Se un corpo è puntellato dagli spilli
ph Olivia Arthur
Preludio (Asturie/Leyenda) Helling, E.
di Mariasole Ariot
Si incammina lento, un corpo puntellato dagli spilli, quando gli insetti s’insinuano nel sottopelle e dalla punta più bassa del terreno arrivano alla testa: un brulichio di voci e mani a forma di pensiero, i pensieri a forma di persone, quanti volti anneriti dai tempi che non fanno spazio, corrugati per assenza di ricordo, ho un buco nella testa che è sbarrato, e la lingua non fa verso e non chiede se non una parola. Le dita conficcano le membra, questo eccesso, il troppo sensoriale della materia che non fa mai silenzio, che urla sotto e fuori dalla cute, si poggia è una membrana e non fa bordo, ancora nella nuca si spinge in verticale, poi per una circostanza si diffonde, e quante e quali madri non stingono le attese, dove le culle cadute non prevedono la vista.
Non esiste un’infanzia se non è passata,
passare non significa passato
Poi le voci e il pullulare dove e quando non esistono corolle, un fiorellino che non fora, la giovane richiesta della notte, un sonno non tormenta la quiete di un albeggio non si chiede se richiede, domandando il mandato di un’offesa – se il corpo è già qualcosa di caduto, il tutto che riposa nel contrario della mente, se mente è dire corpo se quando il corpo mente, il lungo tentativo di una resa. Il terrore del costato un po’ malconcio, la mia parola controverso si dimena da gomiti a falangi, riduce come fosse scheletrino: la vedi la latrina del timore, se affondano le cose e i tetti del cervello, un giorno maculato come bestie, insetti e quanto tempo rimandato, mi bruca nelle parti un padre senza voce che mi guarda la finestra.
Non parla la parola se non muta,
non muta la parola che non parla
E’ un tempo senza spazio, la dispercezione dell’ambiente quando le parti si disgregano e sono pezzi e brandelli di fuggitivi, le domeniche del vuoto si insinuano nella gola, esce un vaso cavo da riempire – e tu lo riempi con lo sputo di secoli a venire, un rigurgito di umanità mancata di avvenire. Poi un raggio come una freccia trapassa le tempie, senza terreni sopra la testa, capovolti come siamo a muovere le gambe roteandole a camminare nell’assenza, distesi e tesi statue di amianto, la sorte della maledizione: la disfazione dei letti, della memoria che non portiamo sulla schiena ma nell’occhio.
Non un centimetro del mio volto che tu non mi abbia fornito malato, un difetto di fabbricazione: ciò che volevi che fossi, ciò che se fosse non ero.
Non dare un germoglio all’ombra
non fare dell’ombra il tuo giaciglio