Breaking women
Donna, vita, libertà
di
Sorour Kasmaï
traduzione dal francese di Luigi Toni
Stigmatizzate dal 1979, le donne iraniane dimostrano attraverso le proteste per la morte di Mahsa Amini di essere la forza vitale del Paese, secondo l’analisi della scrittrice e curatrice editoriale franco-iraniana Sorour Kasmaï.
In Iran, la violenza nei confronti delle donne ha nomi e volti diversi: il velo, l’onore, la sicurezza dello Stato, l’inosservanza della religione, e così via. Riconosciuta ufficialmente dal regime islamico, oggi la violenza è sistematica e mette in pericolo la vita di tutte le donne.
Già nel febbraio del 1979, ancor prima della nascita della Repubblica Islamica dell’Iran, l’ayatollah Khomeini considerava la libertà delle donne come il principale ostacolo al suo progetto politico. I primi provvedimenti emessi rendevano obbligatorio il velo islamico nei luoghi di lavoro e il hijab nei luoghi pubblici. Da un giorno all’altro, la donna si vedeva negare ogni diritto concesso dalla legge sulla tutela della famiglia, in particolare la custodia dei figli in caso di divorzio, e persino il diritto di viaggiare senza il consenso del marito, a cui, invece, verrà permesso di sposare fino a quattro mogli alla volta. Un bel giorno, le mura della città vennero ridipinte per esporre nuovi slogan che invocavano “il velo, come baluardo della Repubblica islamica”.
L’8 marzo 1979 si tenne la prima manifestazione contro le nuove leggi che vedeva radunate a Teheran, stando ai giornali dell’epoca, “alcune centinaia di puttane” che cantavano “né hijab, né pugni”. Insegnanti, ricercatrici, registe, studentesse, attrici, avvocate, maestre o casalinghe, tutte insieme per protestare contro il velo, che ai loro occhi rappresentava il simbolo di un’astrusa e subdola segregazione. Nascondere i capelli significava non solo la schiavitù del loro corpo, ma anche di tutto il loro essere.
La nuova legge stava cercando di reprimere la loro identità uniformandole con un velo – e dopo con il manteau[1] – conforme alla regola, di colore scuro. Il velo mirava a trasformare le donne nell’ombra di sé stesse, con lo scopo di privarle del loro status sociale, relegandole ai margini della vita pubblica. Rendeva ufficiale la sottomissione delle loro menti, privandole delle libertà più elementari come cittadine ed esseri umani. Era proprio questo il pericolo contro il quale avevano messo in guardia quelle “puttane” nel 1979.
Nel corso di tutti questi anni, sono stati compiuti crimini orrendi contro le donne. Dalle aggressioni con l’acido per il rifiuto di una proposta di matrimonio alla decapitazione per un presunto tradimento, dalla lapidazione per adulterio di donne sposate alla deflorazione delle prigioniere condannate a morte nelle carceri, le donne sono state sacrificate sull’altare dell’onore degli uomini, della famiglia, della società, dello Stato.
Eppure, nonostante la repressione, le donne non si sono mai arrese. Un centimetro alla volta, le donne hanno respinto il velo e accorciato il manteau, rifiutandosi di nascondere le forme del loro corpo. Dovrebbero provarne vergogna per seppellirlo sotto vari strati di stoffa? Oltretutto, le donne hanno continuato a sviluppare il loro pensiero. Coscienti di avere un ruolo importante all’interno della società, non hanno mai smesso di istruirsi.
Uno slogan per il futuro
Secondo le statistiche ufficiali, le ragazze rappresentano più del 65% degli studenti ammessi nelle università iraniane. Le donne hanno scritto e tradotto libri, girato e prodotto film, hanno interpretato ruoli da protagoniste sugli schermi di tutto il mondo. Si sono distinte con la loro presenza in ogni campo: scientifico, giuridico, artistico, politico. Si sono aggiudicate i più alti riconoscimenti internazionali: dal Premio Nobel per la Pace (Shirin Ebadi) alla Medaglia Fields per la matematica (Maryam Mirzakhani), passando per i maggiori riconoscimenti nei festival letterari e cinematografici. Oggi, nel corso delle proteste che infiammano ancora una volta l’Iran, le donne polarizzano la lotta. Stigmatizzate per quarant’anni dal potere in carica, le donne sono oggi la forza vitale della lotta collettiva per la libertà. Il velo ne preannunciava la scomparsa, l’annullamento, la morte. Togliendolo e bruciandolo nel fuoco, le donne affrontano con determinazione la loro vita. La morte della giovane Mahsa Amini, avvenuta dopo un violento colpo alla testa (secondo fonti degli oppositori al regime in carica) per un hijab “indossato male”, rivela più che mai l’aspetto abbastanza profetico di quel leggendario slogan del 1979 “né hijab, né pugni”. E anche se riappare ancora qua e là durante le proteste, oggi risulta uno slogan datato.
Le giovani del 2022 hanno inventato un loro slogan: “Donna, vita, libertà!” scandito a Teheran, Rasht, Isfahan, Mashhad, Shiraz, Saqqez, Baneh, Divandarreh e in una decina di altre città. È questo il grido di battaglia di migliaia di studenti, commercianti, persone comuni, ma soprattutto donne, donne, donne. Segno di maturità da parte della società, quel grido rappresenta un punto di svolta nella storia contemporanea iraniana. La nuova generazione ha tratto insegnamento dalla dura lotta di chi le ha precedute. Una generazione ormai consapevole del ruolo della donna, che viene messa al centro delle loro rivendicazioni. “Donna, vita, libertà!”. La donna ha il diritto di vivere ed essere libera.
A ogni angolo di strada vengono accesi dei falò. Capelli al vento e facce raggianti, le donne cantano, ballano e gettano nel fuoco i loro hijab, come per esorcizzare il male che ha fatto a tutte loro. Tra gli applausi degli uomini, si riappropriano pubblicamente del pieno diritto sui loro corpi e sulla loro anima. La folla garantisce la loro incolumità, attaccando le pattuglie della polizia morale e mettendo in fuga le moto delle forze di repressione.
Emblema di quarant’anni di lotte, fallimenti, vittorie, regressi e progressi compiuti, “Donna, vita, libertà” rappresenta la presa di coscienza di un’intera nazione. Non esprime più come in passato un rifiuto, ma uno slogan per il futuro che, in caso di vittoria, adornerà i nostri edifici pubblici e i nostri monumenti funebri, per ricordare il ruolo e l’importanza della donna nella storia moderna dell’Iran. Un grido di gioia e un monito per il futuro perché non ci può essere libertà senza la libertà delle donne.
© Le Monde, 28 settembre 2022
Sorour Kasmaï: Scrittrice franco-iraniana, autrice dei romanzi Un giorno prima della fine del mondo, (Robert Laffont, 2015) e Nemico di Dio (Robert Laffont, 2020). È inoltre traduttrice e curatrice editoriale. Dirige la collana “Orizzonti persiani” dedicata alla letteratura afgana e iraniana per le edizioni Actes Sud.
[1] Tra le altre regole che il regime della Repubblica islamica richiede di rispettare c’è quella di indossare un manteau, una specie di giacca/impermeabile lunga fino a metà coscia abbinata a pantaloni [N.d.T.].