Napoli scontrosa
di Davide Vargas
San Giovanni a Mare_ 5 settembre 2017
Un amico del nord mi dice che sì, riesce a passare per Napoli ma solo per andare a vedere San Giovanni a Mare. Non so niente di questa chiesa ma non lo dico. Invece mi informo e vado a cercarla. Via Marina è il solito interminabile cantiere ma dopo il caldo furioso e assiduo dei mesi scorsi oggi l’aria è più fresca e la domanda: ma quando finiranno questi lavori? è meno pressante. Il campanile del Carmine è chiuso dai ponteggi e io parcheggio nella sproporzionata ombra che palazzo Ottieri stampa sul selciato, di fianco a un furgoncino verde come le olive. L’immancabile parcheggiatore abusivo con un segno della mano benedice il via alla mia passeggiata. Imbocco la strada laterale tra biciclette e passeggini in esposizione sul marciapiede. Costeggio il retro del palazzo che è un trionfo di balconi con fogliame di plastica, panni stesi e tende variopinte, condizionatori e caldaie, ripostigli o verande in alluminio, tubi zincati o verniciati e qualche vaso con il basilico la menta e spenti gerani. Avrò visto un milione di progetti su palazzo Ottieri: dalla demolizione totale alla rimozione di pezzi, sempre alla ricerca del mare perduto. Fino alla frustrazione di inutili abbellimenti. Non so, mi sembra che questo mastodonte sia come la carcassa di un gigantesco animale preistorico che il mare, da qualche parte oltre ma anche oltre i depositi i silos i carriponte, la parte di mare offeso e incattivito da questa città abbia lasciato incagliato ineluttabilmente nelle sue trame. La piazza del Mercato me la ritrovo sulla destra. Anche qui, l’ombra del palazzo ricopre la strada, le macchine ferme, il marciapiede, i dissuasori di piperno e si spinge fin dentro l’invaso. Poi comincia la luce. La sua rivincita. Si estende per tutto l’emiciclo, fino agli intonaci bianchi e le tende aperte sugli ingressi alle botteghe. Fino alla chiesa al centro dell’esedra dove le statue nelle nicchie assorbono fameliche la luminosità che le allontana dal buio dietro le spalle. Ma è il punto, la linea netta, dove l’ombra incontra la luce che smuove suggestioni, Masaniello le impalcature con i morti, le esecuzioni la rivoluzione, il punto nevralgico del di qua o di là sapendo che quello che non è stato lo puoi sempre vedere da lontano come un poteva essere e illuderti che in fondo sia un po’ vero. Vado avanti, verso l’arco come mi ha detto il posteggiatore. Preferisco chiedere piuttosto che seguire il navigatore. Fino alle costole di tufo giallo di Sant’Eligio Maggiore. È una bella sensazione camminare in questo tratto, un punto di benessere premere le suole delle scarpe sul lastricato e conversare. Ma sono da solo, conversare con me stesso, è ovvio. Ed è in questi frangenti che la narrazione si scrive, parola dopo parola, come i passi del viandante, in una zona della mente dove nulla svanisce. L’ingresso laterale alla chiesa è un portale strombato ricco di figure naturali e animali incastrate nelle gole delle nervature gotiche. Supero l’arco con l’orologio quattrocentesco. Un uomo in calzoncini corre davanti a una macchina per farla parcheggiare. Mi indica con un gesto della testa come fanno certi cagnolini di pelouche che San Giovanni a Mare è dietro l’angolo. Come ogni cosa, dietro l’angolo. Strano ingresso, non diresti mai che è una chiesa. Una specie di portone su una facciata anonima sotto finestre da casa protette da inferriate. È un ingresso laterale, l’unico. Si accede in un cortiletto, vi è esposta la copia di Donna Marianna ‘a capa ‘e Napule rediviva Partenope. Passo davanti a uno stanzino dove un portiere mi saluta con gentilezza. L’interno è buio. Nella penombra rintraccio le linee dell’impianto normanno, raro esempio nel panorama della città. È questa l’unicità che cercava l’amico del nord. Ma l’oscurità è una porta verso altre mete. Come sempre mi accade sono in un posto e contemporaneamente attraverso i nessi con i luoghi della memoria, la mia terra [Aversa] di fondazione normanna e le infinite tracce del primitivo disegno. Questa è la forza, un grafo di onde come quando getti un sasso nell’acqua, oltre la mera dimensione fisica. Non succede sempre. Ma se sì, allora mi sento in un luogo parlante. Mi incammino per ritornare e penso al nome della chiesa. Quell’a mare. Un taglio nella cortina apre su un vicolo. C’è tutto qui. Un suv parcheggiato all’imbocco. I panni stesi da un balcone all’altro. Motorini e una puzza di cipolle. In fondo le strutture del porto. La cosa che non c’è più è il mare.