Diario di Saragozza: Ecce Homo
di Cisco Escalona
Si esce fuori una sera,
e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
gli altri, allegri. Bisogna guardarli dai vetri.
L’uomo solo, Cesare Pavese
I destini li dettano i numeri, e i nomi che si intrecciano ogni volta a comporre un mosaico che non ti aspettavi, però è proprio lì, a indicarti non una strada ma il fatto davvero poco opinabile che sei proprio dove dovresti essere. Di questo, non rispettando la cronologia del viaggio da Parigi a Saragozza, dirò poi perché oggi si tratta di un viaggio nel viaggio che comincia al mattino servito su un tavolo insieme al caffè e che recita testualmente: autobus stazione Delicias, Saragozza-Borja partenza ore 12,45 e ritorno 18h40.
Il sabato sera s’era trascorso un po’ in spirito spleen, da solitudine dei numeri sesti, però tutto sommato restava nell’aria la mitica impresa del venerdì. Un buon ristorante di carne, sangue e vino accanto all’albergo avrebbe rimesso sul peso della bilancia una nuova equazione del bene.
La carne era buona, il vino altrettanto ma forse ha ragione Pavese quando dice che quando si è soli bisogna evitare di entrare.
Ho chiesto sul fare del giorno alla signora della reception se potesse indicarmi il cammino, la mia Compostela, per ammirare quella che a detta di tutti era l’opera meno riuscita del mondo e il cui titolo dell’originale rifatto, era Ecce Homo. Avevo le indicazioni e l’avviso che quello non era una semplice gita, ma un’odissea da farsi da solo, col caldo e un completo azzurrino con cravatta e cappello contro ogni buon senso.
Come per prendere la rincorsa e pensare ovviamente alla cosa, aprire quel tipo di libro contabile dell’esistenza che cerca una quadra nei conti sull’energia dello sforzo e la meta, ho fatto un giretto. In genere quando ciò accade si rimane sul bordo e poi appare del tutto evidente che proprio non bisognava.
A quel punto del vagolare per il quartiere della Maddalena, dove vorrei abitare, m’imbattevo nello strano negozio. Cosa voleva dire se non chiudere tutto e accettare di fare a ritroso il percorso e imbarcarsi nell’epica di quella promessa, di andare a vedere se è davvero possibile quasi ammirare un’opera brutta, anzi mostruosa perduta in timide alture senza null’altro.
Ho preso il biglietto e poi per scherzare ho invitato gli amici a indovinare ove mai andassi, questa domenica, in tiro e sprezzante della deserta campagna, del caldo e di nuovi elementi di sbalzo. Ma nessuno ha provato nemmeno per scherzo a tirare quel dado.
Sono allora arrivato sul posto che era mezzo deserto e lontano sei miglia dal noto Santuario de Misericordia, e timidamente ad una ragazza munita di trolley e deposta a quella fermata ho chiesto se almeno sapesse se v’era maniera di arrampicarsi su in cima di quella collina, più comodamente che a piedi, in un taxi e ha risposto al mio strampalato spagnolo con italiano perfetto che avrebbe trovato in un batter di ciglia quel numero e perfino chiamato per indicare la posizione de losco figuro. Helena che aveva studiato a Torino e Sarzana mi aveva salvato dal moto di wallera cosmico quello per cui financo il sistema solare pare un vento che ci soffia contro.
Quando sono arrivato sul posto mancava un minuto alla chiusura e quasi inciampando nei lacci e nel tempo mi sono gettato oltre il ligneo portone che invece di chiudersi subito dopo restava com’era per dare a chi avesse un po’ di ritardo la chance insperata di potere prostrarsi dinanzi alla insolita opera. Una signora spiegava e faceva le foto a chiunque glielo chiedesse e con estrema naturalezza a chi lo volesse faceva la foto testimonianza, quella che avrebbe composto uno strano mosaico di facce che guardano la disinvolta creatura, un tempo Gesù.
La visita stava finendo ed ancora restava inevasa la vera questione che aveva lo scriba venendo. Perché a dieci anni dalla creazione più sconcia del secolo in numero di ventimila all’anno giungevano da ogni paese per poter dire di esserci stati? Era forse la stessa incompresa curiosità di automobilisti sorpresi da un incidente sull’altra corsia e che senza rifletterci affatto rallentano per osservare, intravedere qualcosa che proprio una rosa non è? O forse esperire in quella eccezione dell’arte una ecceità della storia mortale ed eterna, alla maniera della bellezza che cambia di segno col tempo e la sua vanità ci rattrista come in un quadro di Goya? Migliaia, e forse milioni di uomini e donne intanto tracciavano con bandierine il solco di quell’avventura.
Una cosa inspiegabile è un miracolo. E quello che aveva un’oscura vecchietta compiuto per questo villaggio sperduto, facendo con una passione senza talento un restauro inventato. E il Cisco? Il Cisco pensava che appena mancava al ritorno una breccia nel tempo, quattro ore ed un chiamo al tassista che l’aveva condotto fin lì, per potere poi rincasare, riotellarse, prima di sera profonda. E nella piazza abitata da pochi rimasti dei pellegrini e di massima età attrezzati simpaticamente scambiando il rituale e sorpreso conoscersi dall’idioma parlato, con una giovane coppia solare, medici e residenti a Torino, Elena e Giacomo, si fece sosta con leggero ristoro ed in carrozza con loro ritornammo a riveder le stelle della Cattedrale del Pilar.
Corollario Super Santos
E del rosso-arancione pallone restaurato da giovani in gamba da calciatori el Cisco dirà forse un giorno.