Resoconto tardivo di letture invernali
di Daria Catulini
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A molte cose arrivo tardi. Tra queste cose c’è anche l’opera di Jonathan Franzen.
Ho letto Le correzioni, per la prima volta, lo scorso inverno. Dopo averne letto l’incipit, ho pensato: che incipit. Un incipit folgorante, ho pensato. In quel momento ho deciso che avrei letto tutte le sue opere. Dopo Le correzioni sono passata al recente Crossroads, poi a Purity, che mi riservo di finire entro l’estate. Continuo a chiedermi cosa mi piaccia, esattamente, della prosa di Franzen. La prosa di Franzen la mangerei, mi dico.
La prosa di Franzen, mi dico, la farei a pezzetti, la afferrerei con i denti gustandone ogni sapore, velatura, aroma. Ma, forse sto semplicemente parafrasando un arrogante desiderio di impossessarmene. In ogni caso, non costituendo reato, continuo ad immaginare il mio debole per Franzen sotto vesti fagiche.
“Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l’intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine”.
Questo l’incipit delle Correzioni . Dovevo fermarmi, rileggerlo, distogliere lo sguardo dalla pagina e verificare che Franzen non fosse davvero lì, fuori dalla finestra, a suggerire somiglianze tra il mio inverno e quello di St. Jude.
L’incipit delle Correzioni, ricordo, fu un pugno nello stomaco e una boccata d’ossigeno.
“L’intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine”. Ripenso spesso a quella mattina invernale passata in compagnia di questo incipit. Per sempre, mi dico, l’inverno avrà il sapore di queste righe. La cosa diventa poetica quando diventa “tutti”, quando l’inverno di Saint Jude diventa “tutti gli inverni” ?
“In tutta la casa risuonava un campanello d’allarme che nessuno poteva udire eccetto Alfred e Enid. Era il campanello d’allarme dell’ansia”. Lo stesso che si era imposto alla mia attenzione, avvertendomi di certi miei automatismi di cui non avevo avuto mai contezza. Chip, figlio dei decadenti Alfred e Enid, più o meno della mia stessa età, “incolpava i suoi genitori per l’uomo che era diventato”. “Essere così vigoroso e pieno di salute, eppure una tale nullità”, dice Chip, che ha esordito nel mondo accademico e ora è impegnato a scrivere sceneggiature. “Sarebbe stato meglio, pensava, ammalarsi gravemente e morire adesso che era un fallito”.
È stato un inverno disastroso, durante il quale ho masochisticamente inventariato tutti i miei fallimenti.
Mi sono poi consolata, tramite letture coadiuvanti e complementari, appurando che “l’insuccesso è ovunque e in ogni luogo, ma non sempre viene riconosciuto come tale”.
Mi sono ritrovata, nella pila di libri che avevo deciso di leggere durante l’inverno, quel saggio – Fallimenti – che si sposava benissimo con il “piacere Franzen”. Ero io a pilotare la ricerca, per trarne un giovamento o un perdono, o erano quei due libri che casualmente si erano incrociati in una stessa traiettoria? Ho continuato a tenere i due libri vicini, illudendomi di una miracolosa congiuntura che mi avrebbe redento da colpe imprecisate.
“Ti piace leggere?” Mi ha chiesto un tizio che una sera ho invitato a casa. Per giorni ho riflettuto su questa domanda, chiedendomi se il suo sarcasmo nascondesse uno stupore per la natura (e i titoli) di quei libri. Poi, ripensando a quella domanda, mi sono avvicinata al comodino e ho appurato che lì campeggiava un rosso, fresco di ristampa Istinto di morte e conoscenza di Massimo Fagioli. Quel tizio non si è fatto più vedere.
“Per una sorta di paradosso, la ricerca di sistemi più pratici – una delle promesse infrante che la Silicon Valley e Wall Street dilazionano all’infinito – ha portato al dilagare dell’ansia, del debito e della crisi, sia su scala individuale sia al livello della comunità”.
“Davvero la soluzione è fallire meglio, come ripetono tanto Samuel Beckett che Mark Zuckerberg?”
Chip, licenziatosi dalla carriera accademica, ancor prima di aver pubblicato la sceneggiatura intitolata Porpora accademica, prende un aereo e fugge in Lituania. La maniera di accostare tragico e comico, in Franzen, è sublime. Più volte, ad esempio, spetta al salmone il compito di stemperare il bollore riflessivo di alcune delle creature pagliaccesche di Franzen.
“C’è una cosa che ti voglio chiedere, – disse Doug. – Hai un secondo? Metti che qualcuno ti offra una nuova personalità: accetteresti? Metti che qualcuno ti dica, Riprogrammerò per sempre il tuo hardware mentale in qualunque modo vorrai. Pagheresti per farlo? Il pacchetto del salmone si era appiccicato alla pelle sudata di Chip e si stava lacerando sul fondo”.
Esiste un modello per gettare luce sull’estetica e sulla logica del fallimento? Si chiedono Arjun Appadurai e Neta Alexander nel libro Fallimenti, dove propongono la metafora del buffering per indicare la nostra crescente dipendenza dalla connettività telematica. La nostra psiche non solo sarebbe governata da queste sete di connettività ma regolata da una sorta di economia affettiva (generata dai sistemi tecnologici) che fa leva su ansia, impotenza e negazione della natura inconoscibile della tecnologia. Da buffer: cuscinetto, smorzatore, intercapedine. Il buffer è quella parte che “ritarda la trasmissione in attesa che i dati a disposizione siano sempre sufficienti per dare luogo ad un flusso ininterrotto”. Generatore di ansia e frustrazione.
Il libro di Appadurai, Fallimenti, è del 2020. Non ricordo se sia finito sul comodino (lo stesso scrutato con diffidenza dal tizio che non si è fatto più vedere) prima o dopo aver finito Le correzioni. Ho deciso che quel libro è un commento in forma di saggio, una dilatazione concettuale, direi, di quel secondo capitolo, Fallimento, delle Correzioni. I due libri si attraggono e vivono l’uno dell’altro.
“La gioia è un dono, non bisogna meritarla”. Così Marion dice a Russ, cercando di attenuare il senso di colpa di suo marito. Era il 25 aprile quando le parole di Marion (da Crossroads, il nuovo libro di Franzen) hanno accarezzato lo stormo di luce di quella bella giornata. Eppure, lontano, la luce sembrava accogliere una pioggia di ombra. Non sapevo se sposare le parole di Marion o di Russ. Mi pareva, durante quel pomeriggio, che la filigrana del giorno fosse totalmente reversibile. “Una giornata di primavera dovrebbe poter essere una giornata di primavera” pensavo. Nessuno spessore dovrebbe poter ribaltare la certezza della luce. Marion e Russ , dopo aver fatto sesso in una camera d’albergo in Arizona, si rappacificano confessandosi i tradimenti: Russ con una parrocchiana di Crossroads, Marion con un ex mai dimenticato.
Dopo aver terminato Crossroads e prima di tuffarmi in Purity, ho ricevuto una telefonata da mia madre, la quale mi diceva che finalmente si era decisa. Voleva iniziare un percorso di psicoterapia. Dopo un’ attenta ricerca che l’ha portata a scovare uno dei migliori psicologi su territorio teramano, si è fatta coraggio e ha telefonato – mi dice – per prenotare un primo colloquio. “Lo psicologo che ha chiamato”, le ha riferito una voce femminile, “è morto”. “Mio figlio non ha ancora eliminato il suo sito web” ha detto a mia madre come per scusarsi. Dicevo del romanzo Purity. Purity si apre con una telefonata tra Pip, diminutivo di Purity, e sua madre.
“Oh micetta, come sono contenta di sentire la tua voce, – disse la madre della ragazza al telefono. – Il corpo mi tradisce di nuovo. A volte penso che la mia vita sia solo una lunga serie di tradimenti corporali.
Non hai idea di quanto invidi il tuo box
Non idealizziamo il box, – disse Pip
È questa la cosa terribile dei corpi. Sono visibili, troppo visibili.
La madre di Pip, benché cronicamente depressa, non era pazza. Era riuscita a conservare il posto di cassiera al New Leaf Community Market di Felton”.
Dalle prime pagine è evidente che la madre di Pip sia un personaggio-matrioska. Esso racchiude dentro di sé il fallito Chip di Le correzioni, Glenn il figlio di Alfred ed Enid, Judson il figlio di Russ e Marion e così via. Ogni inizio estate guardo con attenzione ai cartelloni dei costumi da bagno di Calzedonia. Perché i cartelloni di Calzedonia sono così grandi? Ogni anno, soprattutto ad inizio estate, rifletto sui corpi, sul corpo, sui costumi da bagno, sui miei costumi da bagno, sul mio corpo, forse biasimando, come la madre di Pip, questa eccessiva visibilità dei corpi. Mia madre, una volta, mi ha detto di essersi rappacificata con il proprio corpo a sessant’anni. Il punto è che, quando ha pronunciato questa frase, sessant’anni non ce li aveva ancora: abitudine (ereditata dal padre) di arrotondare l’età per eccesso. Quest’anno, mi è capitato di pensare che il corpo è forse l’unica oasi materiale che non può essere smaterializzata. Sembra che la visibilità del corpo porti con sé una presenza eccessiva che non è mai eccessiva. Sembra che i bisogni del corpo tengano a bada i miti dell’immaterialità e della connettività ininterrotta. Scrutando i cartelloni pubblicitari di Calzedonia, mi sono ricordata di una lettura in cui Binswanger, riportando il caso di una paziente, racconta che S. non si vergognava del proprio corpo, a causa del corpo, ma a causa dell’esistenza come organismo corporeo. Il loro desiderio d’essere magre era la risposta all’ideale nascosto di essere incorporee, pure presenze spirituali che lo sguardo dell’altro non avrebbe mai potuto penetrare. È questa una tentazione d’onnipotenza, l’onnipotenza dello spirito non condizionato dai limiti della materia; una tentazione che la nostra cultura ha coltivato, proiettato e ipostatizzato nel concetto di Dio, spirito purissimo senza corpo, Essere in sé e per sé, l’esatta definizione dell’autismo.»
“Desiderava che fosse più felice” pensa Pip di sua madre. ” Quello era l’enorme blocco di granito al centro della sua vita, la fonte della rabbia e del sarcasmo che rivolgeva non solo contro sua madre, ma anche, in maniera sempre più controproducente, contro oggetti meno appropriati. Quando Pip si arrabbiava, non ce l’aveva davvero con sua madre, ma con il blocco di granito”.
Durante una giornata di primavera-la primavera seguente l’inverno di letture- sfogliando l’indice di Giornalismo culturale di Alfonso Berardinelli, cerco per curiosità la voce “Franzen”. La trovo, vado alle pagine indicate e leggo: “Franzen mi sembra un romanziere piuttosto intelligente, molto consapevole e ambizioso, a cui manca tuttavia, come a molti contemporanei, il dono di catturare l’attenzione del lettore già con il ritmo il tono delle prime frasi, con la scelta immediata e naturale delle cose da dire o non dire”.
La mia opinione aveva messo radici agli antipodi.