Il senso delle generazioni

Foto di Christo Ras da Pixabay

di Roberto Boccaccino

Quando pensiamo all’atto del generare, largamente inteso, o anche semplicemente al concetto di generazione, cercando di dargli un senso, finiamo quasi sempre scoraggiati. Probabilmente perché si tratta di temi che quasi sempre sembrano dover naufragare in discorsi inconcludenti sul senso della vita. E allora lanciamo subito un salvagente, così da evitare il naufragio e poterci concentrare meglio: la vita non ha alcun senso.

Le generazioni, dicevo. Da dove arrivano, come funzionano? Perché ci sono? E non intendo solo l’avvicendarsi di individui, ma soprattutto l’avvicendarsi di informazioni (genetiche e non) che poi diventano ideologie, modelli economici, filoni artistici, studi scientifici, standard biologici, creatività, gesti sportivi, libri, musiche, e tutti gli altri tentativi di salvezza a cui generalmente ci aggrappiamo.

Ogni generazione, umana e non, è l’esigenza di quella precedente di rifarsi da capo. Magari di rifarsi non esattamente uguale, ma un po’ più bella e più intelligente, sia individualmente che socialmente, sia dal punto di vista biologico che culturale. Lo fa riproducendo se stessa, tramandando ogni cosa che sa, cercando di trascriversi, o di riscriversi. Ma – mi chiedo – come ci possiamo aspettare che una generazione futura sia migliore della nostra se tutto quello che ci mettiamo dentro siamo noi? Da dove dovrebbe venir fuori questo meglio (che pure ogni tanto viene fuori)?

La risposta a questa domanda ce la possiamo dare da un paio di punti di vista: uno, più netto e cinico, che guarda il fenomeno da lontanissimo e lo spiega scientificamente, e l’altro che, pur assecondando il primo, cerca di risolvere la cosa senza farci morire di solitudine.

La prima parte della risposta è che quel meglio viene fuori dall’ambiente circostante, dalle vicende che nel frattempo accadono attorno a quel tramandare. È un po’ la base su cui funziona la genetica: quello che conta è trasmettere, riscrivere. Attraverso milioni, miliardi di riproduzioni che inevitabilmente si trovano ad interagire con un ambiente esterno, con delle circostanze che non sono mai esattamente le stesse, arriva la mutazione eccellente. Tra tutte quelle infinite riscritture e trasmissioni che si avvicendano vengono fuori un individuo o più individui che da soli e in maniera imprevedibile – perché la collettività di quegli individui non può avere un vero controllo su questa cosa – rielaborano e ricombinano gli elementi ereditati, uscendo dal mucchio con un nuovo patrimonio genetico. Tirano fuori quei geni silenti, ignorati fino a quel momento, e migliorano loro, quei pochi, il destino dell’intera specie, che nel frattempo è passata e passerà passivamente nello stesso mondo.

E allora a cosa sono serviti tutti gli altri? Non esiste forse un metodo migliore per produrre solo quella parte eccellente? No, non esiste. Tutti quelli che non sono riusciti a cambiare il mondo hanno avuto il compito di far esistere quelli che invece ce l’hanno fatta.

Potrebbe non sembrare così appagante, me ne rendo conto, sentirsi ridotti a servizio di una specie, o di un miglioramento così impersonale e generico. E non lo è per niente in effetti: tramandare il patrimonio genetico – come pure la conoscenza (ci arriviamo) – un’enormità di volte apparentemente inutili è un processo che sembra essere ridondante e dispersivo. E lo è, eppure funziona bene. Dopotutto derivare è una parola che nella sua etimologia ha che fare con l’acqua che viene tratta da un fiume, o da un ruscello. Lui, il ruscello, scorre sempre, la maggior parte della sua acqua passa e va verso il mare, ma parte di essa, ad un certo punto, viene presa e portata altrove. Derivare, in qualche modo, significa uscire da un flusso apparentemente perpetuo, regolare, sempre uguale a se stesso.

E l’acqua derivata, quella che sta nel nostro secchio o nel canale che abbiamo tracciato dal fiume verso il nostro campo, mica è stata selezionata. È solo parte di quell’acqua che scorreva e basta, e che si è trovata in mezzo ad un ambiente fatto di altre variabili, tra le quali noi contadini, che ad un certo punto abbiamo interagito col suo flusso.

La seconda parte di quella risposta può essere data partendo da una prospettiva molto più stretta, dal punto di vista di chi sta dentro il ruscello, diciamo. In effetti ci viene abbastanza naturale cercare di dare significati da vicino, perché prima ancora del senso della vita in generale – che come dicevo ci annoia quasi subito – siamo portati a riflettere sul senso della vita in particolare, la nostra. Insomma, va bene chiedersi che ci fa la vita nell’universo, ma prima volevo capire che ci faccio io. E in questo senso ci può essere d’aiuto osservare alcuni contesti che viviamo in maniera un po’ più consapevole, o di cui almeno sappiamo valutare meglio i risultati.

Nonostante il processo ripetitivo con cui trasferiamo il nostro codice genetico richieda tantissimo tempo e preveda anche un sacco di “tentativi a vuoto”, è un metodo che riproponiamo spesso in vari contesti della nostra esistenza, e in diversi ordini di grandezza: quando si tratta di tramandare conoscenza (come l’educazione, e lo sviluppo sociale), o addirittura di elaborare informazioni all’interno della propria esperienza personale (come ad esempio per la produzione creativa).

Pensiamo all’educazione, al tramandare il sapere.

Devo ammettere che – forse per il pregiudizio di chi è nato e cresciuto in Italia, al Sud – il sistema della trasmissione delle conoscenze non mi ha mai convinto fino in fondo. Mi è sempre sembrata, fino a non molto tempo fa, un’attività nel suo complesso a perdere: nonostante le risorse investite, la maggior parte degli studenti non riesce a svoltare la propria vita, come si spererebbe, figuriamoci a cambiare il mondo. E una parte di essa a volte ripiega proprio sull’insegnare, come piano B di una svolta mai arrivata. Insomma si riceve conoscenza, con tutti i bias del caso, si prova a farci qualcosa di eccezionale e, quando non accade – e non accade la maggior parte delle volte -, si passa quella stessa conoscenza in avanti. Certo nel frattempo aggiorniamo metodi e contenuti, ma sembra essere un processo lentissimo e ininfluente. Insomma, per certi versi non convince.

Eppure si può notare che forse ripropone la stessa dinamica vista con la genetica: istruiamo tutti, o tutti quelli possibili. La pubblica istruzione ha provato, e prova ancora, a soddisfare la nostra necessità di formare le nostre generazioni, di corredarle con tutta la conoscenza di cui disponiamo, imponendo a quanti più individui possibile un’istruzione di base omogenea. Però tra tutti gli studenti che studiano poesia solo in pochi diventano poeti eccellenti, tra quelli che si formano come musicisti solo in pochissimi riescono a comporre delle canzoni d’amore effettivamente impattanti. E lo stesso vale per gli architetti, i matematici, i biologi, i politici, i fisici.

Naturalmente questa percentuale è enormemente influenzata da altri fattori, come la geografia, l’estrazione sociale, il sistema di diritti civili e individuali in cui si è inseriti. Ma anche provando ad immaginare un contesto illusorio, ipoteticamente del tutto paritario, resterebbe questo: l’istruzione è un processo ripetuto ad libitum, che ripropone grossomodo lo stesso bacino di conoscenze, e che riesce a trovare senso solo quando, ogni tanto, in mezzo a questo continuo raccontarsi le stesse cose nasce un insegnante, o uno studente, o una combinazione di entrambi, che prende quella conoscenza e la digerisce in un modo nuovo. È tutto un attendere, ripetere e attendere, nella consapevolezza che se il modo esatto con cui vengono rielaborate le informazioni è imprevedibile – e per certi versi incontrollabile – il fatto che prima o poi accada è invece certo. Quel continuo trascrivere non sarà efficiente ma è certamente efficace.

È un fenomeno che sembra avere a che fare con moltissime pratiche legate alla conoscenza e alla creazione, anche e soprattutto su scala molto più piccola.

Una volta ho frequentato un corso di scrittura creativa nel tentativo vano di sbloccarmi su alcune storie che davvero credevo avrebbero dovuto essere scritte. Tra le tante cose dette e ascoltate me ne colpì una, soprattutto per il fatto che dovevo averla già sentita da qualche altra parte.

La scrittura – quella dei professionisti – è spesso un esercizio di abitudine, di routine. In maniera controintuitiva non ci si deve aspettare che l’ispirazione arrivi per sedersi al computer e scrivere un capolavoro piovutoci in testa divinamente. Non funziona, a meno che non sei Mosè. Al contrario si deve scrivere spesso, praticamente ogni giorno, in modo che quando arrivano i pensieri meravigliosi noi siamo lì capaci di prenderli. A quanto pare la costanza, il protrarsi di un’attività in momenti che spesso possono apparire improduttivi, sono modalità che portano a quelle generazioni fondamentali, a quelle derivazioni che stiamo cercando.

Uno scrittore scrive tendenzialmente molte più pagine di quante poi ne salverà per il suo libro. Sembra che la prima versione di Pedro Paramo di Juan Rulfo fosse di oltre 800 pagine, dopo una prima revisione scese a 600, poi 400 poi 200, per arrivare alle 140 pagine del libro definitivo. Rulfo è stato lì a scrivere centinaia e centinaia di pagine, generando una moltitudine di paragrafi e capitoli che forse non sarebbero stati quelli giusti, e che in effetti sono stati tagliati. Ma anche in questo caso, tutte le pagine scartate hanno avuto il compito di far arrivare Rulfo a quelle buone. Non erano inutili.

E così, in questa dimensione molto ravvicinata, forse riusciamo a dare un’altra veste a quella visione un po’ sconsolante di prima.

La maggior parte del tempo che pensiamo perso e improduttivo diventa la base su cui costruiamo i nostri successi. E non intendo il tempo perso in cui non facciamo niente. Quello serve pure, lo sappiamo bene: l’ozio, il riposo, la maggese. Se ne sente sempre parlare, anche se forse mai a sufficienza. Non parlo di quel tempo lì, parlo del tempo perso a lavorare senza sentire di stare cambiando il mondo. È quello l’unico tempo in cui possiamo creare: l’ispirazione ha bisogno di un nido in cui deporsi, una pratica ripetuta in cui inserirsi, elementi già presenti da ricombinare in modo nuovo.

In quel tempo lì, a modo nostro, stiamo partecipando a quella dinamica di eredità che sembra tramandare inutilmente gesti, conoscenze e azioni, e che invece serve a dare forma esseri evoluti, a una società diversa, ad un’arte nuova.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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