Circolarità senza ritorno ne “Le meduse di Dohrn” di Carmine de Falco

di Daniele Ventre

“Le Meduse di Dohrn è un’opera interamente Covid-free, che si è stratificata negli anni ed è frutto di innumerevoli incontri…”. Esordire, nella recensione e nell’analisi di un’opera in versi, citando l’incipit della postilla finale di ringraziamento dell’autore può suonare quantomeno anomalo, eppure poche formule critiche (se si escludono i precisi sondaggi testuali della fulminea postfazione al libro che dobbiamo a Ferdinando Tricarico) sono più illuminanti di questa definizione che l’autore stesso, Carmine De Falco, dà della sua raccolta, uscita due anni fa per i tipi di Bertoni ed. e oggetto, nel settembre scorso, di nuovi eventi di presentazione e lettura pubblica, dopo lo stop della pandemia.

La stratificazione e la contaminazione di esperienze critico-letterarie ed esistenziali sono due cifre distintive dell’attività letteraria di De Falco: costituiscono la radice della sua peculiare militanza poetica (di qui fra l’altro l’occasione della consonanza con un poeta par excellence militante, come Tricarico, post-fatore dei versi) e la misura dell’aderenza alla realtà (giustamente messa in evidenza da Luca Ariano nella prefazione al volume) ne plasma il suono e la sostanza, come per effetto pressorio di forza tellurica su roccia metamorfica o dolomia in emersione. Il lento lavorio di sedimentazione, stratificazione, emersione/emergenza tettonica, compressione e metamorfosi è in effetti la natura stessa del processo di elimazione che ha agito sui versi de Le Meduse di Dohrn, titolo che fa delle meduse della stazione zoologica “Anton Dohrn” della villa comunale di Napoli, e allusivamente del proliferare di meduse nel golfo di Napoli, la marca e la traccia dell’atmosfera da apocalisse climatica e ambientale che segna il secolo attuale, figlio storico aberrante del Novecento dell’atomo e della Luna.

Le tre sezioni in cui la raccolta si ripartisce si saldano in quella tragedia annunciata in tre atti che è, come si è appena detto, il declino geofisico e biologico del pianeta. Il degrado del clima e del bioma segue in parallelo il disfarsi della civiltà umana, ne è il portato, il teatro, la causa e l’effetto che rafforza la causa. La prima sezione, Poesie dei dopo disastri annunciati, assume sin dalle parole dell’esergo in corsivo, la struttura di un romanzo distopico in versi. La degradazione glaceologica della distesa gelata di Okjökull, primo ghiacciaio islandese a deliquiare dalla sua natura di ghiacciaio propriamente detto, è il primo istante di un processo per cui “nei prossimi 200 anni tutti i nostri ghiacciai seguiranno il medesimo destino”. L’esergo è una lettera a un anomalo “tu” lirico di questo remoto futuro, l’unico che saprà effettivamente se ciò che era necessario fare adesso per il cambiamento climatico, è stato effettivamente messo in opera. La sezione che così si inaugura, si incentra sull’immagine del ritorno distopico, discronico e disontologico al caos primitivo, all’indistinto, a un’impropria concordia degli elementi. Simbolo e correlativo oggettivo di tale dimensione post-catastrofica è lo “sfero” empedocleo evocato in “Perma-nere è parola umana” (pag. 19). Il feroce neikos, conflitto endemico, biologico e climatico, si conclude nell’estinzione dell’umano: un’estinzione che è, alla lettera, nirvana dell’ecosistema ridotto, per precisare la citazione da Empedocle, a “sfero rotondo che di sua avvolgente solitudine gode” (fr. 31 DK). In questo sub-antropocente, o post-antropocene, la natura apocalittica del messaggio alla base del primo quadro della tragedia delle Meduse di Dohrn si palesa nell’enunciato per cui “Nel lungo l’umano è destinato/a non ritornare, resta solo il divino/.” L’orizzonte è il superamento delle “macerie antropoceniche” verso intelligenze articiali che guarderanno all’uomo attuale come all’enigma di un creatore dalla psykhé imperscrutabile. Più avanti il cyborg, il robot futuro, l’evoluzione imprevista della biologia artificiale, quasi richiamo del Bradbury di Where Robot Mice and Robot Men Run Round in Robot Towns interagisce con questo muto interlocutore, creatore destruente, che è l’uomo, lo Shiva della techne e del bioma. “Il robot ti chiede:/ perché mi fai questo?/ È programmato per lamentarsi/ e stimolare il tuo moralismo un tanto al chilo… Non basta saper programmare/ per semplificare i conflitti, le colpe…”: così in “Il robot ti chiede” (p. 39), questo abnorme e inopinato complesso di Frankenstein assume connotati metafisici ed etici imprevisti, e la creatura bio-meccanica, come nelle Visioni di Robot asimoviane, si pone come sostituto moralmente più degno del suo feroce e grezzo predecessore, in una sorta di redenzione estropiana, oltre la catastrofe.

Un altro elemento di coalescenza della natura dello sfero planetario degradato, affiora qua e là fra le pieghe delle Poesie dei dopo disastri annunciati, ed è l’avvolgimennto vorticoso del tempo su se stesso. Il tempo arrotolato a coclea si fa dimensione implosa nel subatomico, ma anche coclea di ascolto e risonanza della natura del reale al principio della seconda sezione, Quadre danesi: così in “La città si allarga bassa” (p. 51), le strutture urbane della Metropolis à la Fritz Lang che in ogni selva di grattacieli è possibile ravvisare, stanno “a testimoniare/ l’offesa dell’arrivo, dell’essere arrivati/ Capsula di metallo e vetro verticale/ che sinuosa ammica a futurismi che furono”. La dinamica di evoluzione temporale sottesa ai verbi e ai sostantivi deverbali, in questi versi, oscilla continuamente fra durata attuale (“arrivo”), sostantivazione-ipostatizzazione-congelamento dello stato derivante da un perfetto logico-resultativo (“l’essere arrivati”), paradosso di una figura etimologica fra passato remoto e derivato di un residuo di participio prospettivo-destinativo (“futurismi che furono”). Non è un caso che per tutte le situazioni poetiche di Quadre danesi, dopo questo esordio, si assista alla presentificazione delle cose, eleaticamente blindate e candite nel presente gnomico (e nella sua variante resultativa del passato prossimo): così accade per esempio nei lunghi versi atonali di “15 Gennaio 2018 // Trianglen 3,4 TH // (p. 54). Coclearità temporale e presentificazione, che agivano sottotraccia, come sottofondo costante dei “dopo disastri annunciati”, costituiscono insieme il tema sinfonico/disfonico dominante di Quadre danesi, attraversando e unificando le diverse note della tastiera linguistica di De Falco, dall’inglese tramato di fair play aziendale al napoletano, passando per gli esotismi dei toponimi scandinavi. Così la Metropolis del tempo imploso dei “futurismi che furono” ritorna come immagine di metropoli nordica evocata in vernacolo in “Te si miso into’ stritto” (p. 75 s.): “Ma pe ttramente ca sta struttura ‘e stu palazzo/ s’arravoglia attuorno attuorno, i veco ‘o viento… venì a sunà a morte…”). Il vernacolo ha per De Falco e la sua trasmigrazione nord-europea il sapore di un nostos, di un ritorno, ma in realtà questo ritorno non è compiuto. Di fatto, la struttura di Quadre danesi segue il classico schema della Ringkomposition, ma la circolarità è, appunto cocleare, futurismo che fu, futuro passato che non si invererà, ciclicità senza ritorno.

La chiusa delle Quadre, con il suo richiamo alla quotidianità vernacolare, apre a una dimensione più terrena e di più concreta prossimità esistenziale, quella delle Sature, titolo di evidente sapore montaliano della terza e ultima sezione de Le meduse di Dohrn”. Le indicazioni cronologiche e bibliografiche presenti qua e là nella raccolta indicano la sua natura sedimentaria, a cui abbiamo accennato al principio: in Sature l’arco temporale delle poesie aggregate è disseminato nello spazio di oltre un ventennio, dal Grande paesaggio napoletano all’Assolato blues del sud, fino ad arrivare ai componimenti recenziori. Ciò che però colpisce, in Sature, è il salvataggio di quel che resta della dimensione storica umana nelle periferie del mondo e della modernità liquefatta (più che liquida). I luoghi evocati definiscono una costellazione di realtà urbane, dimensioni normative e modi di vita para-moderni, o se si vuole sub-moderni e dunque potenzialmente sottratti, per loro natura intrinseca, alla deriva della metropolis verso il collasso. Si tratta di una salvezza parziale, su piani ideali, dato che il mutamento climatico in atto rischia di travolgere tutto. Nello stesso tempo, però, gli spazi di Sature evocano, se ci si permette un’analogia storica impropria, quelle comunità periferiche che sarebbero sopravvissute alla crisi dell’età del bronzo, e più tardi del mondo antico, come spore in ibernazione destinate a germogliare nella classicità ellenica e nel rinascimento. Un testo emblematico in tal senso è A Livingston nessuno fa il bagno, già da noi in precedenza esaminato come esempio di una dimensione poetica ed esistenziale alternativa parallela, a una certa chiave di lettura del postmoderno e della ricerca letteraria.

Questa è però solo una delle chiavi di lettura di Sature, che in tutto il libro è la sezione che meno si presta, se mai vi si prestano le altre due, al tentativo di racchiuderne gli stimoli e le prospettive in una formula conclusiva. L’aggregato verbale e cosale, stico-prosastico come quello del Mazzonis di Vocazione del superstite, di Grande paesaggio napoletano, con mescidanza di vernacolo e lingua standard da maniera del gruppo ’93 rivisitata e ripensata (p.79), cede il passo ai versi atonali de “Le formiche argentine”, in cui forse non è del tutto azzardato leggere una mini-contro-parodia omaggio de Le api migratori di un Raos, per poi transitare verso il tono, fra l’operetta morale e il grande idillio decostruito, di “Dialogo tra albanesi su un kosovaro in Finlandia”, chiudendosi subito dopo nella contro-lirica di “immaginaria immensa nave da crociera”, quasi riscrittura frammentaria, da anti-Alceo, della nave del mondo umano come deriva sociale, salvo riaprirsi alla franca satira del neoliberismo e dell’impero debitorio della Troika (pp. 84 s.) a cui succede, giocoforza, il panorama carnale e sessuale mercificato di “Amazzoni esili e giovani”, e ancora, procedendo, il richiamo al Pagliarani di Rudi (“posso dirlo, Rudi è morto”), la contrapposizione fra la sognante Livingston del Guatemala e il gelo del consumismo tecnologico (“Non credi sia perverso sapere/ che hai trentasei milioni di colori” p. 91). Emblema di queste molteplici forme dell’esistente (e dei loro agganci metatestuali e intertestuali) è forse Quadretti impoetici di condizioni diverse e umane (pp. 104-106) a riassumere nel suo titolo ominoso il senso ultimo di questa sezione così disseminata, posta in coda, figlia dell’ontogenesi di de Falco come poeta a partire dall’assimilazione delle fasi di transizione fra la fine del secolo breve e l’inizio del secolo folle. Da questo punto di vista è proprio il terzo e ultimo quadro, culminante in una voluta dichiarazione di impoeticità, a definire la circolarità senza ritorno de Le meduse di Dohrn come quella dimensione in cui si dispera dell’antico progetto calviniano di proteggere, far durare, espandere con le unghie e con i denti, e con volontà resistenziale, i luoghi che nell’inferno globale ancora inferni non sono. Come rifugi dalla peste della modernità degradata e declinante e del suo cambiamento climatico (e delle pandemie che poco dopo l’ultimazione del libro avrebbero preso l’abbrivo), non si può più escogitare nel locus amoenus di una villa boccacciana l’ideale location salvifica dello spirito. Solo in brevi assurdi istanti tanto quotidiani quanto improbabili è dato all’uomo trovare rifugio dalla disgregazione cosmica che egli stesso ha avviato.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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