«L’anno dell’alpaca». Diario di un viaggio e di una pandemia

di Antonella Falco

Giammarco Sicuro, L’anno dell’alpaca. Viaggio intorno al mondo durante una pandemia, Gemma edizioni, 2021

Ogni libro è, a suo modo, un viaggio. Alcuni, però, lo sono un po’ di più. Perché di un viaggio raccontano e del viaggio si nutrono. Sono quei libri attraverso le cui pagine riesci a sentire l’odore dei luoghi, il gusto del cibo, finanche il coraggio e la forza che nascono dalla paura. Sensazioni che diventano ancora più intense se quella che leggi è una storia vera e non il frutto della fervida fantasia di uno scrittore che ha viaggiato solo con la testa, restando comodamente seduto alla sua scrivania. Tale vivida sensazione si ha ad esempio leggendo L’anno dell’alpaca. Viaggio intorno al mondo durante una pandemia di Giammarco Sicuro, inviato speciale della redazione Esteri del Tg2.

Il racconto inizia e si dipana nel periodo più tragico della pandemia, quello in cui essa ha inizio, cambiando radicalmente le nostre vite e determinando in tutti noi una forte incertezza nei confronti del futuro. Forse proprio per questo motivo i fatti vengono narrati in modo leggero e per quanto possibile spensierato, a tratti surreale. In questo diario di viaggio, per certi versi un moderno libro d’avventura, lo stile brillante e godibile è sorretto da una vena ironica e autoironica che consente all’autore di non soccombere dinanzi alle tragedie che la realtà del momento gli pone sotto gli occhi.

Eppure tutto questo non è cinismo. Lo sguardo di Giammarco resta profondamente umano e fortemente empatico, sensibile al dolore delle persone – specie le più fragili e indifese – e degli animali, rappresentati in questo libro da un alpaca e un lama, denominati rispettivamente Isabela e Esmeralda. L’elemento surreale è costituito proprio dal rapporto con questi due animali di peluche con cui l’autore si trova a dialogare. Acquistati come souvenir per essere regalati alla nonna, al ritorno dal viaggio, diventeranno, prendendo fatalmente vita, i fedeli compagni di lunghi mesi trascorsi, spesso in solitudine, lontano dagli affetti più cari.

Giammarco Sicuro si ritrova infatti con questi due peluche in Perù nel momento in cui in Italia la situazione precipita e il governo decreta il lockdown generale, con conseguente sospensione dei voli, cosa che rende difficoltoso il rientro in patria. Con l’ultimo volo disponibile Giammarco riesce a raggiungere la Spagna, Paese dove rimarrà bloccato per più di due mesi, raccontando da lì – unico inviato Rai in terra spagnola – il diffondersi della pandemia.

È l’inizio di un viaggio intorno al mondo che si concluderà otto mesi dopo. Dalla Spagna dei primi casi accertati, che tuttavia non ha saputo fare tesoro di quanto, qualche settimana prima, era accaduto in Italia, alla Corea del Sud, diventata un modello di gestione del virus, fino al Messico e al Brasile, dove la politica negazionista di Bolsonaro provoca una crescita esponenziale del numero degli infetti e delle vittime, la narrazione procede secondo un tempo che non è quello cronologico:  una scelta stilistica che serve a conferire “movimento” e vivacità al racconto (la successione non diacronica dei fatti fa sì che in ogni capitolo ci si ritrovi in un Paese e in un mese diversi, a ricostruire l’esatta cronologia aiutano però le date, riportate sempre nel sottotitolo), una sorta di montaggio molto cinematografico, con salti temporali in avanti e all’indietro  (d’altra parte Giammarco, a giudicare dal fatto che diverse sono le occasioni in cui nel libro si parla di film, ha tutta l’aria di essere un appassionato cinefilo) che consente di introdurre i personaggi in modo più accattivante per il lettore, ossia “in medias res”, permettendo di scoprirli gradualmente e progressivamente man mano che il racconto procede.

Alcuni di questi personaggi, per la loro spiccata personalità e per la vividezza dei ritratti che di essi fornisce Sicuro, assurgono al ruolo di veri e propri coprotagonisti. È il caso, ad esempio, dei vari “producer”, i collaboratori locali, spesso giornalisti del posto, che lo affiancano nelle sue trasferte da un continente all’altro. C’è Mariano, l’operatore che lavora con lui in Spagna, un argentino irascibile e insofferente all’autorità (si accapiglia quasi sempre con gli agenti di polizia, ma anche, per incompatibilità caratteriale, con Joaquin che è il montatore), ma spassosissimo quando prende bonariamente in giro Giammarco o gli rifila consigli non richiesti sulla sua vita sentimentale o puntualmente si addormenta al volante.

C’è Miriam, una specie di “generalessa” dal piglio deciso e autoritario, giornalista brillante e stakanovista, che affianca Giammarco in Messico e si approfitta un po’ troppo del suo portafogli, regalandosi al ristorante lauti menù abbondantemente annaffiati da vino o birra perché tanto «paga lui». E la dolce Joelma, assurdamente buona, remissiva fino all’inverosimile, capace però di tirar fuori grinta e artigli di fronte ai soprusi degli irritabilissimi agenti di polizia brasiliani, energumeni armati fino ai denti cui tiene coraggiosamente testa.

E l’imperturbabile Jay, il collaboratore sudcoreano, che perde le staffe solo l’ultimo giorno del loro lavoro insieme, quando Giammarco, scherzando, gli propone di sconfinare in Corea del Nord attraverso un fantomatico varco nella rete che delimita la “terra di nessuno”, la zona demilitarizzata, fra le due Coree.

L’anno dell’alpaca ci aiuta a comprendere il modo in cui ci siamo rapportati alla pandemia, passando attraverso fasi diverse, dall’iniziale tendenza a sminuire il pericolo, al graduale cambiamento dei nostri comportamenti, che ci ha visto prendere confidenza con delle misure (l’uso della mascherina, il distanziamento fisico e tutto l’insieme dei protocolli di sicurezza) che in un primo momento ci apparivano strane o esagerate mentre ora sono parte integrante della nostra quotidianità e testimoniano quanto grande sia la capacità di adattamento dell’essere umano anche nelle situazioni più gravi e complicate.

La lettura di questo libro permette anche di riflettere sul diverso approccio alla pandemia messo in atto nei vari continenti: dalla scelta, propria dei Paesi asiatici di chiudere tutto e sacrificare la privacy e i diritti individuali in nome del contenimento del contagio, e quindi del bene collettivo, a quella, adottata da Donald Trump negli Stati Uniti, ma diffusa anche in diversi Paesi del Centro America, Messico in primis, e nel Brasile di Bolsonaro, improntata a un negazionismo che considera cinicamente la morte degli individui più fragili ed esposti al virus (anziani, persone con patologie pregresse, fasce povere della popolazione) come il male minore, preservando così le attività economiche dalla crisi conseguente all’instaurazione di un eventuale lockdown generalizzato.

Due modalità di gestione della pandemia a loro modo spietate e spregiudicate, dinanzi alle quali l’Europa ha cercato di mantenere una posizione equidistante in grado di conciliare l’irrinunciabile necessità di contenere il dilagare del contagio con l’osservanza dei basilari principi di rispetto e solidarietà umani, uscendone in un primo tempo apparentemente sconfitta. Il modello che sembrava rivelarsi vincente sul piano della profilassi era infatti quello sudcoreano, mentre sul piano della prevenzione di una probabile crisi economica sembrava dare frutti incoraggianti il cinico modello trumpiano.

Un altro tema importante che emerge dalla lettura del libro di Giammarco Sicuro è quello riguardante le tribù indigene dell’Amazzonia, e in particolare il tentativo, operato dal governo brasiliano, di utilizzare il Covid-19 come una vera e propria arma per decimare, o comunque indebolire, le tribù locali, al fine di sottrarre loro le terre, disboscare sempre più ettari di foresta e destinarli alla coltivazione intensiva della soia – di cui i latifondisti amazzonici sono diventati i primi produttori al mondo – da piazzare poi sul mercato internazionale, in primo luogo quello cinese.

Tali tribù, ridotte ormai a poche centinaia di individui, sono infatti molto spesso vittime di soprusi da parte delle forze dell’ordine brasiliane, che compiono incursioni nei loro villaggi, minacciando e contagiando gli indigeni, i quali quando si ammalano, non ricevono dallo Stato alcuna assistenza. La scomparsa di queste minoranze etniche comporterebbe la perdita di un rilevante patrimonio linguistico e culturale: in pratica scomparirebbero per sempre le peculiari etnie che da tempo immemorabile abitano, in totale simbiosi con la natura, la rigogliosa foresta amazzonica.

L’anno dell’alpaca è un testo prezioso anche nella misura in cui ci permette di venire a conoscenza di alcune gravi degenerazioni etiche consumatesi all’ombra della pandemia, come quella accaduta al confine tra Messico e Stati Uniti, dove migliaia di donne e uomini messicani hanno varcato il confine per donare plasma a delle multinazionali la cui sede, non a caso, è ubicata poco oltre la linea di confine tra i due Paesi.

A questi messicani era consentito varcare tale linea anche durante il periodo pandemico, quando il confine restava chiuso per tutti gli altri. Le multinazionali del farmaco pagavano queste prestazioni in base al numero di donazioni: i messicani ricevevano il denaro solo dopo aver subito cinque prelievi, qualora avessero sospeso le donazioni prima del quinto non avrebbero avuto diritto ad alcuna ricompensa. In altri casi erano previsti pagamenti più alti se ci si fosse presentati in compagnia di un’altra persona disposta a donare anch’essa il proprio plasma. Così il numero dei prelievi cui un messicano si sottoponeva nell’arco di un anno risultava superiore a cento, ossia più del doppio di quelli consentiti dalla legge italiana, cosa che comportava notevoli rischi per la salute dei donatori.

Quella denunciata da Giammarco Sicuro nel suo libro è una delle tante modalità attraverso cui, in situazioni di emergenza, il mondo ricco ha sfruttato il mondo povero al fine di procurarsi una risorsa che, specie in quel momento, era considerata di fondamentale importanza in quanto gli emoderivati, come ad esempio il plasma iperimmune, erano ritenuti dei validi alleati nella lotta contro il covid.

Leggendo il libro ci rendiamo conto anche di come l’economia di sussistenza brasiliana sia retta fondamentalmente dalle donne, quindi la crisi pandemica ha fatto emergere il ruolo centrale della figura femminile in Paesi che spesso vengono considerati meno emancipati dei nostri Paesi occidentali. Un aspetto, questo, che dovrebbe farci riflettere su società che riteniamo arretrate, dove invece il ruolo della donna è molto più centrale e importante di quello a cui vengono relegate le donne nelle nostre società cosiddette “avanzate”.

Non sorprende, inoltre, che il libro abbia ottenuto il patrocinio dell’Unicef, poiché tante sono le storie di bambini in esso contenute, da quelli che a causa della pandemia hanno visto peggiorare enormemente le loro condizioni di vita a quelli che grazie alla propria inventiva hanno saputo mettere in atto forme di riscatto sociale o trovare piccole ma importanti soluzioni per far fronte all’inconsueta emergenza.

Il volume fornisce inoltre numerosi racconti, curiosità e aneddoti che farebbero la felicità di un appassionato di antropologia culturale, scopriamo, ad esempio, che in Bolivia feti imbalsamati di lama vengono seppelliti, in funzione beneaugurante e apotropaica, ai quattro angoli delle fondamenta di una casa in costruzione o che in Corea del Sud la pesca è affidata alle haenyeo, dette anche madri del mare, «la cui attività è da tempo riconosciuta come patrimonio dell’umanità dall’Unesco», queste abili pescatrici, alcune delle quali molto anziane, si immergono in apnea sfidando con estrema calma le acque gelide e agitate dell’oceano. Scopriamo inoltre che una delle prelibatezze locali è il sannakji, «piatto tipico coreano a base di nakji, un piccolo polpo servito ancora vivo e tagliato in piccoli pezzi. Di solito, viene condito con olio di sesamo e quando arriva in tavola, è ancora in grado di dimenarsi».

L’anno dell’alpaca riesce a toccare diversi registri: fa riflettere e commuovere, ma anche sorridere e, a tratti, ridere di gusto per delle esilaranti e tragicomiche disavventure occorse all’autore, come l’incontro scontro con Nancy (che non è detto sia una ragazza!) in Perù, o l’ingresso tutt’altro che trionfale nel nuovo appartamento madrileno, messo a disposizione dallo zio di Joaquin, dopo che Giammarco era stato costretto a lasciare il precedente appartamento per le proteste dei condomini che mal gradivano le sue uscite quotidiane in pieno lockdown (e vaglielo a spiegare che lui godeva di un permesso stampa!), o il grottesco resoconto dei quattordici giorni di quarantena imposti dal governo sudcoreano.

La pandemia come sfondo, come basso continuo, di un diario di viaggio che racconta anche  molto altro e, fra il molto altro, c’è il ritratto, a volte intimo, di un uomo che il caso ha fatto trovare dall’altra parte del mondo mentre l’Organizzazione mondiale della sanità decretava l’inizio di una devastante pestilenza globale, ma che poi ha scelto di esserci per raccontare, malgrado il flagello della malattia abbia lasciato tutti sgomenti, inermi e smarriti dinanzi all’incognita di un futuro ignoto.

D’altra parte, «la storia esiste solo se qualcuno la racconta». Sono le parole, citate in esergo a uno dei capitoli del libro, di Tiziano Terzani, nume tutelare, assieme a  Ryszard Kapuściński, del giovane inviato Giammarco Sicuro, che forse avrà tremato, almeno un attimo, rendendosi conto di trovarsi al cospetto della Storia, quella con l’iniziale maiuscola, ma non si è sottratto alla doverosa necessità di testimoniarla. Con lo spirito di chi affronta una missione e la consapevolezza di chi si scopre, pur in mezzo a un’epocale tragedia, privilegiato. Con il sorriso, che non lo abbandona neanche nei momenti più cupi e drammatici, e con un alpaca e un lama nello zaino.

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