cinéDIMANCHE #17 GEORGES PEREC & BERNARD QUEYSANNE Un Homme qui dort [1974]

 

DALL’ARCHIVIO: 8 marzo 2015

 

[ sottotitoli trad. O. Puecher ]

di Orsola Puecher

Un uomo che dorme [1967], terzo libro di Georges Perec, è la storia di un tentativo, non riuscito, di ritirarsi dalle cose del mondo, quelle stesse che nel suo precedente romanzo, Les choses,[1965] costituivano una fascinazione assoluta e divorante. Secondo Proust, ispiratore del titolo “Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a sé il filo delle ore, l’ordine degli anni e dei mondi.“, ma in questo di uomo, uno studente che ha 25 anni e 29 denti, una borsa di studio di 500 franchi al mese, e che un giorno in cui tutto gli si svuota di colpo di senso, decide di non andare a sostenere un esame di Sociologia, il sonno non ha alcun ordine pacificatore, ma è popolato di sogni inquieti in cui egli è mare nero e nave allo stesso tempo, un corpo diviso in parti separate, un grande occhio che vede se stesso. Nel film che Perec ne ha tratto insieme a Bernard Queysanne in realtà non si riposa mai un istante: seguiamo più che altro il suo vegliare vagamente catatonico nella tana casa rifugio, assediato dai suoni, ticchettio di sveglie, il gocciolio di un rubinetto sul pianerottolo, campane, rumori della strada, dei suoi vicini di casa; lo vediamo in un iterato mettere a bagno calzini, bere Nescafé con il latte condensato, seguire il percorso delle crepe sul soffitto, ripetere ossessivamente un solitario con le carte, che non gli riesce mai; lo accompagniamo in certe brasserie dai menù dozzinali, lo seguiamo nel suo vagabondare silenzioso, incessante, casuale, labirintico e notturno, in una Parigi immersa nel bianco e nero vellutato e lucente della pellicola. E c’ è una voce fuori campo. Le parole in dècalage non corrispondono, se non per brevi momenti di assonanza, alle immagini che scorrono. Una voce femminile, coscienza senza flusso, che parla in seconda persona singolare. TU. Cosi ripetuto, come è della lingua francese, da suonare come un continuo appello al tu estremamente plurale di

colui a cui si parla
colui che parla
colui di cui si parla.

 
tu frit tu

Nota di Perec citata da
David Bellos
Georges Perec. Une vie dans le mots
SEUIL [1993 ]Pag. 366-367

 

La formula del tu di Perec, ha precise percentuali, prevale lo sguardo di un io oggettivato che diventa tu e sfocia in certi momenti in un diario dialogo. La voce narrativa in seconda persona crea una nuova concezione dello spazio del racconto. Evitando la prima persona e con essa l’immedesimazione passiva scrittore-personaggio, lettore-personaggio si crea una distanza di sicurezza, più pertinente ad una presa di coscienza lucida, mai in preda a distorsioni emotive. L’oggettività si crea in una lunga serie di frasi brevi, non coordinate fra loro, sempre al presente. La solitudine ha bisogno di un interlocutore, di un dialogo interiore. Il tu implica un io che parla e un io che ascolta. Per questo personaggio che rifiuta tutti i contatti con il mondo esterno, la notte e la camera sono luogo di rifugio, perché là si è al riparo da tutte le comunicazioni con gli altri. Ma se è possibile sottrarsi allo sguardo degli altri, diviene impossibile evitare il proprio e evitare di prendere coscienza del se come altro. Dell’esistere [ lat. exsistĕre, comp. di ĕx- ‘da, fuori’ e sistĕre ‘porsi, stare, fermarsi’; propr. ‘uscire, levarsi (dalla terra)’ e quindi ‘apparire, esistere’]. E la cosa sorprendente di questa distanza è che, soprattutto nel film, l’asciutta oggettività che ne deriva, provoca un’emozione, spesso una vera e propria commozione, che non ha l’epidermica superficialità dell’immedesimazione, ma tocca corde profonde che con quel tu e con il suo baratro di solitudine, di mancanza di volontà all’azione, nella società dell’attivismo programmatico, hanno una vicinanza che tocca e impaurisce. Riguardo poi a quel cinico, ironico 20% di c)una relazione fra autore e personaggio: Devo farlo morire? No il lettore si dispiacerebbe… (cf. la fine de La montagna incantata), esso dovrebbe esser per chi scrive, burattinaio dei propri personaggi, quel pizzico di dialogo interno alla scrittura, che non dovrebbe mai mancare per evitare trame da fiction, ingredienti fastfood e finali di facile estenuante prevedibilità.

 

Thomas Mann
La montagna incantata
T rd. E. Pocar
Corbaccio

 
E così nel trambusto, nella pioggia, nel crepuscolo, lo perdiamo di vista.
Addio, Hans Castorp, schietto pupillo della vita! La tua storia è terminata. L’abbiamo narrata sino alla fine; non fu né divertente né noiosa, fu una storia ermetica. L’abbiamo raccontata per se stessa, non per amor tuo, poiché tu eri semplice. Ma in fin dei conti era la storia tua; siccome è toccata a te, devi aver avuto una certa accortezza, e noi non neghiamo la simpatia pedagogica che ci prese nel narrarla e potrebbe anche indurci a passare delicatamente un polpastrello sull’angolo d’un occhio al pensiero che non ti vedremo e non ti ascolteremo in avvenire.
Addio… sia che tu sopravviva o muoia! Le tue probabili sorti sono brutte; la mala danza nella quale sei trascinato durerà ancora qualche anno, e noi non ci sentiamo di scommettere forte che ne uscirai salvo. Francamente non ci preoccupiamo gran che se la questione rimane aperta.

 
le riprese
 

GEORGES PEREC
da UN HOMME QUI DORT texte intégral inédit du film
Paris 2007 La vie est belle film associés
 
Ho sempre amato il cinema, i western, le commedie musicali, i thriller e le commedie brillanti. Ma non mi fido molto di questo fascino che l’immagine sembra avere su numerosi scrittori contemporanei. Il cinema per me non è la forma più compiuta della scrittura, quella verso cui una necessità imperiosa mi avrebbe sempre spinto e che sarei infine riuscito, al termine di anni e anni di sforzi, a raggiungere, se non proprio a padroneggiare. Al contrario piuttosto tenderei a pensare che il cinema sia un modo di produzione grossolano e inefficace, interamente assoggettato a un’ideologia mercantile, che, nonostante ciò che si voglia o si faccia, funziona nel 92% dei casi come una costrizione riduttiva.
 
Eppure fare un film di Un uomo che dorme mi sembrava ovvio. E’ stata un’opinione che apparentemente sono stato il solo a condividere: per quel che ne so, nessun regista è mai parso tentato dal soggetto (per non parlare ovviamente dei produttori) e quelli che ho interpellato io stesso – anche se mi dicevano di aver amato il libro – non manifestavano che un entusiasmo tiepido verso questo progetto.
 
Era impossibile che facessi un film (questo film o un altro) ma Bernard Queysanne, a cui ho domandato:
a)se avesse letto il libro, b) se credesse che non fosse stupido il volerne fare un film, c) se volesse, lui, farne un film, ha risposto in modo affermativo alle mie tre domande: questa tripla approvazione ha considerevolmente semplificato i problemi che abbiamo incontrato dopo e ha portato, in un po’ meno di tre anni, a un film oggi compiuto.
 
Del libro non ho granché da dire: era insomma un affare tra lui e me: niente mi obbligava a scriverlo se non la necessità della sua propria esistenza (così è anche, suppongo, per tutti i libri – altrimenti perché scriviamo?) Per il film è meno semplice: ciò che mi sembrava evidente, era forse solamente un certo gusto per la scommessa: fare un lungometraggio con un solo personaggio, nessuna storia, nessuna peripezia, nessun dialogo, ma soltanto un testo letto da una voce fuori campo… Ma quando affermavo che Un Homme Qui Dort era il più “visivo” di tutti i miei libri, sapevo esattamente cosa volessi dire?
 
Fatte tutte le scelte, accettato ogni partito preso, è vedendo il film finito, davanti all’evidenza di questa prima copia che si lascia dietro, una volta per tutte, i nostri dubbi, le nostre incertezze, e quelle migliaia di metri di pellicola e di nastro magnetico triturati, tagliati, montati, aggiustati e riaggiustati, che posso comprendere con più precisione ciò che non mi aspettavo: non un qualsiasi film tratto da un qualsiasi racconto, ma “questo” racconto in vaga forma di labirinto, che ripete di continuo le stesse parole, gli stessi gesti, ripercorre sempre gli stessi itinerari. “Questo” film “parallelo”, dove l’immagine, il testo, e la colonna sonora si organizzano per tessere la più bella lettura che mai scrittore avrebbe potuto sognare per un suo libro. Per quel che mi riguarda questo mi basta completamente.
[trad. O.P.]

 
lettera Perec a Queysanne 
 

BERNARD QUEYRANNE
da UN HOMME QUI DORT texte intégral inédit du film
Paris 2007 La vie est belle film associés
 
Con Georges abbiamo lavorato in osmosi. Abbiamo co-realizzato, co-scritto ma anche co-montato, co-mixato, co-promosso! […] Perec aveva voglia di lavorare con qualcuno che realizzasse il suo primo film. Lavorare con me è un’idea che gli era venuta sicuramente da qualche tempo, ma ha voluto renderla ufficiale inviandomi una lettera anche se ci eravamo sicuramente visti il giorno prima. Lo scritto era importante per Georges e senza dubbio non voleva che questa proposta si annegasse nella parola quotidiana. Mi ha dunque inviato questa lettera dalla Gare di Lyon, prima di una partenza di qualche giorno. Si trattava più di un biglietto che di una lettera. D’altronde egli inviava raramente delle lettere lunghe. Questo biglietto conteneva tre domande: “ 1)Hai letto un Homme qui dort? 2)Pensi che se ne possa fare un film? (io, sì) 3)Ti piacerebbe farne un film?” Contrariamente a quello che ha scritto qui e là, la prima risposta fu negativa, perché non avevo letto altro che Le Cose. Ho dunque comprato e letto Un uomo che dorme e ho pensato che fosse impossibile adattarlo.
Eppure, sì, avevo voglia di fare questo film con Georges Perec.
[…]
E poi ho riletto il libro e mi sono reso conto che mi piaceva il testo quanto il soggetto. Ho detto a Perec: ”Mi piace il tuo testo e mi piacerebbe farne un film muto in bianco e nero, sul quale si sovrappone il tuo testo letto da una voce fuori campo.” […] Dunque lo leggemmo a turno su un piccolo magnetofono. Arrivammo a 2ore e 30 di testo e bisognava tagliare.
Primo vincolo: Georges si rifiutava di riscrivere una sola parola. Decidemmo di realizzare un adattamento con regolo e scalpello. Molto velocemente ci siamo resi conto che la soggettività del personaggio sarebbe scaturita dallo sfalsamento fra il testo e l’immagine. Così abbiamo tolto un capitolo su due, vale a dire tutti i capitoli soggettivi, visto che il libro è costruito su un’ alternanza, un capitolo d’azione, un capitolo di riflessione…
Poi abbiamo tagliato all’interno dei capitoli, Questo lavoro è stato difficile perché bisognava contemporaneamente alleggerire il testo e conservare le ripetizioni, gli elenchi… che fanno parte dello stile di Georges. Molti elementi del libro non ci sono nel film e altri ritornano continuamente. Nel progetto finalmente arrivammo a 1 ora e 20 di testo,
Poi abbiamo ancora tagliato nel montaggio. Talvolta, quando proponevo dei tagli, per degli elementi che trovavo troppo letterari, nel primo capitolo in particolare, scoprii che si trattava di citazioni di Kafka, di Melville, di Duras , Perec ne metteva spesso, perché anche le citazioni facevano parte del suo stile. In più queste citazioni erano molto nascoste. […]
A livello dei rapporti tra il testo, l’immagine e il suono, abbiamo cercato di volta in volta degli sfalsamenti e delle sincronie.
[…] Il film non poteva funzionare se non fossimo giunti a essere nel tempo del personaggio, vale a dire nell’assenza di tempo, a tal punto che il film e quasi al condizionale. […]
E’ possibile che non gli sia successo niente, che si tratti di un flash, prima che il personaggio scriva il suo compito di sociologia! Siamo in un’esperienza mentale.
Il paradosso del nostro lavoro è che, mentre stavamo cercando di cancellare le emozioni dal film, restando il più neutri possibile, volevamo che gli spettatori andassero in profondità, porgendo loro una sorta di specchio. […]
[trad. O.P.]

 
divisioni
 

00:15 ⇨ 06:32 [nessuna voce] Parigi vista dall’alto, non cartolina, uno scorcio di casa demolita, qualche macchina, rumor bianco di fruscii, il silenzio non mai silenzio delle città. Sfuma in entrata il ticchettio di una sveglia, mentre l’inquadratura avvicina un abbaino – per riprendere Perec&Queysanne sono appollaiati con la camera sul cornicione della casa di fronte – cornice di un letto, cornice di un personaggio seduto, cornice del manifesto di un quadro di Magritte – La Reproduction Interdit – dove un uomo si specchia di fronte ma vede solo la sua nuca e invece un libro, Gordon Pym di Poe – avventura dal finale incerto e aleatorio – si specchia perfettamente. Nella parete accanto Relativity – le scale senza fine di Escher. In scene contrapposte tutti i personaggi e le immagini si presentano con brevi apparizioni in contrappunto: linee melodiche ricorrenti ma indipendenti, in relazioni sempre diverse fra loro, l’accordo solo come evento casuale e rapsodico. Stanza, strade, sveglia rumori di passi, la tosse del vicino, la goccia dell’acquaio, le campane. Lo studente si alza, si lava il viso, fa tutto quello che deve fare, il Nescafè con un bollitore elettrico, si specchia nello specchio, ma è incrinato e si vede diviso in tre parti. Si veste, esce normale nel mondo normale, per una meta normale: si precipita per le scale, prende al volo un autobus, arriva in tempo per il suo esame all’Università, scrive, concentrato. Ma poi di nuovo sale il ticchettio della sveglia, lo sguardo si alza dal foglio, con una strana consapevolezza.


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06:34 ⇨ 21:08 Ecco fuori campo “la voce della verità” che smentisce quello che si è visto prima. Era un sosia, un doppio fantomatico e meticoloso? Lo studente è rimasto nel suo letto. Il suo foglio d’esame è vuoto, il suo posto è rimasto vuoto. Smetterà di studiare. La sveglia ricomincia. Così il rito del caffé. I messaggi – sms fisici e concreti – degli amici che sono saliti a cercarlo sono rimasti sotto la porta. La finestra viene chiusa. Stilla regolare la goccia del lavandino sul pianerottolo. Non ti va di vedere nessuno. Qualcosa non va, mentre friggono le patate di un pranzo dozzinale in una brasserie alla Edward Hopper. Passato, presente e futuro ti si confondono. Il tempo si altera nella fascinazione di oggetti banali. Non vuoi che aspettare. Esci a notte fonda come i mostri, seduto in sordidi cinema, la colonna sonora da suspence danza solo riflessi di luce sul volto. Cammini di notte, dormi di giorno. Attesa e oblio. Non hai voglia di andare avanti. Il rumore di un flipper e una scala mobile. Un non vedere e non sentire silenzioso, immobile. La città diventa neutra e muta. Sotto la normalità c’è sempre il filo sotterraneo di queste dimissioni dalla vita, che è una casa vuota metafisica, un salotto coperto da teli grigi, pulviscolo nella luce. La sveglia non suonerà più l’ora del tuo risveglio.

21:08 ⇨ 41:20 La stanza della piccola mansarda è il centro del mondo, in una prospettiva fish-eye, in un vortice architettonico che risucchia, che contiene le cose minime: crepe, lavandino, bacinella, finestra, tappezzeria, i giornali letti e riletti, lo specchio incrinato, i libri allineati. E’ un regno racchiuso dai rumori [rumori del vicino, mormorio della città – auto – ritmo del tempo: goccia come battito del cuore e campane]. Ormai la sveglia si è fermata. Il tempo, crepa nel silenzio, non penetra più nella stanza isola deserta meravigliosa, nella città deserto da attraversare. Non volere più nulla: solo aspettare. Camminare. Apprendistato per DURARE. Hai tutto da imparare. Tutto quello che non s’impara: SOLITUDINE INDIFFERENZA PAZIENZA SILENZIO CANCELLARE VISI INDIRIZZI TELEFONI SORRISI VOCI NON CERCARE NESSUNO CAMMINARE COME UN UOMO SOLO BIGHELLONARE VAGARE VEDERE SENZA GUARDARE GUARDARE SENZA VEDERE TRASPARENZA IMMOBILITA’ INESISTENZA RESTARE SEDUTO RESTARE CORICATO RESTARE IN PIEDI GUARDARE I QUADRI COME MURI GUARDARE I MURI COME QUADRI GUARDARE I MULINELLI D’ACQUA Essere come il galleggiante delle lenze dei pescatori, alla deriva, superato dalla corrente dei bambini che corrono vivaci, sbattendo il righello contro le griglie di ferro. Cammini imponendoti di non uscire dai bianchi della linea spezzata sull’asfalto, hai mete ridicole, necessarie in quanto inutili. Divieti e limiti fittizi. Vorresti essere come un vecchio mummificato, piantato come una meridiana su una panchina, con il sole che gli gira intorno, ma non ci riesci. Ti agiti. La tua vocazione di vecchio è ancora troppo giovane. Le voci delle notizie del giornale, gli annunci che leggi, si accavallano, si sovrappongono, come onde nell’etere, non ne trattieni nessuna, importa solo il passare del tempo e la conquistata “aurea mediocritas” non turbata da nulla. Non ti fai qualificare da ciò che leggi e mangi, che indossi, dalle cose che fai. Mangiare solo per nutrirsi, vestirsi per coprirsi. Nessun edonismo. Giochi a carte da solo, tutta la notte anche, il solitario viene raramente. Si blocca, riprovi. Non è importante la vittoria, ma la densità commovente delle carte e i piani su piani per vincere, la felicità piccola di una carta che va a posto è diventata una ragione di vita. Tutto è vago, ronzante. La respirazione è regolare.


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41:20 ⇨ 50:50 Un rombo, un eco, un ronzio nella città. Il distacco e il disamore per tutto ora è completo. E’ una sensazione di ebbrezza e libertà.
Una felicità quasi perfetta. Una parentesi felice come una statua equestre rampante al centro di una piazza. La felicità senza memorie degli oggetti simbolo, la goccia, i calzini nella bacinella, o una mosca, un ostrica, un albero, un topo, è stata raggiunta.
Scivoli per le strade, intoccabile,protetto dall’usura equilibrata dei tuoi vestiti,dalla neutralità dei tuoi passi. Non è più necessario parlare, ma costruire torri con i fiammiferi. Tutto si equivale. Come uno yoghi non avere più sonno né fame. Camminare solo, seguito dalla propria ombra su di una assolata esplanade. Ogni cosa e il suo contrario. Solo gesti da automa. La sinfonia della città come sfondo. Come un topo da laboratorio dimenticato nel suo labirinto. NEUTRO rispetto a tutto e tutto ha una poesia felice, calma, un quieto abbandono al passo, al respiro. Una voce bianca vocalizza nel rombo.

 

I N Q U I E T U D E 

 

50:51 ⇨ 1:01:18 Immagini della città, una strada, la pioggia, i piccioni su un lampione, un bicchiere di birra – qualcosa si incrina – un treno, la stanza, ancora la strada alberata, una panchina, una piazza, un orologio, un passage vuoto, il vecchio meridiana… ma il rombo comincia ad avere un suono più stridente. Nella stanza isola batte qualcosa, insieme alle campane, il rombo cresce con una nuova angoscia, insonnia, panico, sogni. Ma i topi non sognano e tu contro i sogni cosa puoi fare? Non si mangiano a sangue le unghie martoriandole per ore intere. Non giocano a flipper rabbiosamente, con un ansito e colpi di reni che simulano un atto amoroso. il tilt resta insensibile all’amicizia che provi, all’amore che cerchi, al desiderio che ti lacera. Il vagare per le strade, per i soliti itinerari, diventa febbrile, angosciato. La felicità è diventata infelicità. Un ritmo jazz accompagna la deriva. Anche la città ora è “brutta”, minacciosa, mostruosa. Solarizzata, stinta, ruvida e contrastata nelle immagini. L’infelicità si è insinuata soavamente anche negli oggetti e li svuota del loro fascino. Risuona persino nelle campane, ogni quarto d’ora. L’orgoglio e la felicità, l’ebbrezza solo un trabocchetto. Un’illusione l’essere impenetrabile a tutto, intoccabile. Solo esiste la solitudine, che presto o tardi ogni volta ritrovi di fronte a te. Le parole non dette,le parole d’amore, le risate perse, quando saranno mai ritrovate? Il silenzio ora è terrore. Perso ogni potere d’onnipotenza solitaria.

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1:01:18 ⇨ 1:06:49 Tutto si trasforma in qualcosa di mostruoso. La città sempre più solarizzata è abitata solo da una moltitudine di mostri, guardinghi, senza età, che popolano i luoghi neutri, in cui prima scivolavi intoccabile. Un cumulo di rovine. Sentirsi mostro fra i mostri, afferrato e solitario come loro. Ultimo fra gli ultimi, orfani, vedove, mendicanti e Tutti quelli che vivono con le loro idee fisse. La folla non protegge più con il suo flusso. Tutto è triste, in un incubo che sfiora l’ossessione e la malattia.

 

D E S T R U C T I O N 

 

1:06:49 ⇨ 1:09:12 Sparire nel bianco di una dissolvenza, il piccolo lavandino da bambola della stanza rifugio brucia fra case distrutte e macerie. Ora non hai più rifugi, hai paura. Aspetti che tutto si fermi, anche la pioggia, il tempo… che tutto si sbricioli. Scappi fra le rovine. Anche la stanza è devastata. Un cavallo bianco abbattuto in un macello. Una fine del mondo dove ruggine e nebbia invadono la città. Il lavandino ardente crolla.

 

R E T O U R 

 

1:09:13 ⇨ 1:15:03 Qualcosa comincia a cambiare in un piccolo ritmo ripetuto, modulato, minimale che risale. Riprendi a camminare al centro della strada. Una voce sembra cantare. In una poesia quasi siderale tutto sembra ricomporsi. Ti puoi fermare in Place Clichy ad aspettare che smetta di piovere. L’inquadratura si può riallargare tornando alla stessa immagine dell’inizio del film. La solitudine e l’indifferenza non insegnano nulla. In una citazione nascosta, ma riscritta al contrario, l’illusione di fuggire, di cercare, si placa.

James Joyce
RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE

 
   16 aprile. Via! Via!
L’incanto delle braccia e delle voci: le bianche braccia delle strade, la loro promessa di intimi amplessi e le braccia nere di alte navi che si levano contro la luna, le loro storie di paesi lontani. Sono tese a dire: Siamo sole, vieni. E le voci dicono con loro: Siamo tue simili. E l’aria è densa della loro presenza mentre mi chiamano, il loro simile, preparandosi ad andare, scuotendo le ali della loro gioventù esaltante e terribile.
   26 aprile. Mamma sta mettendo in ordine i miei vestiti nuovi di seconda mano. Ora prega, dice, che io possa imparare nella mia vita, lontano da casa e dagli amici, che cos’è il cuore e che cosa sente. Amen. Così sia. Benvenuta, o vita! Vado a incontrare per la milionesima volta la realtà dell’esperienza e a forgiare nella fucina della mia anima la coscienza increata della mia razza.
   27 aprile. Vecchio genitore, vecchio artefice, vienimi in soccorso ora e per sempre.
Dublino, 1904
Trieste, 1914

Georges Perec&Bernard Queysanne
UN HOMME QUI DORT

 
941
01:10:38,420 –> 01:10:41,016
Tua madre non ti ha ricucito i vestiti.
 
942
01:10:42,386 –> 01:10:47,241
Non partirai per la milionesima volta
per cercare la realtà dell’esperienza,

 
943
01:10:48,319 –> 01:10:52,617
forgerai nella fucina della tua anima
la coscienza increata della tua razza.

 
944
01:10:54,522 –> 01:11:02,000
Nessun vecchio antenato, nessun vecchio
artigiano ti assisterà
, nè oggi, nè mai.
 

 

  
  

 
cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

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orsola puecher
orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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