Perché è importante leggere David Graeber
di Lorenzo Velotti
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la postfazione di Lorenzo Velotti a David Graeber, Le origini della rovina attuale, E/O, traduzione dall’inglese di Carlotta Rovaris, in libreria dal 28 settembre. Sono quattro saggi inediti, curati dallo stesso Velotti. Antropologo anarchico, critico radicale della disuguaglianza economica e sociale, David Graeber (1966-2020) ha scritto per tutta la vita sugli effetti negativi della globalizzazione e di come abbia favorito la disciplina del lavoro e il controllo sociale.
L’idea di accogliere David Graeber tra gli autori della Piccola Biblioteca Morale risale all’inizio del 2020. Avremmo voluto fare un libro-intervista: ne avevo parlato a lungo con David che, da vivo sostenitore della natura essenzialmente dialogica del pensiero, ne era entusiasta, e avevamo pianificato sei ore di conversazione. Vivevo a Londra, l’anno precedente ero stato un suo studente, avevamo stretto un rapporto e, in quel periodo, ci vedevamo soprattutto in conviviali contesti di lotta politica. Partendo dalla considerazione che Graeber – grande nome dell’antropologia contemporanea e punto di riferimento dell’attivismo libertario (soprattutto nel mondo anglosassone e in Francia) – non fosse altrettanto conosciuto nel panorama italiano, pensavamo potesse essere utile trattare alcuni dei problemi contemporanei, italiani e globali, a partire dai suoi studi e dalla sua esperienza.
L’idea, purtroppo, non si concretizzò. Ci dicemmo che avremmo fatto le interviste non appena fosse finita la pandemia, ignari di quella che ne sarebbe stata l’effettiva durata. A settembre 2020 Graeber ci lasciò all’improvviso, mentre si trovava in vacanza a Venezia dopo aver terminato il suo ultimo libro, L’alba di tutto (Graeber e Wengrow, 2022). In tanti – studenti, amici, attivisti – ci rendemmo conto della nostra totale impreparazione di fronte alla mancanza di dialogo con David. Eppure, ci trovammo costretti a trasformarlo in antenato. Per quanto riguarda questo progetto, rimase la possibilità di tradurre in italiano qualcosa di inedito.
Non è stato difficile scegliere la prima parte di Possibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire (“Possibilità: saggi sulla gerarchia, la ribellione, e il desiderio”). Il terzo saggio di questa raccolta, “Ribaltare i modi di produzione: o, perché il capitalismo è una trasformazione della schiavitù”, è il primo che lessi, durante le settimane iniziali del corso “Antropologia e Storia Globale” che Graeber tenne alla London School of Economics nel 2018. Ne rimasi così colpito che, un po’ ingenuamente, al seminario successivo gli chiesi come fosse possibile che quanto scritto non avesse del tutto trasformato, negli anni successivi, il piano della discussione. Rispose ridendo: “Me lo chiedo anch’io”.
La raccolta originale contiene dodici saggi, divisi in tre parti. I quattro saggi che compongono la presente raccolta corrispondono alla traduzione della prima parte [1].
Come racconta l’autore stesso nell’introduzione al libro, questa parte risale alle sue prime ricerche, condotte durante la specializzazione presso l’Università di Chicago negli anni Ottanta. Si tratta, innanzitutto, di uno studio antropologico delle origini del capitalismo. Ma, visto il carattere totalizzante di quest’ultimo, esaminarle dà modo di riflettere sulle infinite possibilità alternative, sempre presenti, di intendere e di vivere le relazioni sociali, i desideri, il mondo.
Il primo saggio, “Buone maniere, deferenza e proprietà privata: o elementi per una teoria generale della gerarchia”, è una versione accorciata e rivista della sua tesi di laurea specialistica. La tesi, racconta Graeber, era stata particolarmente apprezzata da Pierre Bourdieu (durante il suo periodo come visiting professor a Chicago), il quale avrebbe proposto a Graeber di renderla più sintetica e di lavorarci insieme a lui per una pubblicazione in Francia. Tuttavia, a causa di quello che Bourdieu stesso ha teorizzato come un problema di (basso) “capitale sociale”, Graeber – di estrazione proletaria –, non riuscì a ottenere i fondi per raggiungerlo a Parigi. Il saggio è un’affascinante teorizzazione della relazione tra buone maniere, individualismo possessivo e gerarchia, che recupera categorie antropologiche ormai desuete come quelle di joking e avoidance (relazioni di scherzo e di evitamento) per tracciare questo legame e per sottolinearne le conseguenze politiche. Particolarmente affascinanti sono le riflessioni sul carnevale, sovversione per eccellenza delle gerarchie e della logica dell’evitamento. Non è un caso che l’ideologia della proprietà privata sia emersa in Europa contemporaneamente a quella delle buone maniere, mentre il carnevalesco veniva violentemente soppresso.
Il secondo saggio, “Il concetto di consumo: desiderio, fantasmi ed estetica della distruzione dal Medioevo a oggi”, risale agli studi degli anni immediatamente successivi, o meglio alle letture a cui Graeber si dedicava di soppiatto mentre lavorava in biblioteca per pagarsi gli studi. È una sofisticata critica al culto del consumo prevalente nei cultural studies del tempo – o a una certa teorizzazione critica del consumo che finisce però per naturalizzarlo – nonché una proposta radicalmente alternativa. Il terzo saggio, che menzionavo prima, ha origine dal lavoro etnografico sul campo, che Graeber svolse, durante il dottorato, in Madagascar, dove aveva osservato una stretta relazione tra lavoro salariato e schiavitù, relazione esplorata, e in certa misura generalizzata, nel saggio in questione, attraverso il concetto marxiano di “modi di produzione”. Infine, il quarto saggio, “Il feticismo come creatività sociale: o, i feticci sono dèi in costruzione”, avrebbe dovuto far parte dell’ultimo capitolo di Toward an Anthropological Theory of Value (2001) – la sua opera più importante di teoria antropologica, a cui tutti questi saggi sono in realtà intimamente connessi – ma fu omesso per motivi di spazio. Ne sottolineerò alcuni elementi fondamentali tra qualche paragrafo.
Ora, pensare che la lettura di questi saggi possa essere interessante solo per misurarsi con il pensiero di un “giovane Graeber”, magari teoricamente immaturo rispetto a quello dei lavori successivi, sarebbe un errore. Questi saggi non sono solo magnifici esempi di un’eleganza argomentativa rara, le cui tesi sono estremamente rilevanti in sé stesse, ma sono interessanti anche perché le domande a cui si cerca di dare risposta, nonché il tipo d’approccio con cui queste risposte vengono ricercate, costituiscono le fondamenta teorico-antropologiche di gran parte della sua opera successiva – compresa quella più direttamente politica e divulgativa, per la quale è noto ai più. Indagare le origini dell’attuale predicament (letteralmente “brutta situazione”, che nel titolo abbiamo deciso di tradurre, un po’ liberamente, come “rovina”) non è lo scopo unicamente di questo volume: questi saggi costituiscono il perno intorno a cui ruoterà gran parte del resto dell’opera di Graeber: ovvero, lo studio delle origini della rovina attuale al fine di rivelare alternative possibili[2]. Il che è poi, per l’autore, l’essenza dell’antropologia.
C’è un altro cardine, forse ancor più profondo, che tiene questi saggi insieme al resto dell’opera di Graeber: la dimostrazione – come ha scritto in Burocrazia (2016) – che “la verità ultima e nascosta del mondo è che è qualcosa che noi creiamo e che potremmo facilmente creare in modo diverso”. Questa frase, come cercherò di illustrare, è più profonda di quanto possa apparire, e credo riassuma, più di ogni altra, il progetto intellettuale e politico di Graeber. Come ha scritto lui stesso in una breve autobiografia, il suo lavoro: “… ha esplorato la relazione tra l’antropologia come ricerca intellettuale e i tentativi pratici di creare una società libera; libera, almeno, dal capitalismo, dal patriarcato e dalle burocrazie statali coercitive” [3].
Alla ricerca di una pratica intellettuale rivoluzionaria e non avanguardista, e di una teoria sociale modellata sui processi di democrazia diretta, Graeber ha scritto che “un progetto del genere dovrebbe avere due aspetti, o se preferite due momenti: uno etnografico e l’altro utopico, sospesi in costante dialogo” (Frammenti di un’antropologia anarchica, 2006). Non è dunque difficile comprendere perché è a partire dall’antropologia (al servizio della storia, e viceversa) che è possibile elaborare nuove possibilità. È infatti alle (non) origini del denaro che bisogna guardare per trovare alternative alla violenza del denaro contemporaneo (Debito, 2011), alle (non) origini della disuguaglianza (e dell’agricoltura, delle città, dello stato etc.) per ritrovare la possibilità delle libertà (L’alba di tutto, 2022), alle (non) origini della gerarchia, del consumo, della schiavitù, e dei feticci (questo libro), per capire cosa è inevitabile, e fino a che punto, e cosa invece non lo è affatto.
Parlo di “(non) origini” perché Graeber è solito dimostrare, quasi senza eccezione, che nessuno di questi fenomeni (disuguaglianza, denaro, gerarchia ecc.) ha di per sé un’unica origine, un punto di svolta definitivo e universale, che decapiterebbe le alternative possibili sotto la scure dell’inevitabilità storica. Da qui il tema della riconoscibilità, su cui tornerò tra poco. Il punto su cui vorrei ulteriormente insistere, però, è l’importanza di leggere Graeber su questo doppio piano, di indagine antropologica e di trasformazione politica. Credo che ogni suo scritto li contenga entrambi. Ma credo anche che, se si volesse operare una forzatura e leggere su questi due livelli l’opera di Graeber nella sua interezza, allora, forse, questi saggi farebbero parte dell’indagine antropologica più profonda, che sostiene le sue opere successive. Ripeto, è sicuramente una semplificazione (David stesso amava sottolineare che ogni teoria necessita di semplificazioni, valide nella misura in cui si rimanga coscienti del fatto che sono tali), ma credo sia proprio da queste prime ricerche che emerge la teoria fondamentale su cui Graeber potrà poi costruire, con una certa facilità e capacità di convinzione, le sue tesi politiche e antropologiche più note.
Proverò allora a suggerire, senza alcuna pretesa di esaustività e precisione, e privandoli dei tantissimi riferimenti etnografici o bibliografici (che i lettori e le lettrici potranno trovare direttamente nei testi), due elementi teorici che mi sembrano attraversare tanto questi saggi quanto il resto dell’opera di Graeber, rendendoli forse utili chiavi di lettura.
Il primo, come anticipavo, è quello della riconoscibilità, o somiglianza. Graeber, infatti, a prescindere dal tema specifico di cui si occupa in un determinato saggio (la gerarchia, la produzione, i soldi…) è solito dimostrare, attraverso lo studio di fonti storiche e antropologiche, che i fenomeni in questione sono sempre esistiti, e non sono interamente ineludibili. Ciò che appare del tutto “altro” è invece, il più delle volte, una pratica completamente riconoscibile, simile a una di quelle che svolgiamo ogni giorno. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma credo si tratti di un elemento fondamentale del progetto emancipatorio di Graeber. La gravità del momento presente (la rovina attuale) è data dalle specifiche modalità pervasive e totalitarie che hanno assunto questi fenomeni, in particolare in quanto percepiti come gli unici possibili, provocando perciò una rassegnata accettazione del fatto che non possano in alcun modo essere trasformati, resi innocui o minoritari, se non addirittura ribaltati.
Per Graeber è invece nella ricerca di quanto abbiamo in comune con i nostri antenati, o con le popolazioni indigene di ogni dove, che si possono riscoprire modalità altre, potenzialmente emancipatorie. E questo è possibile, in breve, perché condividiamo la stessa realtà, nella quale, attraverso il valore, creiamo universi. In questo senso è interessante che sia proprio “la minaccia della somiglianza” (si veda il saggio n. 4) ad aver spinto i primi mercanti europei in Africa a confondere l’arbitrarietà del valore con la follia del “feticismo”, o i teorici politici successivi a non cogliere la somiglianza tra feticci e contratti sociali. Certamente quella che ho chiamato riconoscibilità, in antropologia, non è un elemento di grande originalità. Per certi versi, si tratta dell’essenza stessa della disciplina. Ma è sicuramente un tratto che caratterizza l’antropologia di David Graeber più di altre. Infatti, è proprio in risposta al saggio sul feticismo e sulla creatività sociale contenuto in questo volume che Eduardo Viveiros de Castro, noto antropologo e teorico dell’“alterità radicale”, criticò duramente Graeber, dando così il via al famoso dibattito relativo alla “svolta ontologica” in antropologia.
Un altro tema trasversale di questi saggi è senza dubbio la relazione tra materialità e immaterialità: una distinzione – in termini marxiani, tra “infrastruttura materiale” e “sovrastruttura ideologica” – che Graeber considera, di per sé, una forma di idealismo, perché non ci sono idee da cui non derivino processi d’azione e non ci sono processi d’azione possibili senza idee. Se la dicotomia tra materiale e immateriale è illusoria, esiste tuttavia la questione dell’astrazione, dell’elevazione di processi a una sfera altra, trascendente, cristallizzata, identica a se stessa. Innanzitutto, la cristallizzazione di processi in oggetti identici a se stessi è ciò che rende possibile la loro riduzione a proprietà. Graeber, in questo senso, problematizza tanto il concetto di produzione (a cui dedica il terzo saggio) quanto quello di consumo (a cui dedica il secondo), entrambi concetti che, alla luce di quella che Graeber definisce la teoria antropologica del valore, andrebbero interamente ripensati come produzione di persone e di rapporti sociali, essa stessa una produzione materiale di cui la classica produzione di cose non è altro che un momento subordinato. Qui Graeber si inserisce, consapevolmente, nella preesistente e dalla ben più ampia prospettiva critica femminista (in gran parte marxista), che rende visibile il lavoro di cura – svolto da donne nella stragrande maggioranza dei casi – in quanto necessario per mantenere la vita e far funzionare la società, nonché come presupposto per qualsiasi altra forma di produzione. L’originalità di Graeber sta nelle fondamenta antropologiche, storiche, etnografiche e comparate impiegate per costruire queste tesi, nella teoria antropologica del valore a cui fa riferimento, e nel collegamento col nesso tra il modo di produzione schiavista e quello capitalista, che si fondano su un’analoga separazione tra luogo di lavoro e sfera domestica. Sono queste le basi su cui poggiano i suoi successivi lavori sulle “economie umane”, ma anche la sua ricerca sui Bullshit Jobs (2018) e i suoi suggerimenti riguardo alle caring classes (“classi che si prendono cura”).
Tornando al problema dell’astrazione – la creazione di un ente astratto che ha poi un potere su chi l’ha creato – Graeber ne sottolinea in certa misura l’inevitabilità, in quanto presente in qualsiasi processo di creazione di valore e dunque di creatività sociale. Anche nella società più libera creiamo continuamente regole a cui permettiamo di avere potere su di noi. Basti pensare a quando giochiamo, o a quando gli artisti si esprimono sentendosi veicoli di ispirazioni “esterne”. È qui, dunque, che possiamo scorgere la base teorica della famosa frase, citata precedentemente, riguardo al fatto che creiamo il mondo ogni giorno: lo studio antropologico dei feticci permette di comprendere un ben più ampio raggio d’azione creativa degli esseri umani. I feticci risultano, in vari aspetti, equivalenti ai contratti sociali, ma anche, più in generale, a qualsiasi totalità immaginaria, possibilità sociale o, appunto, mondo, che esistono solo se tutti si comportano come se essi avessero davvero qualità soggettive. La creazione di feticci, e dunque di accordi, contratti, forme sociali, risulta essenzialmente rivoluzionaria. Ma diventa un problema nel momento in cui il feticcio, da astrazione consapevole, diventa teologia: quando si perde di vista il fatto che ogni cosa è in realtà in continua costruzione.
E sono questo continuo movimento e questa continua processualità che mettono in dubbio, appunto, la dicotomia tra materiale e immateriale. Il problema, allora, è quando l’astrazione si cristallizza e non se ne riesce più a scorgere il carattere di creazione umana (l’annoso tema dell’alienazione), e può dunque essere usata per giustificare un sistema di dominio. Si tratta sicuramente degli dèi veri e propri, ma anche della teologia materialista della nostra attuale economia (saggio n. 4) o dell’astrazione della forma societaria e del suo rapporto violento con la realtà materiale (saggio n. 3); così come della separazione umana dalle proprie sostanze materiali (si vedano le buone maniere e la logica dell’evitamento, nel primo saggio), dell’uomo autonomo e autosufficiente astratto dal mondo (il modello dell’homo oeconomicus), o dell’illusione di uno stato razionale e disinteressato. Sono infatti tutte queste modalità di astrazione che stanno alla base di qualsiasi forma di gerarchia (si veda il primo saggio) e sfruttamento (si veda il terzo).
Se tutto questo può sembrare eccessivamente complicato, esorto il lettore a fare riferimento alle pagine scritte da Graeber stesso. Vi avrà già notato una delle doti più significative di quest’autore: la capacità di trasmettere concetti complessi in modo semplice ed elegante, addirittura avvincente. La mia speranza è che questa traduzione contribuisca a far apprezzare, anche in Italia, la fondamentale argomentazione antropologica e politica di David Graeber. Soprattutto, mi auguro che il suo pensiero possa essere d’aiuto a chi, oggi, non si rassegna alla naturalizzazione del capitalismo, del patriarcato e delle burocrazie statali coercitive, e si dedica, con caparbietà e giocosità, alla costruzione di un mondo più libero.
[1] Un saggio tratto dalla terza parte, invece, è stato tradotto come Critica della democrazia occidentale (2019).
[2] In particolare: Debito. I primi 5000 anni (2012) e L’ alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (2022), scritto con David Wengrow e uscito postumo.
[3] Da https://davidgraeber.org/about-david-graeber/, traduzione nostra.