Gita al lago

di Paola Ivaldi

Durante una breve passeggiata solitaria verso il lago Lod, poco sopra il comune di Chamois, in Val d’Aosta, mi è capitato di assistere, mio malgrado, a uno scontro famigliare, il classico litigio per un nonnulla che, visto da lontano, con il favore dunque del distacco e della neutralità, fa capire come spesso queste collisioni possano rivelare molto più di ciò che sembrano.

Lui. Aveva piazzato la grossa macchina fotografica sul cavalletto, a bordo lago, e vi si aggirava attorno con movimenti un po’ a scatti, un fare pedante, un atteggiamento che tuttavia, nel suo complesso, gli conferiva l’apparenza di uno che sa il fatto suo, con grande borsone al seguito probabilmente pieno di obbiettivi e chissà che altro ancora.

Nel percorrere il sentiero mi trovavo a una trentina di metri da lui e ho pensato distrattamente che fosse un appassionato di fotografia in fiduciosa attesa di un proprio carpe diem. Tiro dritto per completare il giro del lago e poi sedermi al sole a mangiarmi il panino in santa pace quando mi accorgo della presenza, sulla sponda quasi opposta alla mia, di un bambino urlante che corre all’impazzata in rapido avvicinamento, seguito a breve distanza dalla mamma, verso il fotografo: suo padre dunque. Nelle mezze stagioni può capitare che attorno allo specchio d’acqua non vi sia anima viva. Quella volta, si era in aprile, eravamo in quattro e potrebbe anche darsi il caso che loro non mi avessero neppure notata. Il fatto è che quando l’uomo li ha visti entrambi, ormai a pochi metri da lui, ha iniziato a sbraitare.

“Noooo… Ma siete già qui? Oh, ma dico: non è possibile! Vi chiedo cinque minuti, e voi siete: già qui! Guarda, lascia stare, non importa, però cazzo non è possibile, no, non è nemmeno più possibile, per me, avere cinque minuti di pace, per fare una foto, dico una. Ma lascia perdere, basta! Metto via tutto e non se ne parla più. Baaasta: ho detto! Ho detto bastaaaa” e avanti così. La moglie non si sentiva se parlasse o quale eventuale risposta tentasse di imbastire; il figlio, di pochi anni, stava immobile, ammutolito, pareva una statuina.

Da lontano, camminando, ogni tanto mi voltavo e li osservavo: lui aveva smontato tutta la sua postazione in fretta e furia, i gesti ampiamente teatrali. Poi si sono allontanati, tutti e tre in fila indiana, verso uno dei tavoli dell’area attrezzata. Prima che sparissero nel bosco e li perdessi definitivamente di vista ho solo più afferrato lo sgarbo con il quale lui diceva a lei: “… ma che panino e panino, cosa vuoi che me ne freghi dei vostri fottuti panini: mangiateveli tutti voi, a me è passata la fame”.

Proseguo il cammino tutto intorno al lago, chiedendomi attonita perché. Come si possa spiegare una reazione così spropositata per una foto. Ho guardato per qualche attimo il lago da dove all’incirca si era piazzato lui, ma non vi ho colto nulla di straordinario, né nell’eventuale inquadratura né nella luce o nei colori; nell’insieme non c’era da aspettarsi granché da quello scatto mancato se non la foto di un lago di montagna: una foto qualsiasi di un laghetto qualsiasi.

Mi sentivo imbarazzata per loro, provavo tenerezza soprattutto per la moglie e il figlioletto, immaginandomeli mangiare in silenzio i loro fottuti panini, preparati qualche ora prima con cura, avvolti uno dopo l’altro, nei tovaglioli di carta a quadretti e poi nella stagnola, pregustando il momento in cui avrebbero riaperto, uno dopo l’altro, tutti i loro pacchettini argentati: “Che bello: si va al lago!”.

Anche lui, comunque, nella sua apparente performance recitativa suscitava tristezza. Perché quando si giunge a simili reazioni per futili motivi, oggettivamente futili, c’è un disagio che cova, la coppia ha perso, o sta perdendo, per strada molti pezzi. Può essere di tutto. Da lontano non si può sapere né giudicare, ma osservando e ascoltando provavo sensazioni, un disagio di coscienza, ripensando a tutte le volte che ero stata io a dare in escandescenze per delle emerite sciocchezze. A tutte le volte che accade. A tutte le coppie che.

Se ci pensiamo, se riuscissimo di più a pensare a noi stessi con un sano distacco, che non è indifferenza, ma cambio radicale di prospettive, scopriremmo che assomigliamo, in quei frangenti, a degli spennacchiati galletti da combattimento che si azzuffano per un lombrico.

La parte del soccombente e quella, monologante, dell’urlatore possono essere declinate a entrambi i ruoli genitoriali. I figli sono l’involontario pubblico, assistono alle metamorfosi di papà e mamma, soffrendo in silenzio e poi avventandosi eventualmente sul panino per poi giocare con la pallina ricavata dall’aver serrato in pugno, forte forte, tutta la pellicola di alluminio.

Io, a proposito di mangiare, nel frattempo avevo rinunciato alla mia sosta e puntavo ormai a scendere verso il paese. Lungo il sentiero sto per incrociare due coppie decisamente in là negli anni, nella tipica formazione: gli uomini davanti, le donne dietro, a una distanza tale che a ognuno dei due gruppetti è consentita la libertà di parola.

La cosa sorprendente, perché in effetti capita di rado, è che passando accanto alle due donne colgo al volo queste parole: “No, ma guarda, io lo devo proprio dire: per me incontrare Elio è stata una enorme fortuna. Sai quando senti di essere fatti uno per l’altra? Ecco: ci piacciono le stesse cose, stiamo bene insieme, siamo felici, stiamo davvero così bene insieme che io dico sì: che è proprio una fortuna!”.

Lasciandomele alle spalle mi sono chiesta per un lungo attimo quale dei due uomini, che stavo nel frattempo già superando, potesse essere Elio: il signore che stava discorrendo amabilmente di prostatite, o l’altro che annuendo mansueto ascoltava l’amico? Oppure ancora, ipotesi decisamente più ardita: un terzo uomo in quel momento assente dallo scenario alpino?

Elio Elio… non saprò mai chi tu fossi, ma dopo tutto non mi importa granché, le mie vedute essendo sufficientemente ampie per contemplare anche la terza delle ipotesi. Quel giorno, intanto, mi accontentai dell’entusiasmo: il solare entusiasmo con il quale la donna aveva ammesso la propria fortuna, le parole genuinamente amorevoli confidate all’amica sorridente mi bastarono per riconciliarmi con l’arcana complessità dei rapporti di coppia.

 

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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