Film Marylin
Paolo Gioli e Billy Wilder: due immagini, innanzitutto. Due immagini che trapassano lo schermo; e in effetti di trapasso si parla, dirottamento (in Gioli) di fotografie trasformate da provino per un’autopsia ad autopsia rianimata, in un “corpo a corpo” tra corpo e pellicola.
Filmarylin, Paolo Gioli, 1992 / Sunset Boulevard, Billy Wilder, 1950
Filmarylin, filmando Marylin come fosse davvero la prima volta (ma poi quello di Paolo Gioli è un cinema che si vuole disancorato dalla reminiscenza di un qualcos’altro cinematografico, che si vuole, per vocazione, quasi proto-filmico, non imponendo una gerarchia della visione ma suggerendo ogni volta “un’avventura percettiva” nuova, e insieme è un cinema che si lascia continuamente dietro tracce e tracce di tracce, “test” sulla visione); filmando Marylin come se «fossi stato io il primo ad entrare per primo nella sua stanza di morte», quindi come se fosse possibile restituire al corpo della trapassata Marylin (che qui è già morta due volte, sia perché siamo nel 1992 sia perché il libro da cui Gioli riesuma le foto è un grande catalogo asfittico di pose per la lapide) un volto che non sia quello parlato e vulnerato della fiction, ma un volto e un volto soltanto, non captabile dall’accumulo di re-visioni ideologiche.
Due immagini, ancora, due immagini non solo come piano di una violazione ubiqua, superficie immota e redditizia percossa dagli attrezzi dello scavo spettacolare che ne grattano il fondo, ma anche, al rovescio, come estensione deflagratoria, come trasalimento di un limite: “un volto che buca lo schermo”, che si caccia, emerge da uno spazio acquoso in cui i corpi sembrano galleggiare. Sunset Boulevard si apre e si chiude (ma qui sarebbe meglio dire: si spalanca) attraverso la medesima, migrante convivenza tra campo e fuoricampo (quello da cui – secondo E. Ghezzi – «sempre si parla fingendosi onniscienti»), e accade a Wilder di filmare (così come già aveva filmato l’aria tra gambe di Marylin) un altro volto iconico, sintesi di diciture e trivellazioni, quello cioè di Norma Desmond/Gloria Swanson, figura di quanto trabocca, buca, di quanto non è più – cinematograficamente («it’s the Pictures that got small») – contenibile.
Due immagini, allora, che finiscono per visitarsi, mandate in onda, alla deriva, insieme, come in una giuntura di dissolvenze/sovraimpressioni, come se si trattasse, infine, di aver girato lo stesso film, e sempre fuori tempo massimo, cominciando e ricominciando dalla caduta, da quanto vien meno. Forse è che in questo sottrarsi-essere sottratta, in questo aver “clamorosamente” mancato il tiro il punto il viale, che è possibile che la diva precipiti in donna, come nella Salomé di Laforgue: oltre il parapetto, e con un grido finalmente umano!