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Guarda che c’é dentro qualcosa

di Laura Rescio

Guarda che c’è dentro qualcosa, mi dice. E io apro il libro e lo sfoglio, e non vedo niente, e lei mi dice com’è che non vedi mai niente, gli uomini non trovano mai le cose, e io mi stufo e chiudo il libro e lo lascio lì proprio per farle dispetto. Voi donne invece generalizzate sempre, dico, con un piacere perverso nel far cominciare il litigio proprio con queste parole, accusandola di fare proprio quello che sto facendo io in quel momento. Sono arrabbiato e non so perché, ma qualcosa dentro di me vuole saltarle al collo, fargliela pagare, vuole vendetta per quella sciocca frase che ha detto senza farci neanche caso, tanto è normale per lei, darmi addosso – ragiona sempre quella stessa parte di me – mentre lei si avvicina con la tazzina di caffè in mano e con l’altra – con una mano sola – tira su il libro e lo squaderna per aria, facendo frullare le pagine, così: frrrrrr e dalle pagine scivola via per terra un foglio sottile, sembra di carta velina, era tra l’ultima pagina e la copertina di cartone azzurro, e lentamente ondeggia un paio di volte avanti e indietro nell’aria e si ferma sotto una sedia. A me viene ancora più il nervoso, ma sto zitto, vedo che evidentemente ha ragione, noi uomini non troviamo mai niente e questa ne è la prova, questo foglio che è scivolato via dal libro con la copertina azzurra che ho trovato su un banchetto al mercato e portato a casa. È una vecchia edizione degli Indifferenti, e cosa vuoi che sia, penso, saranno gli appunti di qualche studente che li ha dimenticati lì dentro, felice come una pasqua di avere finito l’esame. Lei si china e lo raccoglie da terra, ha bevuto un sorso di caffè, lungo, i suoi caffè sono sempre lunghi, e li beve lentamente e li lascia sempre raffreddare, e anche questo mi dà sui nervi, vorrei dire: le donne hanno sempre delle abitudini irritanti, vogliono sempre fare le cose a modo loro, invece che come vanno fatte, il caffè dev’essere ristretto, denso, va bevuto in un sorso, non si va in giro agitando una tazzina da caffè per tutta la cucina, con la sigaretta in mano, che anche quella la fuma lentamente, poi, e la lascia più che altro bruciare, più che fumarla, lasciamo stare. Invece non dico niente e guardo indifferente la sua scoperta, che lei esamina con grande interesse e poi posa lisciandola sul tavolo. Ma io lo so che non ha visto un bel niente, è senza occhiali. Senza non ci vede un accidente. È tutta una finta.

È una specie di albero genealogico, dice, ci sono scritte delle cose, mi fa. Non ti interessa?

Ma sì, mi interessa, le dico, perché se no si offende. A me questa storia di vivere insieme mi dà sui nervi, ormai siamo sposati da quarant’anni e dopo due figli che ormai hanno anche loro dei figli non ci pensiamo neanche più, a staccarci, ma a me è sempre pesata. Ognuno ha le sue abitudini, ognuno fa le sue cose, e all’altro non interessano, oppure proprio in quel momento, per combinazione, volevi proprio stare in quella poltrona, entrare nel bagno per farti la barba, uscire sul balcone quando c’è lei e devi rimangiarti tutto e stringendo i denti per non dire niente di troppo torni indietro e aspetti per farti la barba, per bere il caffè, per farti un panino. Aspetti che lei abbia finito e con tutta calma, che guai a farle fretta. Soprattutto, da quando è andata in pensione, si è riempita di mille fisime, vuole avere tempo per fare questo e quello, non vuole correre, ha corso per tutta la vita, dice. E io da tutta la vita ad aspettare con gli occhi incollati all’orologio, a rimangiarmi le parole che vorrei dire, a sopportare per amor di quieto vivere.

Ora finisce con tutta calma di bere quell’ultimo sorso di caffè, dà un ultimo tiro alla sigaretta, si siede sulla poltrona davanti alla porta del balcone e aspetta. Vuole che mi interessi a quel foglio, ma io non dico niente, non faccio neanche un gesto per prenderlo, perché dovrei darle la soddisfazione? Non me ne importa mica niente, di quel pezzo di carta. Strano, però, sembra che ci sia sopra una specie di disegno, lo vedo da qui, dei segni colorati e confusi, lo sbircio, do un’occhiata e poi guardo da un’altra parte. Alla fine mi alzo, prendo gli occhiali nel cassetto della cucina – ormai senza non ci vedo più niente – e ignorando il suo sguardo quasi trionfante lo prendo in mano. C’è un disegno. Dietro c’è una mezza pagina scritta a mano, in una grafia rotonda, infantile. Comincia con Cara maestra.

Questa è una lettera di qualcuno, dico io. Già! Risponde lei, compiaciuta. Come se fosse una sua vittoria personale. Forse non dovremmo leggerla, dico. Lei inarca le sopracciglia. Mi casca l’occhio sulla frase:

La persona più famosa che ho conosciuto…

Senza sapere perché, comincio a inventare. C’è su un disegno stranissimo, dico. Pazzesco, tutto colorato e storto, ma anche bello, a modo suo. Dev’essere il disegno di un pazzo. Sembra un albero genealogico, ma inventato, di fantasia, con dei nomi stranissimi, inesistenti, e creature quasi medievali. Qualcuno l’ha disegnato con le matite colorate, e poi ha scritto una lettera sul retro, indirizzandola a una certa Stella. Non so perché mi esce questa storia. In realtà sul foglio non c’è niente di speciale. Un disegno fatto da un bambino neanche tanto bravo, un albero, una casetta, una donna con i capelli neri lunghi, e una letterina per la maestra.

Cara Stella, improvviso, facendo finta di leggere, da quando e poi mi interrompo subito perché mi viene il nervoso. Per lei questo foglio è solo un modo per darmi fastidio, per mostrarmi la sua superiorità, per vincere, non qualcosa che ha scritto una persona vera. Il bambino si è messo lì con impegno e ha scritto questa lettera alla maestra, magari solo perché si accorgesse di lui.

Non ti sei nemmeno accorta che c’è un disegno, non l’hai nemmeno notato, proprio tipico tuo, le dico, alzando gli occhi sopra le lenti degli occhiali. Lei mi guarda e mi fa, ma se l’ho detto subito, è un albero genealogico, non hai sentito?

Tu hai detto un albero genealogico, ma questo qui è una specie di capolavoro, guarda che disegni! Non vedi che questo l’ha fatto un artista? Saresti capace, tu, di fare una cosa del genere? Albero genealogico, dico strascicando la voce, come a farle il verso. Se c’è una cosa che la manda in bestia è quella. Le sale il sangue alla testa, lo so, ma non vuole darmi soddisfazione, quindi mi ignora, guardando fuori dalla finestra, e fa: se volessi lo potrei anche fare. So disegnare, io. E io scoppio a ridere di gusto, non lo faccio mica apposta, lo giuro, mi è venuto proprio spontaneo. Tu che non sai nemmeno tenere una matita in mano, già! Proprio tu, e ripeto ancora una volta, albero genealogico… guarda qui, dico, puntando l’indice sul foglio, qui c’è tutta una dinastia di personaggi dai nomi assurdi, improvviso. Mi vengono dei nomi inventati, Clericogianni Antibale, comincio a elencare, Veromilia Ogliastra… ora è lei che scoppia a ridere, con questi nomi proprio strani, e poi i disegni, continuo! Sono veramente assurdi, pazzeschi, ci dev’essere voluto un sacco di tempo per disegnare tutto con la matita, queste armature, queste uniformi, questi serpenti araldici, questi sfondi di prati verde smeraldo ed elmi piumati rosso rame, queste squame e questi fiori con moltissime sfumature. E tutto questo nel piccolo, su una carta velina sottilissima. Ma chi avrà disegnato tutto questo, mi domando. Mi sembra quasi di vederli, i disegni. E di nuovo giro il foglio e continuo a far finta di leggere, forse nella lettera ci sono delle spiegazioni, dico.

Cara Stella, da quando mi trovo qui dentro senza speranza di poter mai uscire e mi blocco. Vedi, questo dev’essere stato un carcerato, è l’unica spiegazione, per questo aveva tanto tempo.

Lei guarda fuori dalla finestra fingendosi annoiata. Mi fa imbestialire questo atteggiamento, e vorrei che almeno per una volta dicesse qualcosa, e questo tesoro che inizialmente non avevo nemmeno notato ora è diventato mio, e voglio difenderlo a spada tratta, voglio che venga notato, che ne venga riconosciuto il valore. …il tuo pensiero è l’unica cosa che mi permette di sopravvivere. Che ingenuo, dico, pensa un po’ questo qui, chiuso lì dentro a sperare che una donna, là fuori, lo aspetti. Non conosce le donne, dico, e mi metto a ridacchiare, mentre lei gira la testa di scatto verso di me, mi guarda male, poi si alza, va al lavandino e si mette a lavare nervosamente la tazzina e le altre cose che ci sono dentro, già dalle spalle si capisce che è arrabbiata, e forse era proprio questo l’unico risultato che volevo ottenere, perché lei mi dà sui nervi e allora perché non dovrei renderle pan per focaccia?

Sono ritenuto pazzo. Ah, allora non è in carcere, è proprio un matto, continuo a inventare, infatti questi disegni qua chi li fa, se non un pazzo? E poi quelle parole, quei nomi così strani, chissà da dove li avrà presi. Quando sarai grande lo capirai. Intanto, qui dentro, disegno un libro per te. Disegno perché è tutto quello che so fare, è quello che ho fatto per tutta la vita, e ancora questo non sono riusciti a togliermelo. Ormai ho preso l’abbrivio e non so come fermarmi.

Un giorno, quando io avrò finito la mia vita qui dentro, questo è proprio drammatico, eh, ma chi lo dice che ci passa tutta la vita? Magari migliora e esce prima… se mani compassionevoli lo troveranno, qui in manicomio, raccoglieranno questi fogli e te li trasmetteranno. Io non posso farteli avere, perché sono circondato da nemici. E dagliela, faccio, questo è un paranoico, ho capito, ecco perché non può mai uscire. Questo è uno che passa giornate intere davanti alla TV e guarda tutti i programmi, soprattutto quelli del pomeriggio, e spesso lo mettono in isolamento perché litiga violentemente con gli altri se vogliono vedere altri programmi in televisione. Una volta ho intravisto Regina Maria, dice, ma pensa un po’, sproloquio, questo qui parla della De Filippi, è chiuso in manicomio e la sua fissazione è la televisione, e per via di questa fissazione lo chiudono in una cella isolata senza TV e va ancor più fuori di testa. Così si è messo a fare questi bei disegni dettagliati e colorati, tutta una genealogia che si immagina tra i personaggi della TV, e gli attribuisce anche dei titoli nobiliari di fantasia, tipo arciduca del Dragone e contessa Piscinefredde, sul retro della lettera che sta spedendo a questa Stella. Da dove mi vengono queste idee non lo so neanch’io. Devo essere un po’ matto anch’io.

Ho smesso di far finta di leggere ad alta voce. Anche di ridere. Lei è ancora in piedi davanti all’acquaio, ha smesso di lavare le tazzine, ma non si gira, è di cattivo umore.

Non vuoi sapere che cosa c’è scritto, le dico. Ho appoggiato il foglio sul tavolo, girando il disegno verso il basso. Ci tengo sopra una mano. No, non lo voglio sapere, mi fa. Voglio sapere perché t’ho sposato, ecco cosa voglio sapere.

Lo vorrei sapere anch’io, penso, ma non dico niente. Mi tolgo gli occhiali e li appoggio accanto al foglio. In fondo al foglio c’è una firma, è firmato professor Innocenti, dico, ma guarda, avevo un professore che si chiamava così, a scuola. Ma è morto da un sacco di anni, e non sapeva di sicuro disegnare. Chissà chi era questo povero cristo, dico.

Ma quanto parli, dice lei. Fa’ un po’ vedere questo foglio, su.

Io me lo nascondo dietro la schiena. No, dico, ora non te lo faccio più vedere. Lei cerca di strapparmelo di mano, e io mi diverto a tenerlo in alto fuori dalla sua portata, gioco un po’ così con lei, ma sei scemo, mi dice, dammelo, voglio vederlo anch’io, voglio vedere i disegni! No, non te lo do, prova a prenderlo, dico, scansandomi di qua e di là, e poi alla fine lo appallottolo e lo faccio volare fuori dalla finestra. Guardiamo la pallottola di carta stropicciata che scende lentamente oltre i terrazzi e va a finire in un sottovaso dalla signora del primo piano.

Lei mi guarda. Ha gli occhi pieni di lacrime.

Non so perché anche a me viene quasi da piangere.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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