Una formula matematica? Che spavento!
di Antonio Sparzani
Voi cosa pensate quando vedete scritta sulla carta una formula matematica?
Il primo pensiero andrà forse a ricordi di scuola, complicazioni, cose per specialisti, scritture criptiche inventate per comunicare dei segreti che non si vuole diventino troppo condivisi, strumenti di un sapere iniziatico, astrusità, enigmi, cabale.
Anche se pensate così, l’importante è che il vostro secondo pensiero non sia quello di ritirarsi e rinunciare a capire questi enigmi, ma sia quello di distruggere la loro natura di enigma. Se un enigma diventa noto a tutti allora non è più un enigma, perde la sua natura, diventa una banalità che san tutti, un segreto di Pulcinella. Se questo pensiero vi sfiora o addirittura vi abita, dategli spazio, è un ottimo segnale. Si può proseguire e si possono immaginare analogie.
Se non conosceste la lingua nella quale questo testo è scritto, le sue pagine sarebbero per voi completamente misteriose, perfino strane, con tutti quei segnetti messi in fila e ogni tanto magari una figura altrettanto strana. Ma se invece siete dei parlanti nativi di questa lingua, se l’avete succhiata con il latte materno (e magari qualche bravo/a maestro/a vi ha insegnato i segnetti) e ha formato il veicolo della vostra entrata nel mondo, tutti i segnetti diventano miracolosamente portatori di significato, fanno risuonare qualcosa nella vostra testa, i segnetti t-e-s-t-a messi assieme alludono, ne siete sicuri, a quella parte del vostro corpo, così come di quello di tutti i vostri simili, nella quale “sentite” agitarsi tanti processi, che chiamate emozioni, ragionamenti e forse altro, tutti nomi a loro volta appartenenti a questa stessa lingua.
Se non avete mai studiato musica e guardate uno spartito, provate la stessa sensazione di completa estraneità, mentre anche qui, se qualcuno vi ha invece iniziato a quest’altro codice, di questo nuovo modo di tradurre segnetti in cose che fanno risuonare la vostra testa, allora lo spartito di nuovo acquista vita, ne carpite i segreti, che più tali non sono, esso rimanda anzi a una successione di suoni dei quali potrete innamorarvi o che potrete rifiutare, ma certamente avrà perso la sua natura di enigma. Perché è stato inventato questo codice? Perché sarebbe stato molto complicato usare le parole del linguaggio naturale per descrivere una melodia, ad esempio: si cominci con la nota, chiamata do3, corrispondente a tot vibrazioni al secondo di una corda metallica, poi si suoni la nota che ha i 9/8 della sua frequenza e poi… e poi… . Certamente infattibile. È stato necessario inventare dei simboli per quei suoni, poi chiamati note, un modo per scriverle, usando la posizione rispetto a un rigo fatto di cinque linee parallele orizzontali come simbolo del valore delle loro frequenze, e poi inventare dei segnetti per rappresentare le pause tra le note, la durata di ognuna di esse, il ritmo da seguire, eccetera, eccetera.
La matematica, e le scienze che se ne servono, più o meno pesantemente, dalla fisica all’economia, usano anch’esse dei “segnetti”, dei simboli che bisogna conoscere per capirci qualcosa, simboli che sono per lo più raggruppati in “formule”. Bella parola questa, che sembra un diminutivo della parola “forma”. Il miglior modo per capirne qualcosa, come quasi sempre, è esplorarne un po’ la storia e la formazione. Cominciamo con questa domanda provocatoria:
Che cosa hanno in comune una Ferrari e il censimento della popolazione nell’antica Roma?
Non molto, sembrerebbe, tranne però il fatto che c’è una stessa parola che salta fuori in entrambe. Nell’antica Roma, due millenni prima dell’epoca delle Ferrari, Tito Livio, storico di età augustea, scrisse un’opera immensa, cui si conviene di dare il titolo Ab urbe condita – dalla fondazione della città–per–eccellenza – un’opera che in 142 libri ripercorreva, con partecipazione e devozione intense per le sorti di Roma, la sua storia dalla fondazione all’inizio dell’impero, il tempo di Augusto (imperatore di Roma dal 27 a.C. al 14 d.C.). Mentre narra degli avvenimenti – in tempo di pace – della repubblica, Livio ha occasione di segnalare l’origine di un istituto importante nella storia di Roma, quello della censura che non designa, in quest’epoca, quel che oggi normalmente s’intende con questa parola (anche se non ne è poi così lontana, e forse tutto è cominciato da qui…), ma l’operazione di censire la popolazione, e censire significa, così ci racconta Livio, qualcosa di più che semplicemente contare e sapere nomi e domicili dei cittadini:
«In questo medesimo anno ebbe principio la censura, istituto che ebbe piccolo esordio, ma che acquistò di poi sì grande incremento. Ché il regolamento dei costumi e della disciplina Romana fu nelle mani del nuovo magistrato, ed il Senato e le centurie dei cavalieri ebbero il discernimento del loro onore o disonore in suo potere; e l’ispezione dei luoghi pubblici e privati, le rendite del popolo romano, furono al suo cenno ed arbitrio.»
Dunque un censimento non proprio neutrale, a quanto dice Livio: il potere del magistrato sembra andare oltre la mera registrazione dei cittadini; ma poiché, continua Livio, mentre diventava urgente eseguire questa operazione, i consoli avevano altre faccende più importanti da seguire,
«Fu presentata al Senato una memoria, nella quale si faceva presente che quella operazione, faticosa e poco consolare, aveva bisogno di un magistrato speciale, dal quale dipendessero gli scribi, i custodi e la cura dei registri, e che regolasse a suo modo la formula del censimento [cui arbitrium formulæ censendi subiceretur]»
È proprio la parola latina formula, diminutivo, sì, di forma, ma con un evidente slittamento di significato, che fa la sua comparsa, nel senso di insieme di regole enunciate (stavo per scrivere “formulate”) con precisione, da seguire nell’esecuzione del censimento. Insieme di regole, dunque, purché ben precisate e non soggette ad ambiguità; prescrizioni chiare e distinte.
E la Ferrari non è, forse, per antonomasia, una macchina di “formula 1”? Anche qui la stessa parola, è usata in un senso molto simile: l’insieme di regole cui è soggetta una certa categoria di automobili per poter partecipare a un ben preciso tipo di gare.
E poi c’è la formula di governo, un insieme di regole, frutto di delicati equilibri ed alchimie, dalle quali è costituita quella che il linguaggio ufficiale chiama “la compagine ministeriale”. O la formula, spesso riservata, di una crema di bellezza, le regole ferree – e commercialmente segrete – con le quali deve essere composta quella crema, per poter avere quel marchio e quel nome.
Su questa strada ci si avvicina ovviamente alla formula chimica di un composto, quell’insieme di simboli, che funzionano secondo precise regole internazionalmente stabilite – N sta per azoto, O per ossigeno, Sb per antimonio (che in latino si chiamava stibium, il latino c’entra sempre), ecc. – e che vanno combinati in modo da dire esattamente quali elementi e in quali proporzioni formano il dato composto; H2O (il 2 andrebbe un po’ in basso, ma qui non riesco a farlo) è la formula dell’acqua, ci dà una informazione precisa su quali sono i costituenti elementari dell’acqua: ogni molecola, minima quantità d’acqua che ne conserva le proprietà, è costruita con due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Non è naturalmente una informazione ancora completa su come l’acqua è fatta (problematica in verità non banale neppure per gli studiosi), però fornisce una informazione precisa, per quanto parziale, su un aspetto dell’acqua.
Fino ad arrivare alla formula fisica, o, in cima alla scala, alla formula matematica.
Facciamo solo due esempi, che certamente da qualche parte avete già incontrato.
Formula matematica:
(x+y)² = x² + 2xy + y²
la cosiddetta formula del “quadrato di un binomio”. Si potrebbe dire “Se volete calcolare il quadrato (cioè il prodotto per sé stesso) della somma di due numeri, potete sommare il quadrato del primo con il doppio del prodotto dei due numeri e con il quadrato del secondo”, certamente chiaro, solo un po’ più lungo; capite che quando la formula è appena un po’ più complicata, la traduzione in parole diventa sempre meno perspicua e meno gestibile. È meglio tenersi la formula.
Formula fisica:
E= m c²
si tratta di quella ultrafamosa formula, malauguratamente trovata da Albert Einstein, che consente di stabilire una “equivalenza” tra massa ed energia; purtroppo essa contiene quel valore c², che rappresenta il quadrato della velocità della luce nel vuoto, cioè un numero molto grande – nel sistema di unità di misura nel quale esprimiamo la massa in Kilogrammi e l’energia in Joule – pari a , circa, 90.000.000.000.000.000, 9 con 16 zeri!; ciò significa che disintegrando, cioè facendo scomparire, un grammo di materia si ottengono 90 milioni di miliardi di Joule, ovvero, per dare un’idea con le misure cui siamo più abituati nella vita quotidiana, 25 milioni di Kilowattora; dicevo “malauguratamente”, com’è ovvio, perché si tratta della formula che ha reso coscienti gli scienziati e soprattutto quelli che volevano applicare la scienza a scopi disumani, della possibilità di costruire delle bombe di nuovo tipo, tipicamente le atomiche, che hanno reso possibile l’abominio di Hiroshima e Nagasaki (bisogna pur “verificare sperimentalmente” la teoria, no? Se non che teoria è?). E speriamo che non vogliano ripetere la verifica nei prossimi mesi qui, a due passi da noi.