Diario di Saragozza: Ex vuoto 11 settembre
di
Francesco Forlani
L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un
cavo al di sopra di un abisso.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Queste riflessioni sono parte di un corso di filosofia preparato per i miei ragazzi al Lycée Français Molière di Saragozza sulla nozione di Arte e particolarmente sul ruolo che quest’ultima può avere nella creazione di un territorio nell’immaginario collettivo, qualcosa di simile a un’utopia che, seppure per pochi attimi, da idea astratta diventa qualcosa di concreto, reale. Un attentato al terrorismo.
Per cominciare abbiamo letto le pagine secondo me più belle dello Zarathustra, precisamente quelle in cui Friedrich Nietzsche racconta il “tramonto”di Zarathustra, la sua discesa tra gli uomini che incontrerà poco dopo in una pubblica piazza dove sta per esibirsi un funambolo.
Il nostro arringa la folla, in un’appassionante invettiva contro Dio e contro gli uomini annuncia il suo piano di battaglia e se sulle prime i presenti gli prestano ascolto, subito dopo ce ne viene raccontata l’insofferenza:«Abbiamo sentito parlare anche troppo di questo funambolo; è ora che ce lo facciate vedere!». E la folla rise di Zarathustra. Ma il funambolo, credendo che ciò fosse detto per lui, si mise all’opera.
Un passaggio per certi versi comico questo che mi ha fatto tornare in mente la straordinaria gag di Hollywood Party, quando Peter Sellers si immette nell’esecuzione dell’ordine da parte del regista e fa saltare in aria, letteralmente, la scena preparata con cura ed esplosivi.
Ma ecco che:
A questo punto però avvenne qualcosa che fece ammutolire tutte le bocche e strabuzzare gli occhi di tutti. Nel frattempo, infatti, il funambolo si era messo all’opera: era uscito da una porticina e camminava sul cavo teso tra le due torri, per modo che ora si librava sopra il mercato e la folla. Ma era giusto a metà del suo cammino, quando la porticina si aprì di nuovo e ne saltò fuori una specie di pagliaccio dai panni multicolori, che a rapidi balzi si avvicinò all’altro. «Muoviti, piè zoppo, gridava con voce agghiacciante, muoviti poltrone, impostore, faccia di tisico! Che io non ti solletichi col mio calcagno! Che stai a fare qui fra le due torri? Dentro la torre dovresti essere, lì bisognerebbe rinchiuderti, tu sei di impaccio a chi è meglio di te!». – E a ogni parola che diceva, si avvicinava sempre di più: ma quando fu a un passo dall’altro, ecco che accadde la cosa atroce che fece ammutolire tutte le bocche strabuzzare gli occhi di tutti: – cacciò un urlo diabolico e con un salto superò colui che gli ostacolava il cammino.
Questi, però, vedendosi battuto dal rivale, perse la testa e l’equilibrio e, – più rapido ancora del bilanciere che aveva lasciato cadere, – precipitò in basso, in un mulinello di braccia e di gambe. Il mercato e la folla sembravano il mare quando è investito dalla tempesta: tutti fuggivano per conto proprio, ma si calpestavano a vicenda e la maggior parte correva là dove il corpo si sarebbe schiantato. Zarathustra rimase immobile, e proprio accanto a lui cadde il corpo malconcio e frantumato, ma non ancora morto. Dopo un po’ lo sfracellato riprese coscienza e vide Zarathustra inginocchiarsi accanto a lui: «Che fai qui? disse infine, sapevo da un pezzo che il diavolo mi avrebbe fatto lo sgambetto. Ora mi porta all’inferno, vuoi impedirglielo?».
«Sul mio onore, amico, rispose Zarathustra, le cose di cui parli non esistono: non c’è il diavolo e nemmeno l’inferno. La tua anima sarà morta ancor prima del corpo: ormai non hai più nulla da temere!». L’uomo lo guardò diffidente. «Se dici la verità, disse poi, non perdo nulla, perdendo la vita. Non sono molto più di una bestia, che ha imparato a danzare a forza di botte e di magri bocconi».
«Non parlare così, disse Zarathustra; tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere, e in ciò non è nulla di spregevole. Ecco che il tuo mestiere ti costa la vita: per questo voglio seppellirti con le mie mani».
Quando Zarathustra ebbe detto queste parole, il morente non rispose; ma agitò la mano, quasi cercando la mano di Zarathustra per ringraziarlo.
da Così parlò Zarathustra
Un libro per tutti e per nessuno
di Friedrich Nietzsche ( Versione e appendici di M. Montinari. Nota introduttiva di G. Colli, ed Adelphi)
Non credo esista un testo più bello di questo in grado di raccontarci come si cade, perché e dirci che in fondo, al di là delle intenzioni e delle prove, l’essenziale sia proprio questo: cadere. Risuona la celebre frase di Samuel Beckett, All of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better. Frase tradotta generalmente con «Ho provato, ho fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio». Fall, Fail cadere e insieme fallire.
*
Al primo passaggio, e sempre nel tema, sarebbe seguita una seconda visione da proporre ai ragazzi e che pure aveva segnato l’immaginario collettivo negli anni settanta, ripresa in un recente racconto autobiografico del funambolo francese Philippe Petit, Traité du funambulisme, ( Actes Sud, 2015) libro recensito doviziosamente da Giorgio Vasta all’ uscita della sua traduzione in italiano.
Intanto i fatti ( fonte: wikipedia )
“Il mattino del 7 agosto 1974, Philippe compie la sua impresa più famosa e spettacolare: la traversata delle Torri Gemelle del World Trade Center di New York. Sono le 07:15 quando raggiunge il tetto della Torre Nord, aiutato dai suoi complici nell’installazione dell’attrezzatura, e si prepara a salire su un cavo di acciaio spesso poco meno di 3 centimetri, sospeso a 417,5 metri dal suolo. La traversata dura 45 minuti, tempo in cui Philippe ripercorre il cavo (42,5 metri) otto volte avanti e indietro, con il solo aiuto di un’asta per l’equilibrio e del tutto privo di sistemi di sicurezza. Durante la performance non manca un saluto alle torri e anche al pubblico, che si è formato nel mentre. Al termine dell’esibizione Petit viene arrestato dalla polizia di New York. Tuttavia, valutata la copertura mediatica dell’impresa, il procuratore distrettuale fa cadere le accuse formali e tramuta la condanna nell’obbligo di esibirsi per i bambini a Central Park. Dopo l’accaduto, l’Autorità portuale di New York e New Jersey gli concede un pass a vita per il punto panoramico delle Torri Gemelle.”
Sul sito di Ponte alle Grazie viene riportata la nota di Werner Herzog al Trattato di funambolismo di Philippe Petit:
«Ecco un libro di consigli per quelli che, un giorno, oseranno l’impossibile: camminare dritti incontro al cielo e raggiungere le stelle. Esso mostra l’arte di colmare e illuminare il Vuoto, un vuoto tra due torri, due orli di precipizio, due pianeti, o lo spazio fra il cuore e lo spirito. Un filo collega ciò che sarebbe rimasto separato per sempre nella solitudine. […] Ecco un libro sulla paura e la solitudine, un libro sul sogno e la poesia, sulle altezze crudeli e le nobili audacie, sull’equilibrio maestoso e l’immobilità d’un altro mondo, sulla caduta e la morte. Esso evoca un’estasi che sonnecchia nel profondo di ciascuno, uno stato interiore magnifico, come una luce nascosta. Ti rendo omaggio, Philippe, Uomo Fragile del Filo, Imperatore dell’Aria. Come Fitzcarraldo, sei tanto raro e prodigioso che più non si potrebbe: un Conquistador dell’Inutile. E m’inchino con rispetto profondo».
*
Tornando al punto da cui eravamo partiti, ovvero alla capacità o meglio vocazione dell’arte a creare un paesaggio poco importa quanto riempito dall’esperienza e dall’immaginario che ne traccia la realtà di fatto accaduto, o dal vuoto su cui si sospende un filo, un ponte per rendere possibile l’attraversamento ecco che il “beau geste”, completamente inutile, gratuito, superfluo, compiuto da Philippe Petit ci offre una soluzione. Potrebbero trarre in inganno le facce rivolte all’insù del pubblico, nell’uno come nell’altro caso, l’incredulità di chi è sulla scena ed assiste al gesto audace del funambolo o alla tragedia dell’attentato. Nessuno comunque avrebbe immaginato che la profezia di Beckett si sarebbe avverata l’11 settembre di ventuno anni fa. Nella stessa opera Worstward Ho, (Peggio tutta, traduzione di Gabriele Frasca, Einaudi 2006) da cui è tratta forse la citazione più famosa dello scrittore irlandese da noi evocata, leggiamo infatti poco oltre:
First, the body. No: first the place. No: first both of them – now one, now the other. When I’m sick of one I’ll try the other. I’ll go on like that (somehow go on) till I’m sick of both of them – till I throw up and go away to where neither of them are. Till I’m sick of that too. Then I’ll throw up and come back: to the body again (where there isn’t one), and to the place again (where there isn’t one). I’ll try again and I’ll fail again – fail better again. Or (better) I’ll fail worse again, fail still worse again. Till I’m sick of it for good, throw up for good, go away for good to where neither of them are, for good: for good and all.
Ci sarebbe da interrogarsi su cosa significhi in Beckett “the place”. La metafisica? cui il corpo cederebbe il posto prima di lanciarsi nel vuoto? Oppure semplicemente il luogo da cui necessariamente si deve partire per poter cadere. Forse il posto è le due torri, e il vuoto, un vuoto tra due torri, due orli di precipizio, riprendendo quanto suggerito da Herzog a proposito di quell’arte del funambolo, la sola forse in misura di colmare e illuminare il vuoto? A cadere, fall, a crollare furono le torri. Delle stesse, della loro stessa esistenza oggi rimane un vuoto, smisurato, colmato soltanto da un gesto inutile e grandioso, iscritto nella memoria di chi avrebbe assistito alla magnifica impresa, la traversata compiuta da Philippe Petit nell’estate del ’74.
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‘body’ and ‘place’ come entità sceniche in merito al problema della sostanza/esistenza. Drammaturgia dell’evento.
Articolo molto interessante, grazie.
Grazie Corrado per il corollario.
effeffe