Morire, un anno dopo
di Rebecca Molea
Mi sono chiesta a lungo cosa sarebbe successo: come avrei reagito alla notizia – piangendo? con sollievo? –, come sarebbe stato il dopo – un senso di solitudine perpetua o, a un certo punto, un’abitudine? – e, sopra ogni altra cosa, che significato avrebbe avuto, per me, per noi, per tutti, la morte. La morte in generale e quella morte: la morte della persona che avevo amato più di ogni altra.
La prima volta che ho preso in mano L’anno del pensiero magico di Joan Didion era il ventuno settembre, una data che da un anno ha i contorni dell’indistinto. Il ventuno è, insieme, venti e ventidue: il giorno in cui è successo, in cui ho saputo, e quelli dopo, nei quali la mia consapevolezza è diventata consapevolezza condivisa, rituale – i canti, le preghiere, la maschera del dolore sul viso; l’intimità della perdita e il racconto di ciò che eravamo stati offerti agli altri in dono per avere, in cambio, un vago senso di pacificazione interiore. In quel ventuno settembre la morte era ancora un pensiero astratto: sapevo – perché avevo sentito mia sorella piangere a telefono – che alla fine era successo, che il momento era venuto, ma quel sapere si esauriva lì, nello spazio della mente, come un assioma che non richiedeva presa di coscienza o partecipazione emotiva. Avevo fatto le valigie in uno stato di alienazione, muovendomi precipitosamente tra la mia stanza, il corridoio, la farmacia, il supermercato. Immaginavo che a un certo punto avrei sentito qualcosa – avrei dovuto sentire qualcosa – e volevo farmi trovare pronta. Mi dicevo: crescere è anche questo, trovarsi a più di mille km di distanza quando arriva la notizia e riuscire a badare alla propria sopravvivenza. Quando avevo messo L’anno del pensiero magico nello zaino credevo che sarebbe servito allo stesso scopo: aiutarmi nel processo. Il lutto di Joan Didion mi avrebbe guidata attraverso ogni fase, come era accaduto, con altri libri, durante tutti i momenti importanti della mia vita. Desideravo essere equipaggiata al meglio per quell’evento a cui mi preparavo da cinque anni, perché sapevo che era arrivato il momento di dare una risposta alle domande che mi avevano tolto il sonno, quando la morte era ancora un’incognita da osservare a distanza.
Quel ventuno settembre non ho letto L’anno del pensiero magico, né l’ho fatto nei giorni successivi. Ci ho provato tre volte, finché l’incipit, con la sua assolutezza di epigrafe, ha iniziato a suonarmi familiare: «La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Il problema dell’autocommiserazione». Dopo dieci pagine, però, puntualmente mi fermavo. La morte che stavo affrontando era così diversa da quella che raccontava Didion da apparirmi comunque indecifrabile. Non aveva avuto, come quella, il senso di uno scoppio imprevedibile: in un certo senso, la mia era stata pianificata, aspettata da anni, intuita con rassegnazione in ogni degrado fisico, nella progressiva sparizione delle parole, negli sguardi che man mano si facevano bassi e lontani. Certo: anche la mia vita, come la sua, era cambiata in un istante, ma l’effetto di quel mutamento si sarebbe palesato solo nel tempo, a distanza di mesi, ogni volta che avrei preso un treno per tornare a casa consapevole di non aver più alcun motivo per prolungare la vacanza (negli anni la risposta che davo ai miei amici quando si lamentavano delle mie partenze era sempre la stessa: non so quanto ci rimane, non voglio avere rimpianti). Quel settembre del 2021 le due esperienze mi apparivano inconciliabili: ogni morte – realizzavo in quel momento – aveva forma propria, carichi emotivi a sé stanti, e non avrei mai letto o ascoltato o guardato abbastanza per sentirmi pronta, per capirci qualcosa, per strappare a quell’esperienza tanto priva di senso un’intuizione che potesse offrirmene, anche solo vagamente, uno.
Eppure.
Eppure, alla fine, ho letto L’anno del pensiero magico. Erano passati quasi dieci mesi dal ventuno settembre; avevo preso un treno – un altro – ed ero tornata a casa per le vacanze, non so dire se con senso di aspettativa o preoccupazione. Sarebbe stata la prima estate senza, la prima di tutte quelle che avrei vissuto negli anni (il dopo ha acquisito spesso, nel tempo, la forma di una sottrazione, di una particella privativa ribadita per ogni esperienza presente); ma soprattutto sarebbe stata la prima estate del ricordo, in cui – credevo – quell’assenza avrebbe potuto rendersi concreta giorno dopo giorno, mentre ripassavo mentalmente le coincidenze, gli anniversari: il primo ricovero, la telefonata del medico, mamma che piangeva, quella frase obbrobriosa che spesso avrei rigirato nella mente – mi dispiace rovinarvi la vacanza di ferragosto, ma dobbiamo operarlo subito –, e poi i tamponi, le guide in uno stato di apnea, la corsa per vederlo prima che fosse troppo tardi, gli attacchi di panico delle persone a cui volevo bene (loro riuscivano a provare emozioni, io no: mi chiedevo perché), il senso di rassegnazione, i pugni di mio fratello al muro, poi la notizia insperata, l’apparente miracolo, il calvario successivo, il letto su cui giaceva quel corpo che si sarebbe lentamente spento con una richiesta taciuta negli occhi. Ecco, leggevo L’anno del pensiero magico mentre aspettavo l’inondamento della memoria – e leggevo in una sorta di rito, di commemorazione silenziosa preventiva, come se la morte del marito di Didion, John, potesse offrirmi un percorso già calcato sul quale poggiare i piedi mentre procedevo, titubante, attraverso quei giorni di incertezza. Quel libro rappresentava ciò che io non ero riuscita a fare per mesi: l’elaborazione del lutto, la presa di coscienza, la ricognizione precisa di tutto ciò che era successo dal giorno della morte all’anno successivo. Joan Didion aveva scritto quel memoir con una lucidità che riconoscevo, ma che prima non avrei capito: il distacco del medico che incide la carne per estrarne i ricordi e dissezionarli, in uno sforzo di comprensione che è anche un tentativo di disarmo.
John era morto la sera di Natale per un infarto fulminante, mentre era seduto su una poltrona su cui riposava dopo la consueta visita in ospedale alla figlia in coma. A Didion inizialmente era sembrato uno scherzo (l’incomprensibilità della morte che si traduce in irrealtà); poi era arrivata la consapevolezza, il senso di allarme, la fuga precipitosa verso il frigo, dove si trovano i numeri d’emergenza che aveva appuntato in caso di necessità altrui (l’impossibilità di pensare al dolore come qualcosa che un giorno ci riguarderà da vicino; l’illusione di rimanere per sempre in una posizione di spettatore del dramma). I momenti successivi sono confusi: Didion li ricostruisce a partire dalle testimonianze o dai racconti che gli altri le faranno di quella sera: «Non ricordo di aver parlato dei particolari con nessuno, ma devo averlo fatto, perché tutti sembravano conoscerli […] sapevo che la storia veniva da me [perché] nessuna delle versioni che sentivo comprendeva i particolari che non riuscivo ancora ad affrontare». La scrittura è un mezzo d’approssimazione imperfetto alla verità, al grumo doloroso altrimenti inavvicinabile: «Questo è il mio tentativo di raccapezzarmi nel periodo che seguì, settimane e poi mesi che cambiarono ogni idea preconcetta che io avessi mai avuto sulla morte, sulla malattia, sul calcolo delle probabilità, sulla fortuna e sulla sfortuna, sul matrimonio e sui figli e sulla memoria, sul dolore, sui modi in cui la gente affronta o non affronta il fatto che la vita finisce, sulla fragilità dell’equilibrio mentale, sulla vita stessa». Per capire il lutto, Didion deve scomporlo: deve partire da quella sera – da cosa è successo davvero, clinicamente, nel corpo di John, in quel momento in cui tutto si è fermato e poi dopo, quando gli infermieri tentavano di rianimarlo – e attraversare tutto quello che ne è seguito: l’orrore, la stasi obbligata, il disorientamento e poi le alterazioni, le insensatezze, l’impossibilità di abitare qualsiasi luogo che le ricordasse, in qualche dettaglio, lui.
Inizia, così, l’anno del pensiero magico.
Nei lunghi mesi che hanno seguito quel ventuno settembre – mi ostino, ancora, a parlare di ventuno: forse perché è stato quello, per me, il giorno della consapevolezza; il momento in cui ho abbracciato il corpo morto di mio nonno è il primo in cui ho avvertito, in qualche modo, che qualcosa se n’era andato per sempre – mi sono spesso trovata a chiedermi se il modo in cui stavo affrontando il lutto fosse normale. Avevo messo in atto un processo di rimozione: non negavo che l’evento fosse avvenuto, ma allo stesso modo non credevo che fosse davvero accaduto nel presente, nel mio presente. Ero convinta, in qualche modo, di aver vissuto un tempo alternativo, uno spazio alternativo, in cui sapevo di aver fatto delle cose perché me le ero viste fare. Riesco ancora, per esempio, a rappresentarmi nella mente il momento in cui ho salito uno ad uno i gradini della chiesa, e poi quello in cui ho letto ad alta voce delle parole che nessuno avrebbe mai davvero capito (nessuno se non lui, che un anno prima, quando tutti lo credevano incapace di comprendere appieno ciò che gli succedeva attorno, si era fatto forza per alzarsi dal divano e abbracciarmi, con gli occhi lucidi, perché invece aveva capito, aveva capito tutto di quello che gli stavo dicendo, di quanto avessi sempre cercato di renderlo orgoglioso per ciò che stavo facendo, quasi fosse un risarcimento per quella lontananza obbligata, per la vita – la sua – che intanto mi stavo perdendo). Ricordo i pranzi successivi, le colazioni, i vassoi che ci avevano preparato per non farci sentire soli o abbandonati. Ma è come se tutto ciò aleggiasse in uno stato di sospensione pari a quello di un sogno, di un film visto e rivisto; ed è lo stesso ogni volta che cerco di ricordarmi – mi impongo di ricordare – che tutto quello che oggi sto scrivendo è avvenuto davvero, è avvenuto a me, a noi: noi che, come Joan, avevamo illusoriamente creduto di poter ritardare quel momento fino all’infinito, e viverlo sempre da fuori, da esterni. Per mesi mi sono sforzata di piangere questa assenza che mi sembrava fittizia, e per mesi non ci sono riuscita, se non in rari momenti in cui la consapevolezza mi colpiva come un incidente imprevisto: con la forza di una piena inarrestabile, che risaliva le viscere e arrivava direttamente alla gola, agli occhi, ai polmoni che soffocavano. In certi frangenti non riuscivano a bastarmi neanche i segni più evidenti della scomparsa – come quando avevamo raccolto le scatole sulle scale, la sedia a rotelle, le medicine e i pannoloni per consegnarli a chi avrebbe dovuto averne bisogno: non capivo perché lo facessimo, così come avvertivo fuori luogo, profondamente sbagliato, il fatto che qualcuno volesse cedere i suoi vestiti. Mi chiedevo: perché? Perché farlo ora, perché non aspettare, perché non tenerli nel caso in cui possano servire. Non mi sono mai chiesta: servire a cosa?; non avevo un’idea chiara rispetto al modo in cui quei due mondi alternativi tra i quali mi tenevo in equilibrio si sarebbero un giorno sovrapposti. Tacitavo gli stessi pensieri che, avrei scoperto mesi dopo, impedivano a Joan Didion di dare via i vestiti del marito: «Come poteva tornare indietro, John, se gli toglievano gli organi, come poteva tornare indietro se non aveva le scarpe?».
La morte mi è sempre parsa un’eventualità impossibile da afferrare cognitivamente, e oggi mi rendo conto che è esattamente così, almeno per me: non importa che l’abbia attraversata, che l’abbia sentita sulla pelle (per anni ho creduto che non avrei mai sfiorato il corpo freddo di un morto: mi sembrava una cosa da horror, impossibile da superare; oggi so che nel gelo di una camera mortuaria quella sensazione è impercettibile, e sono altri i segni della tragedia: il bastoncino che regge il mento, la posa innaturale, i vestiti impeccabili); non ho realizzato la morte di mio nonno così come non avevo realizzato, un anno prima, la morte del padre della mia più cara amica. Non riesco a capire in che senso, un giorno, la vita possa finire, e per lo stesso motivo non sono riuscita a piangere questa scomparsa come avrei voluto. Ho taciuto per un anno intero l’impossibilità del cordoglio, perché mi sembrava vergognosa, stonata, la mia reazione all’evento: come potevo continuare a vivere come se non fosse accaduto niente, come potevo continuare a vivere mentre lui non viveva più; come osavo trattenere il dolore – eliminarlo, sopprimerlo – di fronte alla sua scomparsa? Non era, il mio lutto, un dono votivo obbligato? Una sorta di dimostrazione del mio amore infinito, assoluto, per lui? Com’era possibile che il pensiero della sua assenza non mi togliesse il sonno, la notte; che mia madre soffrisse nel presente quel dolore e io non riuscissi a fare altro che proiettarlo in un tempo lontano, distante, irreale? Ci sono voluti dieci mesi per ottenere una risposta a queste domande inespresse. È stato necessario imbattermi in questa frase che aveva scritto Joan Didion nello stesso libro di cui sto scrivendo: «Perché continuavo a chiedermi insistentemente cos’era normale e cosa non lo era, quando non c’era nulla di normale?». La morte non ha nulla di normale: è una deviazione del percorso, una possibilità che non ci riguarderà mai davvero in prima persona, per lo meno fino a quando potremo scriverne. E non c’è niente di sbagliato, quindi, nell’elaborazione del lutto, che a volte ha il senso di un’illuminazione epifanica e altre di una consapevolezza latente: niente di tutto ciò che affronteremo in questa esperienza è normale, né mai potrà esserlo.
Se dovessi scegliere due pagine, soltanto due, di L’anno del pensiero magico, non avrei dubbi. Sono quelle che cominciano così: «Il dolore risulta essere un posto che nessuno conosce finché non ci arriva. Noi ci aspettiamo (sappiamo) che qualcuno che ci è vicino potrebbe morire, ma non spingiamo lo sguardo oltre i pochi giorni o le poche settimane che seguono da presso questa morte immaginata. […] Ci potremmo aspettare, se la morte è improvvisa, di avere uno choc. Non ci aspettiamo che questo choc sia obliterante, disarticolante per il corpo e per la mente. Ci potremmo aspettare di essere prostrati, inconsolabili, sconvolti dalla perdita. Non ci aspettiamo di impazzire, di impazzire letteralmente, di diventare ossi duri, convinti che il marito stia per tornare indietro e che abbia bisogno delle scarpe. Nella versione del dolore che immaginiamo, il modello sarà “la guarigione”. […] Quando pensiamo al funerale ci chiediamo se “ce la faremo ad arrivare alla fine”, se saremo all’altezza, se mostreremo la “forza” che invariabilmente viene indicata come la corretta reazione alla morte. Si pensa che dovremo temprarci per l’occasione: sarò capace di ricevere la gente, sarò capace di lasciare la scena, sarò capace, quel giorno, anche solo di vestirmi? Non abbiamo modo di sapere che il problema non sarà questo. Non abbiamo modo di sapere che lo stesso funerale sarà anodino, una sorta di narcotica regressione in cui ci affidiamo alle cure degli altri e siamo completamente assorbiti dalla gravità e dal significato dell’occasione. Né possiamo conoscere prima del fatto (ed è questo il cuore della differenza tra il dolore come lo immaginiamo e il dolore com’è) l’interminabile assenza successiva, il vuoto, l’esatto contrario del significato, l’inesorabile successione dei momenti in cui ci troveremo ad affrontare l’esperienza della mancanza stessa di significato». Non avrei saputo raccontare meglio l’esperienza della morte: il biancore dell’inconsistenza, la cecità della luce, l’assoluta insignificanza di ogni cosa. Siamo portati a cercare un riscatto nelle nostre esperienze umane: qualcosa che gli dia valore, senso, che sappia trascenderle e dargli forma compiuta. Ma la morte non ha alcun significato, anzi: è l’orizzonte su cui la possibilità del significato si infrange per sempre. Mi sono resa conto, leggendo queste pagine, che non so affrontare il lutto non perché non ne sia potenzialmente capace, ma perché non esiste davvero alcun mezzo per venirvi a patti, almeno in questa vita. E io ho solo questa vita, ora: ho questa fila interminabile di giorni in cui questa assenza sarà più o meno presente, più o meno pesante; questa lunghissima serie di momenti in cui dovrò replicare il rito composto del lutto per ogni esperienza che, al contrario, non potrò più replicare (ancora l’esperienza della sottrazione – della negazione obbligata). Non esiste alcun modello di guarigione, se non nel racconto che continuiamo a farci ogni giorno della morte – perché non si tratta di una malattia, ma di un’amputazione irreversibile: una contraddizione logica a cui non ci si può arrendere, se non aggrappandosi all’idea che in qualche modo, poi, ce la si fa, si sopravvive. Ed è vero, si sopravvive, ma la sopravvivenza è solo abitudine: rimozione di ciò che sarebbe un carico insopportabile da portare addosso nella vita di ogni giorno per ricreare l’apparenza di una qualche, vaga, sensazione di vivibilità; dimenticanza, come quella che mi sono rimproverata per mesi, o capacità di convivere con il dolore fintantoché non diventa inoffensivo, addomesticato, familiare; rassegnazione, infine, alla mancanza di significato, interrotta di tanto in tanto da un nuovo ostinato tentativo di fornirgliene uno.
Ho pensato a lungo a cosa resti, alla fine, di tutto ciò che siamo stati. Dopo l’estenuante malattia di mio nonno ho difficoltà a ricordarlo in situazioni diverse da quelle in cui l’ho visto negli ultimi istanti: il letto in quella stanza fredda, le ossa sporgenti, i lamenti – insopportabili – che avevano sostituito il linguaggio verbale, il viso stanco, inespressivo. In questi giorni d’estate mi è impossibile mantenere il calmo distacco dei mesi precedenti. È come se fosse di nuovo tutto vivido, di fronte a me, pronto ad accadere di nuovo; eppure è tutto già accaduto, per sempre, compiutamente, e non c’è modo – se non ora, in queste righe che stanno acquisendo il significato di un rito catartico – di riportarmi indietro nel tempo e rivivere tutto, per trattenere qualcosa che mi è sfuggito, per stringere ancora, un’ultima volta, quella mano liscia, perfettamente circolare, che anche nei momenti di maggiore debolezza riusciva a compiere lo sforzo di un’ultima stretta d’affetto. Nelle ultime pagine del suo memoir, Joan Didion scrive qualcosa che mi ha colpito con la forza di una rivelazione: «Siamo esseri umani imperfetti, consapevoli di quella mortalità anche quando la respingiamo, traditi proprio dalla nostra complessità, e così schizzati che quando piangiamo chi abbiamo perduto piangiamo anche, nel bene e nel male, noi stessi. Come eravamo. Come non siamo più. Come un giorno non saremo affatto». Nel mio anno del pensiero magico l’impossibilità del pianto è stato rifiuto dell’accettazione. Inconsapevolmente devo aver creduto che se non avessi messo in scena il lutto ne avrei negato l’evidenza: lui sarebbe tornato, in qualche modo, in qualche universo; questa era solo una parentesi momentanea – un’attesa. E nel profondo chi non volevo piangere non era lui, ma noi, la me che esisteva solo e soltanto con lui, il senso di calore dell’abbraccio, la necessità della cura che era, al tempo stesso, agita e subita, quasi che potessi sentirmi protetta da lui mentre lo proteggevo. Cosa mi sarebbe rimasto se avessi accettato, invece, che tutto ciò era perso per sempre, che non ci sarebbe stato un futuro possibile, un ritorno, ma solo una nuova realtà retta sui senza e i non più?
Allo scadere di questo anno di ragionamenti ossessivi credo di aver capito che non c’è soluzione a ciò che si prova, in una direzione o nell’altra, e che in fondo non mi rassegnerò mai a questa impossibilità logica, perché è il mio modo per tenermi in piedi. Ma devo a Joan Didion l’aver raggiunto questa consapevolezza: al suo anno del pensiero magico che, in un qualche modo, ha innescato anche il mio.
L’esperienza della morte si regge su due poli inconciliabili: è unica e, allo stesso tempo, universale. È per questo che è difficile comunicarla, perché il linguaggio resiste alle contraddizioni. Ho sempre creduto, però, che la letteratura abbia il potere straordinario di legarci a partire dalle nostre alterità: ci riconosciamo nonostante la percezione delle differenze, nei punti di contatto che ci fanno sentire parte di qualcosa o, come direbbe Fitzgerald, «meno soli». L’anno del pensiero magico è un magnifico esempio di questo potere, perché Joan Didion non ha alcuna ambizione di offrire un ritratto assoluto della morte, ma racconta la propria irriducibile, singolare, esperienza – ed è da lì, da quel nucleo doloroso, incomprensibile, ma così limpidamente autentico, che si genera la possibilità del legame, della cura. Dal riconoscimento di una simile impossibilità umana: quella di venire a patti con l’esperienza della morte. Leopardi una volta ha scritto che le opere di genio «non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta»: ecco, se dovessi raccontare in una frase L’anno del pensiero magico userei queste stesse, esatte, parole.
Mi è piaciuto molto,l’ho riletto più volte per cogliere l’animo di Rebecca. L’analisi che fa del dolore e profonda, il modo in cui rivice e fa rivivere gli ultimi anni della malattia del nonno, della sua morte, morte scontata “pianificata, aspettata da anni, intuita con riassegnazione… Nella progressiva sparizione delle parole, negli sguardi che man mano si facevano bassi e lontani”. Il modo di far rivivere il ricordo è struggente e fa stringere il cuore di chi legge. Rebecca non sa gridare ad alta voce il suo dolore, ma, il dolore sommesso è più straziante, più profondo e lascia cicatrici che solo la rassegnazione può guarire e far accetare la triste realtà della morte. “La morte in generale è quella morte: la morte della persona che avevo amato più di ogni altra”.