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STRADARIO AGGIORNATO DI TUTTI I MIEI BACI

di Daniela Ranieri

Ospitiamo molto volentieri la prima metà di un capitolo (intitolato “A. Daltonismo”) della bellissima tassonomia mascolina/amorosa di Daniela Ranieri, pubblicata da Ponte alle Grazie

Cerchi la cattiva coscienza? La troverai nelle per­sone dal vile sentimentalismo, che rinnegano la verità per amore.

Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, estate 1880

Dire «mh» è il suo modo di farmi capire che mi ama. A volte è interrogativo: «Mh?», e vuol dire «Cerca di essere ragionevole, cioè sii il meno possibile te stessa».
Non dice spesso «ti amo», inteso come segnale in chiaro: fuori codice mh-esco, intendo; le volte in cui l’ha detto posso quasi contarle:

– Quando salvo gli insetti senza ammazzarli e li accompagno delicatamente fuori dalla finestra. Due volte mi ha detto: «Oh: quanto ti amo», dal che ho capito che per lui significa qualcosa come «sei una persona veramente apprezzabile, ho fatto una scelta giusta, tutto sommato».
– Al telefono dopo due settimane di separazione; in questi casi non vuol dire tanto «sbrigati a venire», quanto «no, non ti ho sostituito con la prima donna disponibile che m’è capitato di incontrare, e ci sono buone speranze che ciò non avvenga nel breve periodo». Naturalmente questa potrebbe anche essere una strategia per tenermi tranquilla, e lui sa che io lo penso, infatti rispondo «va bene» e lui interpreta correttamente replicando «deve andar bene per forza, giacché è così» (sottinteso: non che ti ami, ma che non ti abbia sostituito, né con la prima né con la seconda con cui avrei potuto farlo); è il «ti amo» con funzione anti-entropica e veridittiva.
– Quando mi viene una buona battuta che lo fa ridere di cuore, e allora mi abbraccia dichiarando amore e ridendo come un barbaro, mangiandomi il cervello direttamente dalla scatola cranica, come un gelato al cocco dalla sua noce svuotata; qui vuol dire qualcosa come «risate così ne ho fatte solo con gli amici dopo qualche bicchiere; a ben vedere, ho fatto un affare».
– Quando dico qualcosa di assolutamente folle o troppo irragionevole. Come quando, durante una gita a un santuario nei pressi di Agrigento che mi prometteva essere luogo pressoché irraggiungibile e segreto, gli ho chiesto: «Con quante donne ci sei venuto?» Esasperato, si è fermato un attimo a guardare per terra (beve se ha un bicchiere davanti, o si osserva le scarpe se sta al computer: a chiamare a raccolta la pazienza dei santi); ha allargato le braccia e detto: «Come sarebbe a dire?» Mi commuove la sua fiducia in me, che lo fa sbalordire ogni qual volta io violo il nostro patto silente, come l’avessi trafitto con un ferro. Guardandomi fisso (come i gatti quando li deludi), a ficcarmelo bene in testa, a svegliarmi dal mio torpore emotivo, ha detto: «Adesso amo te, no?» Già, che lui crede che il tempo passi, che gli eventi non siano tutti simultanei. Talvolta questa asserzione vale come premessa di qualcosa che però non viene esplicitato, ma che io so essere: «È evidente che se non ti sbatto fuori di casa o non ti lascio per strada a fare l’autostop è perché ci sono di mezzo i sentimenti»; altre volte come diga concettuale: «Dacché ti amo adesso, godo di una totale amnistia su atti del passato»; altre volte ancora, come conclusione di: «Come posso uscire da questa relazione onorevolmente senza ferirla? In realtà, benché lei non lo capisca, non posso farlo senza ferire anche me, stante l’impedimento alla mia tranquillità mentale rappresentato dal fatto di amarla», eccetera.
– Quando sta lavorando alla scrivania e io lo abbraccio arrivando dietro le sue spalle. Allora si allunga all’indietro e mi accarezza il collo con la testa e le orecchie, come i cani, e sussurra «gioia…», che vuol dire «amore…», che qui vuol dire: «Toh, non ricordavo che tu fossi qui, devo dire che la cosa non mi dispiace affatto». Queste sono le occasioni in cui mi rimane difficile non credere, anche a scassinarla con l’intelletto, alla verità espressa dalla altrimenti incomprensibile, inattendibile e popolarissima affermazione.

È l’unico uomo che non si sognerebbe mai di dirmi che sono intelligente: per lui sarebbe una grave scortesia porsi a un livello superiore, tale da poter guardare alla mia intelligenza. Ritenendomi intelligente, sa che preferisco che mi si dica che sono bella. Questo mi dà la certezza che non è in competizione con me, ma anche il sospetto che non gliene importi poi molto di tutta la mia filosofia e dei bei libri che ho letto, e che una donna di superiore bellezza che gli desse spago potrebbe benissimo sostituirmi.
Un giorno, per dirimere la questione, gli ho chiesto: «Se potessi scegliere, andresti a cena con Marilyn o con Hannah Arendt?» Attrice o filosofa? Come mi vuoi?
E lui: «Con Marilyn, naturalmente; ma le parlerei tutto il tempo di Hannah Arendt». Quale tipo di donna me lo porterà via? Implicitamente gli imputo la colpa di avere flirtato con me quel giorno, al bar di Siracusa, cadendo (io) nel paradosso che per dimostrarmi a priori la sua serietà e la sua refrattarietà a incontri del genere, avrebbe dovuto non mettersi con me. Ecco come fa, il signorotto catanese, con le femmine appena conosciute!: se le porta a casa. Credo che mi ami veramente. Ma a quanto ne so – e di verità in amore capisco ben poco – io ho bisogno non già di menzogna, bensì di un che di indeterminato, immaginativo, nascosto, insomma di non rivelato. Cioè io nel massimamente vero esigo una quota di verità non ancora scoperta, che come tale può anche essere il suo contrario. Se come essere etico io reclamo la verità, come essere desiderante devo contemplare la non-verità. Un bel casino. Quando mi chiede con una curiosità da cui non è esclusa l’esasperazione cosa mi manchi, cosa cerchi ancora, perché non mi trasferisca da lui e non mi lasci andare del tutto alle rapide della vita, io vorrei spiegargli che mi manca avere desiderato di amarlo: io l’ho amato, invece, subito: in un momento in cui amarsi non era lecito né persino immaginabile. Lui mi ha invitato a casa sua e varcandone la soglia siamo entrati simultaneamente dentro il territorio senza scampo dell’amore. Forse avrei voluto che il nostro incontro, sotto la calura della piazza gialla, contenesse una bolla di indeterminatezza: che ci sfiorassimo, ad esempio, senza piacerci, per capire poi di voler oltrepassare la membrana tra il prima e il dopo. Invece, noi siamo stati subito nel dopo, subito d’accordo, contraenti che si accontentano. «Ti amo tanto», dice Sofia Loren a Cary Grant in Orgoglio e passione, praticamente subito dopo averlo conosciuto. Mi domando: dopo quanto tempo si sa che è amore? Poiché non può essere amore, quel subitaneo attaccamento, dev’essere qualcos’altro. Cosa? C’è un legame tra amore e conoscenza: solo che per me è sempre stato un rapporto inversamente proporzionale. Io non l’amerò, in futuro, come e quanto l’ho amato al secondo sguardo, quando mi parve un ladro.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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