“L’Arbulu nostru” di Giuseppe Cinà

di Daniele Ventre

L’àrbulu nostru (La Vita Felice ed., gennaio 2022) non è la prima prova poetica di Giuseppe Cinà, che per i tipi di Manni aveva dato alla luce, nel 2020, A macchia e u jardinu.  Protagonista di entrambe le sillogi è l’ulivo, la pianta mediterranea già totem di Atena, santificata da una tradizione plurimillenaria che va dalla tradizione omerica ai Vangeli. La trama armonica di entrambe le opere è il dialetto siciliano, che sottende, in parallelo alla trama di archetipi che si addensa intorno all’ulivo, una tradizione perfettamente simmetrica: la Sicilia è la terra della reinvenzione teocritea della campagna; è la terra in cui le sonorità del dialetto (greco) dorico teocriteo, con i suoi chiaroscuri fonetici, si sono poi tradotte, nelle ecloghe del Meli, in un dialetto neolatino, in cui le opposizioni fonemiche fra vocali chiare e vocali chiuse sono altrettanto forti e nette.

Che sia questo, come per altri autori in vernacolo siciliano (si pensi ad Alessio Di Giovanni) il senso profondo della scrittura siciliana di Cinà, lo ha chiarito a suo tempo l’autore a margine de A macchia e u jardino: la scelta di tale codice espressivo: “…è stata solo in parte ricercata, per il resto è emersa naturalmente in corrispondenza ai due motivi poetici dominanti: la natura e il dialetto. Il racconto della natura, qui intesa come comunità di viventi, si sostanzia nel continuo confronto tra selvaggio e domestico … A sua volta, il dialetto viene posto al centro delle scelte formali della composizione piegando i versi alle parole e alle cadenze proprie del siciliano…”.

Questa spontanea dimensione poietica della tradizione siceliota non è, per Cinà, architetto e urbanista poi tornato, dagli anni ’90, alle sue origini, una veste esteriore: si tratta piuttosto di una dimensione esistenziale rivissuta e ricreata nel quotidiano, da quando l’autore ha intrapreso la coltivazione del suo uliveto presso la Riserva dello Zingaro. Prima ancora che attraverso la parola, è nella sua ridefinizione esistenziale, nel suo attuarsi attraverso il lavoro che Cinà ha percorso un cammino à rebours dalla fluidità ipermoderna alle radici del modello ad albero dei miti di fondazione delle culture umane.

In quest’ottica, quello di Cinà è effettivamente un ritorno di matrice odissiaca e ciclica, un nostos nel pieno senso della parola: non è il nostos di tante nostalgie ideologiche fondata su identità tossiche strumentali e oppositive, ma è il ritorno creativo, ciclico, sottotrama dei ricorsi storici vichiani rifondatori di civiltà, o in senso più lato è una riscoperta di radici gravide di futuro. Il nostos antico, nel senso pieno, non ha nulla a che vedere con il degrado insito nella reazione, ma è sempre prospettivo, poiché è ristabilimento di una durata nel solco vitale dell’ordine di natura.

Se in A macchia e u jardino, la contrapposizione fra il “selvaggio” e l’antropizzazione (più o meno virtuosa) del paesaggio si ipostatizzava nella dialettica fra la scomposta macchia mediterranea e l’armonia cromatica e architettonica verde dei giardini, ora  è l’ulivo come tale il correlativo oggettivo di una dialettica potenzialmente distruttiva ed esclusiva fra natura arborea, implicitamente divina e “datrice di beni” (per richiamare una formula omerica ed esiodea) e paese guasto, male umanizzato, dell’antropocene. Testimoniano l’evolversi di questa dialettica le quattro sezioni di cui L’arbulu nostru si compone, e i loro ominosi titoli in esergo: 1) Semu ancora vivi, dàmunni aiutu!; 2) In campagna li filosofi abbunnàvanu; 3) L’aùgghia e lu filu di la natura sempri nnammurata;  4) Nna li marchiggi di la fàvula ingannatura unni si joca na partita truccata.

Il tema della terra desolata e del sacrilego dell’uomo è centrale nei versi di Cinà: “A dda èbbica l’alivi sacri èranu chiossà/li tirreni unni criscìanu ora sunnu/sdisulati…”,  versi de L’imputato di sagrilèggiu in cui risuonano come ipogrammi, ma denudate di ogni connotazione comico-realistica, parole cavate da Petronio e dai suoi colliberti (Satyr. 44: religiosi non sumus. agri iacent), ma anche da Lucano (Phars. I, 29: desuntque manus poscentibus arvis). Il sacrilegio dell’uomo contemporaneo come devastatore della natura, si rivela come desolazione di un paese guasto, ma è in altri momenti dell’opera che rivela la sua natura profonda. In “Lu filòsofu”, troviamo ad esempio un Empedocle che nell’atto di insegnare agli acragantini la sua segreta sapienza tramata di visioni orfiche: centrale in questa sapienza è anzitutto l’idea del tempo, di cui l’uomo ha una percezione soggettiva distorta e distorcente: “(…) Nuatri pinzamu a lu futuru comu siddu  avìssimu/ a campari sempri ma manciamu allafannati/ comu siddu avissimu a mòriri dumani/ e unn addunamu comu fui lu tempu,/Pinzamu di aviri un principiu e na fini,/ ma lu fattu è che li cosi murtali un nàscinu/e un mòrinu mai ma càncianu e scàncianu/spartènnusi e mmiscànnusi perennementi/secunnu ca l’amuri li junci e l’òdiu li contraponi…” La filosofia di Empedocle è qui perfettamente rievocata, nella sua oscillazione pendolare fra furente contesa e intima connessione della philía, ma sottotraccia non è questo il nucleo tematico effettivo; piuttosto Cinà sembra evocare un peccato di hybris basato sulla torsione ontologica per cui l’uomo si vede sconnesso, reciso dal fluire della physis, e quindi è in preda alla lotta fra quello che sotto altro cielo i buddhisti chiamerebbero attaccamento all’impermanenza e una pretesa di eternità malsana e malintesa. Ne deriva all’uomo un senso indebito di appropriazione, invasione e stupro della realtà naturale. Se l’olivo è la fondazione arborea del flusso di tutto ciò che vive, della “natura’nnammurata” (Zagara d’alivu), che fa da teatro alla democrazia spontanea delle comunità primordiali la cui attività si centra attorno alla rotazione molitoria dei palmenti del frantoio  (Lu cuntastori de lu parmentu), l’azione dell’uomo moderno recide, abbatte, tronca questa continuità, come in Motosega Stihl MS 170  (“li  rami/càdinu nna lu celu ca si sbalanza/comu un  sipariu a fini tragedia”).

Se si pensa che un capitolo essenziale della storia dell’ulivo è rappresentato dall’orazione Per l’ulivo sacro di Lisia, in cui si dibatte della colpa di aver sradicato un sēkós, ovvero un tronco di olivo sacro posto al limite del campo, è facile intendere quale sia il senso profondo di quest’ultimo testo, nell’economia complessiva dell’opera di Giuseppe Cinà: il tronco abbattuto (iam fracta cacumina, per citare Virgilio) è il senhal della violazione nichilistica e annientatrice dell’azione umana, nel tempo della desolazione. L’uomo separa ciò che non deve essere separato, e viola, nel contempo, la separatezza del sacro, che con il sēkós, il ceppo d’olivo sacro divisorio dei campi, ha in comune la radice indoeuropea *sak-, quella a partire dalla quale il sacro stesso si definisce come spazio a sé rispetto alle verità ordinarie. Ne L’Arbulu nostru, si inscena così la tragedia definitiva della morte del divino, o meglio del suo assassinio per mano umana armata di tecnologia deviata dal suo scopo primario.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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