Buena Vista Social Club: Lagioia dei classici
Questa rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe
Nota sui classici
di
Nicola Lagioia
Ogni tanto, qui su Fb (credo raramente per paura del ridicolo) cercherò di prendermi la libertà di scrivere dei post che presumo saranno poco letti, post di cui io stesso non sono sicuro, vale a dire post in cui più che raccontare qualcosa (il che, per me, significa di solito aver trovato una forma), o dare informazioni utili, o dichiarare qualcosa di cui credo o mi illudo di essermi convinto (le prese di posizione non sono il mio forte, gli “inviti al viaggio” sì), proverò a scrivere su questioni di cui sono davvero incerto – e su questioni molto poco popolari immagino -, condividendo sensazioni che altrimenti andrebbero perse, con la speranza che qualcuno più bravo di me le completi da qualche altra parte, magari anche in un altro tempo.
Oppure (se sono false intuizioni, come è possibile) qui possono andare tranquillamente perse e ignorate (si prova a dare un senso alla caducità dei social). Dunque, chiedo scusa in anticipo.
(Potrei far precedere questi post da tre asterischi *** così chi vuole non perde tempo con le mie divagazioni).
Il fatto è che sono ormai 25 anni che – oltre a leggerne di continuo di nuovi – rileggo gli stessi libri, in continuazione, senza venirne mai del tutto a capo. Fondamentalmente si tratta di alcuni cosiddetti capolavori del modernismo europeo, quei libri che, forse, portano alle estreme conseguenze intellettuali ed estetiche (e all’estrema bellezza) la civiltà europea un attimo prima che crolli su se stessa (e, da questo crollo, mi pare, siamo stati generati noi). Questi libri che leggo in continuazione, senza venirne a capo (per questo, forse, mi ci accanisco così tanto) sono sin troppo noti, sono altresì considerati faticosi (non che non lo siano), tuttavia a me sembra contengano un segreto (uno dei bandoli della matassa attuale? l’ago nel pagliaio di una qualche contemporaneità?) che almeno io – e forse questo “io” è un “io” collettivo – non sono riuscito a violare.
Sono, fondamentalmente, questi libri, “La ricerca del tempo perduto” di Proust, “La montagna incantata” di Mann, “L’uomo senza qualità” di Musil, “Gita al faro” e “Miss Dalloway” di Woolf, “Ulisse” di Joyce, “Sotto il vulcano” di Lowry.
Negli ultimi mesi ho ripreso (per l’ennesima volta) “L’uomo senza qualità”. Ho il serio sospetto (ma potrei essere stolto, potrei sbagliarmi) che questi libri avvicinino come scrivevo a un segreto, un’intuizione afferrata la quale sarebbe stato possibile salvare la civiltà europea (e il pensiero occidentale) non solo “prima” delle due guerre mondiali, ma “dopo” (per questo mi interessano ora), quando questa civiltà è tornata a noi – dopo Auschwitz e Hiroshima – in una sorta di forma “fantasmatica” (che è poi, questa forma fantasmatica, quella con cui a me sembra che abbiamo a che fare noi oggi). Aggiungo che in questi libri c’è sempre l’ombra di uno “spirito” che (pur essendo anche molto europeo) trascende il ceppo giudaico-cristiano, non è il romanticismo andato a male dei nazisti né la religione del materialismo comunista, ma qualcos’altro che fatico tantissimo ad attraversare, ma vedo (lo vedo!) come il riflesso dell’acqua su una parete bianca in un giorno d’estate.
Leggendo e rileggendo “L’uomo senza qualità”, per esempio, trovo un incredibile preveggente ragionamento-visione-racconto sul capitalismo attraverso il personaggio del miliardario Paul Arnheim.
Capisco che pochi (anche chi ha letto il libro) ricordino Paul Arnheim. Ma trovo stupefacente come, con decenni di anticipo rispetto alla fine del “gold standard” e poi del “gold exchange standard” (1971) che sancì il vero inizio (o la trasfigurazione decisiva) del capitalismo finanziario, Musil avesse, nel personaggio di Paul Arnheim, riassunto tutto questo in modo strabiliante. C’è una battuta che ho letto su Elon Musk, associata a “Watchmen” di Alan Moore. E cioè che Elon Musk si crederebbe il Dottor Manhattan ma sarebbe solo un Adrian Alexander Veidt (aka Ozymandias). Il problema è che Adrian Alexander Veidt è la versione semplificata del Paul Arnheim di Musil, l’uomo (Arnheim) che tentò di trasfondere la poesia nel capitalismo finanziario (ma anche il contrario) mentre le fondamenta di Cacania tremavano senza che nessuno (nessuno in veglia: ma in sonno e in sogno?) se ne rendesse conto.
Dunque, la prima riflessione mi rendo conto forse fallace forse no è su Arnheim visto dal terzo decennio del XXI secolo.
Seconda notazione. Questo è più un consiglio. Ho riletto l’altra notte con sempre maggiore stupore il capitolo 97 de “L’uomo senza qualità”, cioè il capitolo intitolato “Forze e incombenze segrete in Clarisse”. Ricordavo a stento il personaggio di Clarisse (mentre Agathe ce l’avevo sempre presente). Ebbene… mi è sembrato un capitolo in cui forza poetica, incubo, rivelazione, erotismo, esaltazione ma al tempo stesso sottostima di un personaggio letterario (Clarisse), erano talmente intrecciati, e in un modo così sapiente (il pagliaio dentro il quale c’è l’ago ce ci salverebbe, ma della quale serratura, la serratura della porta del pagliaio, non abbiamo la chiave), che io ho “sentito” leggendo, qualcosa che non era scritta da Musil (non con l’inchiostro, voglio dire) e che (fuori dall’intuizione folgorante del momento) mi è molto difficile riprodurre qua.
E quindi (sia per Clarisse sia per Arnheim) lascio che a farlo – a capirci davvero di più – sia qualcuno più bravo e in gamba di me, al quale magari (sarebbe bellissimo, ma potrebbe non essere) potrei aver dato l’idea che non sono in grado di completare.
Perdonate questi post con tre asterischi *** Prometto che saranno molto pochi.