Visita alla Maison Jean Cocteau
di Ornella Tajani
Quando arrivo a Milly-la-Forêt piove. Ci sono venuta con un’auto a noleggio, vista la difficoltà di raggiungere il posto tramite mezzi pubblici: da Parigi bisogna prendere la RER fino a Massy e poi una delle occasionali navette locali, oppure un costoso taxi privato. Parcheggio la 500 rosso smagliante sotto delle acacie gocciolanti e scendo.
Il borgo, tutto in pietra e immerso nel verde, è curato e graziosissimo, uno dei più antichi del Parc Naturel Régional du Gâtinais. Conosco il nome di questo paesino, poetico e un po’ lezioso, dai tempi della tesi di laurea su Jean Cocteau: qui l’autore ha vissuto dal ’47 al ’63, fino alla morte. Aveva acquistato la Maison che sto per visitare insieme all’attore e compagno Jean Marais, grazie ai proventi del film La belle et la bête. La villa, riaperta lo scorso maggio, costituiva anticamente la dépendance del castello del XIII secolo che le sorge accanto; dal 2010 ha accolto il pubblico a fasi alterne, dapprima grazie all’interesse e ai fondi del mecenate Pierre Berger, alla morte del quale la casa ha rischiato di chiudere, per poi passare sotto l’egida del Consiglio Regionale dell’Île-de-France.
Come ho scritto altrove, non sono una grande amante delle case-museo, spesso private del loro soffio vitale, imbalsamate nella condizione di attrazione turistica; per Cocteau, però, che mi ha accompagnata per anni, faccio un’eccezione e, mentre mi avvio nel vialetto che conduce all’ingresso, un po’ di emozione c’è.
La cornice della Maison è costituita da un grande giardino, poi trasformato in frutteto e attraversato da un canale, nel quale sono distribuite opere appartenute all’autore: una testa in pietra da lui acquistata, incredibilmente somigliante a uno dei suoi disegni (nonché a Marais stesso), così come delle sfingi, poste ai lati di uno degli ingressi, che furono un regalo dell’attore. Nella parte posteriore è stata allestita un’installazione di Les EpouxP dal titolo L’indifférence des astres, costituita da grandi lenzuola bianche stese fra gli alberi, attraversate da striature iridescenti: bisogna inquadrarle con la fotocamera dello smartphone per vederle animarsi ed evocare, così, l’universo fantasmatico della Belle et la bête. Sembra un’idea indovinata, ma tutti ci proviamo invano: «c’est raté», sentenzia lapidaria una visitatrice, allontanandosi.
È quasi ora, mi dirigo verso la pergola dalla quale partirà la visita. Il tour dell’edificio è possibile solo accompagnati da una guida e dura trenta minuti: i tempi sono un po’ stretti, così come gli spazi. Mi accorgo che i membri del mio gruppo hanno quasi tutti teste canute e non posso non pensare che l’effervescenza dell’opera e del personaggio di Cocteau travolgerebbe invece qualsiasi adolescente o ventenne di oggi: lui che ha scritto Les enfants terribles in diciassette giorni, mentre era in clinica per disintossicarsi dall’oppio, che ha creato personaggi gender fluid ante litteram, che ha descritto in maniera mirabile gli struggimenti dell’amore non corrisposto, etero o omo che fosse; lui che è stato per una vita ossessionato da un’immagine di uomo ideale, infinite volte riproducibile (e riprodotta in migliaia di disegni) e sempre fatale.
La guida arriva un po’ in ritardo, affannata dal tour precedente: «Siete troppi!», esclama sorridendo, alludendo al viavai di turisti senz’altro maggiore nel mese di agosto. Si comincia con quella che era stata la cucina della casa, sulla cui struttura era intervenuto lo stesso Cocteau, nella quale hanno allestito un tabellone di foto e dati biografici che non avrei il tempo di guardare neanche volendo, dato che la guida sta facendo la sua introduzione: succede insomma un po’ come durante i convegni, in cui è impossibile leggere il testo sulle slide proiettate mentre il relatore sta dicendo altro (eppure la formula viene riproposta sistematicamente). Faccio in tempo a vedere un ritratto dell’autore che non conoscevo, fotografato in Egitto, con le piramidi alle spalle.
Si passa poi nel salone, in cui troneggia il tavolo da corrispondenza circondato da una molteplicità di oggetti più o meno eccentrici: non è chiarissimo se la loro disposizione sia sempre stata questa o se – come credo – la stanza sia diventata in parte il ricettacolo di elementi prelevati da altre camere, ad esempio dal piano chiuso al pubblico. Su un tavolino c’è un bel calco delle mani di Cocteau, della cui eleganza lui andava molto fiero, difatti in vari scatti lo si vede mostrarle compiaciuto; nel resto della stanza sono disseminati diversi doni di amici, fra i quali quelli di Coco Chanel.
Al piano di sopra si visitano l’anticamera-studiolo dalle pareti tappezzate in tessuto leopardato, con una lavagna che reca ancora appunti autografi, e la camera dal letto rosa, disposto in diagonale perché l’autore, al risveglio, amava vedere i merli della torre di fronte (Marais dormiva invece in un’altra stanza); il muro è decorato da un disegno del figlioccio ed erede Édouard Dermit. Alle pareti di ogni corridoio campeggiano numerosi ritratti di Cocteau, fra cui celebri foto di Man Ray.
Ciò che però manca, in questa casa, è il segno del talento di un artista così eclettico – drammaturgo, romanziere, saggista, regista, pittore, creatore di mosaici e ceramiche, di tessuti e gioielli -, eppure sempre così «poeta», tanto da classificare le sue opere in poésie de théâtre, poésie de roman, poésie critique, poésie de cinéma e persino poésie plastique: fatta eccezione per i pochi disegni esposti all’ingresso, non c’è traccia dei suoi numerosi schizzi, dipinti, sculture, oggetti decorati, e lo spazio è troppo poco per godersi la lettura delle occasionali citazioni tratte da suoi testi e riprodotte sui muri. Mancanza non colmata neanche dalle due piccole esposizioni temporanee, aperte fino al 31 ottobre per festeggiare la riapertura: la prima dedicata al «bestiario incantato» dell’autore, in cui sono esposte sculture di animali che gli erano appartenute; la seconda, molto didattica, consacrata al balletto Parade, concepito da Cocteau nel 1917 per rispondere all’imperativo dell’impresario russo Diaghilev, che gli aveva ordinato «Stupiscimi!» (l’autore ci riuscì, insieme a Picasso che curò le scene e a Satie che compose la musica: per descrivere questa pièce Apollinaire coniò l’aggettivo «surrealista»). La visita della casa, dunque, sembra concepita soprattutto per appassionati di cabinets de curiosités, e potrebbe deludere chi avesse voglia di sentire o riconoscere il vero esprit cocteauiano: ad allontanare il rischio, però, contribuiscono sia la vicina e bella Chapelle Saint-Blaise des Simples che, sebbene non inclusa nel circuito della Maison, fu interamente decorata dall’autore e ospita oggi le sue spoglie; sia il giardino incantato che circonda la casa, nel quale Cocteau era solito ammirare «l’assurda e magnifica testardaggine delle piante»; si capisce così perché vi si fosse stabilito, facendo del luogo un rifugio intimo più che un salotto mondano (nonostante le occasionali visite di amici celebri), e perché, quando lo scoprì, disse di aver finalmente trovato «un cadre», una cornice serena e un po’ magica in cui vivere e lavorare.
… il giardino incantato che circonda la casa, nel quale Cocteau era solito ammirare «l’assurda e magnifica testardaggine delle piante»; merci Ornella.
Ps: chissà se gli organizzatori di convegni ti ascolteranno :)