Diario di Saragozza: la torre de los italianos
di Cisco Escalona
A Saragozza v’è il più grande sacrario militare italiano in terra straniera dopo quello di El-Alamein : 2.889 soldati italiani. Fra questi, in maggioranza facenti parte del contingente di migliaia di uomini, tra soldati e camicie nere, inviato da Mussolini per appoggiare i ribelli falangisti guidati dal Generale Franco, vi sono i resti di ventidue garibaldiens delle Brigate internazionali. Sono i caduti italiani sepolti nella Torre de los italianos.
Dal mio arrivo a Saragozza giovedì scorso avevo tentato di visitarlo una prima volta domenica pomeriggio ignorando che le visite fossero possibili solo al mattino dalle undici a mezzogiorno. Un’ora che è uno squarcio nel tempo e nello spazio, dov’è questione di storia d’Europa, dittatori e rivoluzionari. O più semplicemente di fratelli l’un contro l’altro armati.
Una torre ha il vantaggio di essere visibile oltre i tetti e può indicarti la direzione mantenendo lo sguardo alto e non chino sullo smartphone con i suoi itinerari. Essere sospesi in una città è quando la lista delle cose da fare si concede il lusso di variabili a volte indipendenti dal cittadino provvisorio ed allora può accadere che un appuntamento all’agenzia immobiliare che sta per affittarti casa debba essere ritardato e in quel tempo liberato d’un tratto si decida di andare alla Torre, fuori orario senza nemmeno la scusante dell’ignoranza.
Si passa per la Piazza di Spagna, per corso Indipendencia e poi altri viali che ti portano a scorgere l’edificio non troppo distante. Era stato Mussolini in persona, a volerne la costruzione per omaggiare i caduti italiani (dalla parte giusta delle camicie nere) e il progetto inizialmente prevedeva l’altezza di 85 metri ridotta alla metà, otto piani per quarantadue metri. Dell’architetto spagnolo Victor Eusa Rasquen il progetto a cui lavorò tra il 1937 e il 1940.Dal momento in cui varchi la cancellata e l’iscrizione “L’Italia a tutti i suoi caduti in Spagna” sei in territorio italiano.
Nel week-end mi ero dedicato alla ricerca di informazioni su quella strana torre, in verità poco frequentata dai cittadini di Saragozza per quanto sia citata tra le venti cose incredibili da scoprire in città. Per cominciare alcune note e dati fondamentali:
La partecipazione degli italiani alla guerra civile spagnola
Dopo lo scoppio della guerra civile in Spagna, 18 luglio 1936, l’Italia di allora decise di correre in soccorso dei nazionalisti spagnoli guidati da Francisco Franco: 74.285 soldati con 1.930 cannoni, 10.135 mitragliatrici, 240.747 fucili e 7.663 automezzi; 5.699 aviatori con 763 aeroplani; 91 unità navali. Sul fronte opposto dei repubblicani ci furono altri italiani, i volontari delle Brigate Internazionali, inquadrati in una forza internazionale cui partecipavano 40.000 volontari di 52 paesi dei cinque continenti. I volontari italiani, inquadrati nella Brigata Garibaldi, furono circa 3.350.
Sono 236 le località spagnole dove ci furono caduti italiani: 3414 morti, 150 deceduti in Italia, 232 ritenuti scamparsi, 547 italiani morti dalla parte dei repubblicani, di cui solo 22 sono sepolti nella Torre.
In un’intervista rilasciata a una testata d’informazione , Inform, dedicata agli italiani in Spagna, lo studioso Dimas Vaquero Peláez, autore di “CREDERE, OBBEDIRE, COMBATTERE, fascistas italianos en la guerra civil española, afferma: “Tutti devono essere ricordati e a tutti si deve rendere omaggio, tutti diedero la propria vita per una causa, molto rispettabile e così lo dimostra il Sacrario militare italiano di Saragozza… Vissero anche loro la piccola guerra civile in terra spagnola, con scontri fra patrioti, lontani dalla propria terra e reso ancora più drammatico con casi di fratelli italiani in lotta fra loro, triste riflesso di quello che è una guerra civile”. Un libro imprescindibile, aggiungiamo noi.
Nei giorni precedenti alla visita tante erano le domande che accompagnavano la mia ricerca e un desiderio, rendere omaggio in qualche modo ai ventidue brigadistas che la storia avrebbe relegato dalla parte “sbagliata” dei vinti. Era infatti come se la canzone di De Gregori il cuoco di Salò, arrangiata da Battiato, e contestata dalla sua pubblicazione dai puristi radical Kitsch, potesse adattarsi ai nostri “rossi” soprattutto nella magnifica strofa:
Che qui si fa l’Italia e si muore
Dalla parte sbagliata
In una grande giornata si muore
In una bella giornata di sole
Dalla parte sbagliata si muore
La prima domanda riguardava quell’interruzione per mancanza di fondi e caduta di Mussolini, va detto sopraggiunta poco dopo, e la seconda ben più complessa su come il generalissimo avesse potuto permettere già dalla fine degli anni quaranta che venisse onorata la memoria dei nostri garibaldini. A venirmi in soccorso è stato allora un romanzo di Ignacio Martínez de Pisón, Dientes de leche, pubblicato in Italia da Guanda con il titolo il fascista , magnificamente tradotto da Bruno Arpaia, dove una parte importante è proprio dedicata alla Torre de los italianos.
Molte sono le informazioni storiche che ritroviamo nel romanzo e alcune di esse rendono chiari certi passaggi a cominciare dalla riduzione dell’altezza della torre che un po’ mi ha ricordato il racconto di Buzzati, La tour Eiffel dov’è proprio questione di altezze da rispettare o sfidare. Se per Buzzati si trattava di sfidare Dio, nel romanzo citato scopriamo nelle parole di Don Pietro, deus ex machina, il senso di quella strana fabbricazione nel cuore di Saragozza: «Sarà come La Mecca per i musulmani! Da tutti gli angoli del mondo verranno fascisti a vederlo!» urlava, ed era tanta la sua veemenza che né il sindaco né il governatore civile osavano replicargli. Senza rivelare “la fabula” di questo libro estremamente sincero che presenta molti intrighi e colpi di scena, sicuramente “repubblicano” quando denuncia le nefandezze compiute dai fascisti sulla popolazione civile, davvero poco comparabili con quanto avveniva tra i “rossi”, quello che mi ha colpito di più è stata la capacità del suo autore Ignacio Martínez de Pisón nel mettere in prospettiva i fatti della storia rivelandone gli aspetti più umani, il nucleo centrale di quella guerra civile, ma non solo quella, e che sono le famiglie, la lotta fratricida che ne ha sancito l’impossibilità, per popoli interi, di elaborare il lutto. Dal romanzo il lettore scopre per esempio che “i volontari fascisti”, così volontari non lo erano stati, e fascisti non sempre: “Raffaele non era fascista in Italia. Nemmeno antifascista, è chiaro. Raffaele era soltanto povero, e solo per far uscire dalla povertà sua moglie e sua figlia aveva accettato di andare in guerra in un paese straniero. Sulla nave, lo Stelvio Domine, ne conobbe abbastanza che erano come lui, e tutti si mostravano con orgoglio le foto della prole che avevano lasciato al paese. Tra quei soldati, erano pochi (e sempre i più giovani) a essersi arruolati per servire il Duce e diffondere gli ideali del Fascio. C’era anche chi veniva ingannato: gli avevano assicurato che sarebbe partito per l’Abissinia, una destinazione tranquilla, e adesso scopriva che li portavano in una guerra. L’ultima parte della traversata la fecero di notte e a luci spente, e gli uomini si affollavano sul ponte e scrutavano ansiosi l’oscurità. Viaggiavano in abiti civili. Quando si preparavano a sbarcare, raccomandarono loro di non mettersi ancora l’uniforme. Quella era Cadice. Quella era Cadice, ma poteva essere qualunque posto, e comunque cosa importava? Poi il tenente cominciò a urlare, e gli uomini si misero in spalla la loro sacca e cercarono a tentoni il cammino verso la passerella. Un soldato inciampò e ne trascinò un altro nella caduta. Si sentirono risate e bestemmie, e il tenente li sollecitò di nuovo con le sue urla. Perché quella fretta? Raffaele pensò che in guerra non importavano i perché: in guerra le cose si facevano e basta.”
Ma è soprattutto in un passaggio cruciale della storia della Torre, ovvero quando vengono individuate in altri cimiteri le salme degli italiani in modo da poterle riunire agli altri già tumulati nel Sacrario, che accediamo a un orizzonte di senso nuovo, almeno per me. Don Pietro, accompagnato da uno dei protagonisti e un francescano sul posto procedono in quella terribile operazione di recupero dei corpi o di quanto rimaneva di essi:
“Una mattina andarono a Villanueva de Gallego, dove il battaglione di Raffaele aveva combattuto mentre lui si rimetteva dalle ferite nel Nucleo Chirurgico Chiurco. Viaggiavano su uno dei veicoli forniti da Serrano, un furgone nero con il giogo e le frecce delle Falange dipinte in rosso, e con loro c’era un giovane cappuccino spagnolo, il fratello Iluminado.«Il cimitero» disse padre Pietro, indicando da una parte.
«Di là.»
«Di qua» lo contraddisse Raffaele, che guidava.
«Di là.»
«Lei lo dice a me? Ho fatto la guerra qui!»
«Anch’io ho fatto la guerra qui! In questi paesi avrò battezzato centinaia di bambini! È di là. Sicuro.»
«Truppa» disse fra’ Iluminado guardando il cappellano.
Voleva dire che la bottiglia con i suoi dati identificativi era legata a una gamba. Quando il morto era un ufficiale, aveva la bottiglia legata a un braccio. Raffaele lo accompagnava soltanto nei cimiteri della provincia. Dei morti sepolti in cimiteri più lontani si occupavano padre Pietro e gli altri cappuccini, e lui non si prendeva nemmeno la briga di chiedere. Un giorno arrivarono con tre nuovi cadaveri, tutti e tre avvolti in dei sudari. Raffaele osservava fra’ Iluminado andare e venire con la carriola.
«E questi perché non hanno la bottiglia?» chiese.”
Ed è così che si rendono conto di avere preso in cura anche le salme dei nemici, dei “rossi”. Sulle prime li vediamo reagire quasi stizziti di fronte a quella incongruenza ideologica, fascisti che si occupavano dei corpi di antifascisti, ma dura un attimo perché a vincere sarà una pietas mista a un sentimento patrio autentico, quello che ti fa considerare dei tuoi compatrioti come fratelli a prescindere dalle idee o dai partiti.
Arrivo trafelato alla Chiesa di Sant’Antonio che fa parte del complesso della torre sono davvero fuori tempo massimo. Il parroco mi accoglie e quando gli chiedo di poter almeno vedere dall’interno, dal piano terra latorre mi acccorda cinque minuti ed entriamo.
Gli faccio delle domande a cui risponde con estrema dolcezza e comunicandomi che la vera missione della torre era quella di trasmettere, attraverso la memoria e il dialogo, un desiderio di riconciliazione all’interno di un continente, un popolo, di una stessa famiglia lacerata dalla guerra civile. Mi chiede se sono di passaggio, turista e gli rispondo che sono a Saragozza per lavorare, al Liceo francese di Saragozza come professore di filosofia. Quando aggiungo che avrei cominciato l’indomani mattina, mi ha fatto cenno di salire, che non avrei avuto tanto tempo ma abbastanza per raccogliermi di fronte a quei nomi e cognomi sprovvisti di luoghi di nascita e età.
Impossibile trovare i miei ventidue, ovvero identificarli tra i 2.889. Di tanto in tanto parenti venuti dall’italia ne avevano apposto accanto alla lapide una fotografia e poche note a testimonianza che prima di essere morti avevano ben vissuto da qualche parte, e con altre persone, una moglie, una madre, dei figli, dei fratelli. In nessun caso un segno di riconoscimento, Falange o Brigate internazionali.
Allora ho capito che non ha proprio senso in questi casi una memoria selettiva. Che non si poteva non provare della pena per ognuno di essi a prescindere dal campo giusto o sbagliato, di chi avesse vinto o perso, in questo paradosso spagnolo per cui chi era stato fascista durante la guerra lo sarebbe rimasto negli anni a seguire fino alla morte di Franco e anche dopo con il tentativo di colpo di stato degli anni 80. Al piano terra è possibile vedere la maquette del progetto della Torre nelle sue dimensioni originali. Due volte l’altezza di oggi, impressionante. Ed è un bene che si siano fermati prima, quel poco che basta perché sia visibile per chi vaga da quelle parti alla ricerca di un senso alla storia che forse un senso non ha. E chiudere con i magnifici versi di Jacques Prévert, “Quelle connerie la guerre”.
I commenti a questo post sono chiusi
Bellissimo post.
Grazie!
Orsola cara, ben conoscendo il tuo rigore, questa tua nota mi lusinga.
effeffe
caro francesco, bel pezzo (e storia incredibile questa della torre). Letue considerazioni finali mi hanno ricordato quelle del Pavese di una Casa in collina. Un abbraccio
uè Iglé ti ci porto quando verrai
effeffe