente.
Ileana si avvicinò al maestro, che si accorse di lei per il profumo di gelsomino misto a cedro e muschio. Ileana parve che al maestro fosse spuntata qualche lacrima di tristezza o di malinconia, non una di quelle che vengono fuori da occhi arrossati per il troppo vento.
«Eccoti, bella» le disse cambiando espressione, dopo essersi strofinato gli zigomi con il polso «ci mancavi tu a completare il quadro ionico dell’antica Grecia».
Il maestro aveva questo modo di porsi: enigmatico, pieno di sensi nascosti. Chi si accontentava della superficialità lo ascoltava e basta, senza capire, ma i suoi veri allievi erano invitati a tirar fuori da lui la conoscenza, facendo domande.
«In che senso, maestro?» chiese Ileana, ma gli altri quattro si erano già avvicinati perché non era l’unica ad aver sentito quell’affermazione e a voler conoscere il seguito.
«Questo pomeriggio in autostrada gettavo qualche occhiata al mare, e in primo piano avevo i piedi di Calliroe. Lo sapete che ha un piede greco, vero? L’avevate notato? Si vede anche quando indossa i sandali. Ecco, allora ho collegato subito il piede al mare greco. Poco fa mi è capitato di ascoltare Martina che utilizzava una sferza di parole dialettali che derivano dal greco: ’ntamatu, vastasu, babbiari. Ora, mentre guardo Messina allontanarsi, sullo sfondo ci sono la città e il suo mare, e in primo piano il tuo profilo, Ileana, un profilo elegante, fine, gentile. Un profilo greco. Ci avete mai fatto caso che tutto ciò che è comunemente ritenuto greco ha un’accezione di bellezza e armonia? Il naso greco e il piede greco sono considerati belli. Peculiari, ma belli. Almeno da chi se ne intende, come la totalità dei pittori classici. Trovatemi un quadro in cui la bellezza femminile venga dipinta senza che i piedi e il profilo siano alla greca».
I ragazzi già smanettavano col cellulare per scaricare immagini di dipinti di Tiziano e Caravaggio per zoomare sulle dita dei piedi e sui nasi.
«Ha ragione, maestro» disse Fabrizio.
«Eh già» disse il maestro con tono sardonico, «ma non lo sapevi che il maestro ha sempre ragione? Specialmente quando ha torto».
Stefano si guardava bene dal commentare: mezza parola sbagliata avrebbe potuto liberare tutto il sarcasmo del maestro, che lo avrebbe fulminato e coperto di ridicolo.
«Comunque, c’è anche un’altra cosa, oltre al profilo greco di Ileana: il flauto. Le navi da guerra greche, le temute triremi, avevano a bordo un flautista, chiamato aulete, che, suonando, dava il ritmo ai rematori. Immaginate quanto poteva essere difficile per centocinquanta rematori muovere i remi in perfetta sincronia. La musica aiutava i greci anche nelle cose pratiche della vita. Il mondo senza musica sparirebbe».
«Che tipo di flauto usavano i greci?» chiese Fabrizio.
«Te lo spiego quando non ci sono le ragazze» ironizzò il maestro.
La sirena del traghetto suonò con prepotenza e si impose violentemente alle orecchie di tutti i passeggeri. Come tanti rumori del mondo caotico e moderno, la sirena penetrava i timpani senza dare scampo agli ascoltatori non consenzienti, allo stesso modo del traffico o delle chiacchiere da bar.

NdR: il brano che precede è tratto da “Quintetto d’estate”, di Giuseppe Raudino (Ianieri Edizioni, 2022)

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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