Lontano
di Serena Penni
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Ormai mi sono rassegnata. Morirò di fame in un appartamento pieno di oggetti inutili. Nessuno mi ricorderà. Conoscere Arianna è stata la mia salvezza e la mia condanna. Ci siamo incontrate in una strada di Forte dei Marmi. Era una sera umida di fine estate. Lei indossava una canottiera di paillette azzurre e una gonna cortissima. Aveva la carnagione chiara, i capelli ricci, castani con riflessi ramati, e la faccia molto truccata. Portava una collana di brillanti. Camminava leggermente incerta su dei tacchi a spillo. Mi dissi che sarebbe stato divertente vederla inciampare. Il suo profumo stucchevole e dolciastro, come di fiori appassiti, mi fece venire voglia di vomitare già da qualche metro di distanza. Solo quando la ebbi molto vicina e la luce gialla del lampione le illuminò la faccia, mi accorsi di quanto fossero dolci e tristi i suoi occhi.
– “Non piangere” – le dissi. Lei non mi sentì, ma di certo mi vide, perché la mattina dopo tornò a cercarmi. Mi offrì qualcosa da mangiare, poi andammo insieme a fare una passeggiata sul pontile. Mi raccontò dei lunghi pomeriggi passati a esercitarsi al pianoforte, del padre che, quando rincasava, la salutava sempre per prima accarezzandole i capelli, finché un giorno non era più tornato. Mi disse del funerale, del sole accecante, delle cicale, delle piante spinose, del castello di carta che era improvvisamente crollato e della montagna di incombenze, debiti, cambiali che, di lì a poco, aveva seppellito anche lei, sua madre e sua sorella. Naturalmente, mi parlò anche del mostro.
Se mi avessero detto che era l’ultima volta che vedevo il mare, l’avrei guardato con occhi diversi. Se mi avessero avvertita che per me, sul pontile, non ci sarebbero state più albe, né tramonti, né gabbiani, né lune, né onde bianche di schiuma, né zanzare, allora forse non avrei capito una parola di quello che Arianna mi diceva. Ma non ne sapevo nulla, e allora un po’ la ascoltavo, un po’ guardavo le barche che passavano, la gente che camminava sulla spiaggia, e un po’ mi perdevo nei miei pensieri. Mia madre, che da qualche tempo non si muoveva quasi più. Le difficoltà economiche: io e i miei fratelli facevamo fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Avevamo sempre fame; ma la fame di quei tempi era diversa da quella di oggi. Era più intensa e meno profonda. Di tanto in tanto osservavo Arianna, con il suo pareo intonato al costume e la borsa firmata, e pensavo che era curioso che una come lei si fosse accorta di me. Di solito la gente mi passa accanto e non mi vede neppure.
Credo che Arianna quella mattina abbia pronunciato il nome del mostro almeno un centinaio di volte. Non sapevo mai se scherzava o era seria. A un certo punto disse che lui le aveva impedito di portare avanti la sua carriera di pianista, ma subito dopo rise, agitando con la mano il fumo dell’ennesima sigaretta, e aggiunse che no, non era vero niente perché lei era una buona a nulla. – “Solo mio padre vedeva in me una promessa della musica, ma purtroppo anche lui apparteneva a un mondo che non esiste nella realtà. Se mi guardo attorno vedo soltanto me stessa riflessa in mille specchi, e una strada d’acqua e dolore che non porta da nessuna parte” –. A volte non la capivo, eppure il tono delle sue parole, il suono della sua voce mi dicevano che aveva fame anche lei, ma di qualcosa che non si poteva mettere in bocca, masticare. Quando mi chiese di seguirla in città – il giorno dopo sarebbero partiti – le risposi subito di sì. Pensai che forse amavo mia madre e i miei fratelli meno di quanto credevo. Ma il mio destino era questo e nient’altro che questo. Era vivere tutta la vita guardando il mare per arrivare un giorno a morire di fame in un appartamento stracolmo di roba superflua, ammassata negli angoli, sui divani, sui mobili.
Arianna venne a prendermi la mattina presto e mi portò nella sua casa con giardino, un giardino di fiori e di insetti. Quando il mostro mi vide, cominciò a urlare dicendo che di portarmi con loro non se ne parlava. Iniziai a odiarlo. Aveva un aspetto ripugnante, somigliava più a un animale che a un uomo, eppure era un uomo. Alla fine partimmo. Mi sono adattata abbastanza bene a vivere in città, anche se certo il mare mi mancava. Ad Arianna ho voluto più bene che a mia madre. Soprattutto, mi piaceva quando mi pettinava: allora sentivo tutto quello che aveva dentro – la sua storia, i sogni spezzati, la paura. Non scorderò mai i suoi occhi, che quando calava la sera si facevano del colore delle violette e diventavano ancora più dolci e tristi del solito. Ogni tanto, se il mostro non c’era, si sedeva al pianoforte e suonava per me. Allora io rivedevo il mare, le vele colorate, sentivo di nuovo l’odore del pesce appena pescato, della sabbia bagnata, del sale.
In inverno, se faceva troppo freddo per uscire, restavo giornate intere a osservare Arianna; soffrivo per lei, per la fame d’amore che portava scritta in faccia, per il fatto di non riuscire ad aiutarla. Credo di averla conosciuta meglio di chiunque altro. Quando si avvicinava una delle sue crisi, me ne accorgevo in anticipo. Spesso anche il mostro se ne rendeva conto, ma allora se ne andava di casa con una scusa, oppure si chiudeva nello studio con la sua musica idiota a volume altissimo. Io invece stavo con lei per tutto il tempo, le rimanevo accanto finché non si addormentava.
Arianna era bella, ma non si piaceva. C’era qualcosa, nel suo aspetto, che proprio non digeriva; probabilmente neppure lei sapeva cosa fosse. Io ho ipotizzato che la chiave del suo disprezzo di sé andasse cercata tra il naso e la bocca, ovvero dove la somiglianza con sua madre e con sua sorella era inequivocabile, come lei stessa mi aveva rivelato in un giorno di pioggia, dopo aver suonato Chopin. – “Loro sono qui” – aveva detto, facendo con l’indice un cerchio che andava dal mento all’attaccatura del naso – “mio padre invece dov’è? Non riesco a ritrovarlo”.
Arianna fece il test di gravidanza un pomeriggio di primavera. La sua urina ci rivelò che il miracolo era avvenuto. E non aveva importanza se era stato anche grazie al mostro. Fu allora che ebbi una visione e la mia gioia, che era nata insieme alla sua, svanì. Vidi l’urina diventare prima arancione, poi rosso sangue. La vidi uscire dal bicchiere, riempire il lavandino e infine gocciolare sul pavimento di piastrelle rosa. Sentii un odore forte, di ferro e di morte, che mi spaventò e mi diede il voltastomaco, così scappai via e cercai di dimenticare. Ben presto, però, tornai: non avrei mai potuto abbandonare Arianna.
Quando lo disse al mostro, lui si limitò a scuotere le spalle e a fare un’espressione che era insieme incredula e divertita. La stessa sera litigarono per via di una bolletta della luce e lei come sempre pianse. Ma era un pianto diverso dal solito, che rimaneva in superficie. Non mi sono mai spiegata come Arianna potesse amare il mostro. Eppure lo amava. Forse aveva a che fare con le sue crisi, con le troppe sigarette, con le ore trascorse a fissare il pianoforte senza riuscire a suonare una nota, con le giornate passate davanti allo specchio oppure alla finestra. La finestra. Mi fa ancora paura, non ho il coraggio di avvicinarmici.
È partito tutto da una lite come tante, il motivo forse non l’ho mai saputo. Poco prima avevano fatto l’amore. Li avevo sentiti discutere, poi Arianna mi aveva raggiunta in cucina e aveva infilato nello stereo un cd di musica per pianoforte. Aveva spalancato la finestra e si era messa a guardare fuori. Quando il mostro era apparso sulla soglia con un’aria distrutta e la faccia da cane rabbioso, lei si era girata nella sua direzione, lo aveva fissato per qualche istante ed era scoppiata a ridere. Finalmente era forte. Sapeva che non sarebbe più stata sola. Per la prima volta, lui le appariva il pagliaccio cattivo che era sempre stato. Fu una risata violenta come uno schiaffo, feroce come una coltellata. Vidi di nuovo il sangue, come il giorno del test di gravidanza. Tanto sangue, sulle sedie, sul tavolo, sulla tv, sul pavimento, sul pianoforte, nel cielo, dappertutto. – “Non ridere così, ti supplico” – avrei voluto gridare. La musica riempiva la stanza, pietosa e crudele nello stesso tempo. Ho visto e sentito tutto un attimo prima che accadesse ma naturalmente non è servito. Le mani del mostro contro il petto di Arianna e lei che, per istinto, cerca di restare attaccata al bordo della finestra però non ce la fa, così vola via come una farfalla. Una farfalla pesante, senza ali. L’urlo disperato, impotente. Poi il pianto ipocrita e vigliacco del mostro. La polizia. Le domande. Le valigie fatte di fretta perché – dice il mostro – la casa è maledetta, la casa è sofferenza e rimpianto.
Non saprò mai se il bambino avrebbe placato il bisogno d’amore che da troppo tempo Arianna portava dentro di sé, né se il mostro la farà franca, dichiarando che la sua compagna si è suicidata. Che per me era finita l’ho capito nel momento in cui lei è volata via. Ormai non so più quanto tempo è trascorso. Uso l’energia che mi resta per ricordare, per cercare ancora l’odore di lei sui cuscini, sulle tende, tra le lenzuola. Al mare nessuno muore di fame ma in città, chiusi in un appartamento dall’aria stantia, è diverso. Da giorni la mia ciotola del cibo è vuota. Per l’acqua mi arrangio ma da mangiare non è rimasto più nulla. Ormai la fine è vicina. I movimenti sono sempre più faticosi, persino la fame sta scomparendo, per lasciare il posto a un senso straziante di vuoto. Quando arriva la notte, mi accoccolo in un angolo del letto o del divano e faccio le fusa per volermi ancora un po’ di bene, per trovare la forza di morire da sola, senza volare.
Scrittura sempre raffinata e al tempo stesso inquietante, quella di Serena Penni. Ritrovo il tema del “vuoto”, come nel titolo omonimo del suo romanzo uscito nel 2019.
Mi è piaciuta molto l’atmosfera e anche il finale inaspettato, brava
Brava Serena! Racconto elegante, breve e toccante. Mi ricorda molto “il vuoto” nell’atmosfera generale.Complimenti.