V. & V. Nabokov & son
[Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo un estratto da Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore, Mimesis, 2022.]
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di Chiara Montini
Vera e Vladimir Nabokov decidono di far entrare anche il figlio al servizio della loro piccola impresa letteraria, in principio affidandogli traduzioni sotto la loro supervisione e responsabilità. Non vogliono in alcun modo forzare la mano, ma desiderano trasmettere al discendente l’idea che quell’impresa è e sarà anche sua. È una sfida, soprattutto se pensiamo che Nabokov rappresentava il traduttore in catene. Difficile immaginare Dmitri incatenato a una scrivania a scervellarsi su come tradurre gli impossibili giochi di parole nabokoviani. Con quella bella voce da basso profondo, la passione per gli sport estremi e la velocità, l’attrazione seriale per le donne, il suo metro e novantanove di fascino, Dmitri sembra poco portato per un mestiere introspettivo e sedentario come la traduzione. Ma i genitori non si arrendono, e tentano di “instillare in lui un’etica lavorativa offrendogli allo stesso tempo una professione nel caso non avesse successo come basso, in modo da assicurarsi, tra l’altro, che l’opera di Nabokov restasse un affare di famiglia.”
Che il suo destino fosse già segnato quando Vera gli leggeva la traduzione russa di Alice nel paese delle meraviglie? Oppure quando, quattordicenne, affronterà per la prima volta un romanzo del padre? Quella prima lettura, Un mondo sinistro, deve essere stato il frutto di una scelta ponderata. È anche una dichiarazione di amore. Il protagonista, Krug, resta attonito di fronte all’affetto infinito che lo lega al figlio facendo eco ai sentimenti dell’autore evocati in Speak, memory. O forse quel disegno comincia a prendere forma quando, dopo aver sondato le reazioni del figlio, gli verranno date a turno tutte le opere nabokoviane in lettura? Comunque siano andate le cose, si tesse nel tempo un filo indissolubile che lega l’attività del grande Nabokov al piccolo. Quel filo passa dapprima attraverso le lingue, poi la letteratura e infine la traduzione. Il progetto si realizza il giorno in cui i Nabokov decidono di lavorare insieme alla traduzione di A Hero of Our Time, il capolavoro di Lermontov.
Un impiegato reticente
L’iniziazione che dovrebbe permettere a Dmitri di entrare a pieno titolo nella piccola impresa a conduzione familiare si farà quindi su un romanzo di un “estraneo”, cioè di uno scrittore che non è il padre. Quando Nabokov chiede a Epstein l’incarico di tradurre il classico di Lermontov in collaborazione con il figlio si pone a garante di questo primo lavoro. In una lettera indirizzata all’editore non esita a decantare i meriti di Dmitri, ancora inesperto, con un tantino di esagerazione:
“Il mio protégé altri non è che mio figlio, il quale terminerà il primo ciclo di studi a Harvard in primavera. È un giovane slavista nonché un autore americano emergente. Ha fatto alcune traduzioni molto lodevoli per me, e m’impegnerei a verificare, rivedere e lavorare sul testo proposto.”
Pur lodando il rampollo per le sue doti e per le sue capacità, Vladimir Nabokov si assume la responsabilità sul testo finito per rassicurare l’editore. Cosa comprensibile, poiché la traduzione di A Hero è una prova, un trampolino di lancio per entrare a far parte dell’impresa V&V Nabokov.
Quando Dmitri affronta Lermontov ha la stessa età del padre all’epoca in cui traduceva Colas Breugnon di Romain Rolland (Nikolka Persik). Come il padre, non intraprende il lavoro con particolare entusiasmo perché, come il padre ai tempi di quel lavoro, ha ben altre priorità. Ma se Nabokov, nonostante la procrastinazione iniziale, terminerà con successo, autonomamente e in breve tempo il compito affidatogli, il figlio non finirà la traduzione, ma delegherà ai genitori. A questo proposito Vera scrive sconsolata: “Lo scorso anno Dmitri ha cominciato una traduzione per Doubleday e quest’estate V[ladimir] l’ha finita nell’Utah. Anch’io ho fatto la mia parte”. Eppure, Vera aveva dispensato severi e rigorosi consigli a Dmitri affinché portasse a termine la sua mansione: occorreva conoscere a fondo l’opera, l’epoca e i costumi, leggere le altre traduzioni senza plagiarle, tradurre ogni giorno della settimana senza santificare le feste e dedicare a ogni pagina almeno un’ora e mezzo. Per mitigare quei rigidi imperativi offriva l’assistenza incondizionata sua e del marito. E difatti fu lei a occuparsi del contratto a nome del figlio così come fu lei ad accollarsi gran parte delle prime bozze. Il marito si fa invece carico della revisione e della stesura finale. Con l’ironia che lo distingue, riassume all’amico Edmund Wilson la distribuzione dei compiti come segue: “Dmitri ci ha dato una mano, a me e a Vera, per la nostra traduzione di Lermontov”. Pur portando la firma congiunta di Dmitri e Vladimir Nabokov, indispensabile fu la partecipazione di Vera alla traduzione cui il figlio contribuì in minima parte. Più tardi, non senza un certo insolente candore, ammetterà quanto poco si fosse impegnato in quell’occasione:
“Il primo testo che tradussi con Nabokov non era scritto di suo pugno. Si trattava di Un eroe del nostro tempo di Lermontov. Cominciai il lavoro poco dopo aver terminato gli studi a Harvard per poi continuare, con una buona dose di procrastinazione, nel corso di due inverni di scuola di musica a Cambridge e un’estate di scalate nelle montagne nella Columbia Britannica. Durante un lungo soggiorno a Cambridge nell’inverno del 1955-56, mio Padre usava prendermi in giro con una punta di risentimento ogni volta che si imbatteva nella mia vecchia MG eternamente decappottata, al cui interno si trovava, insieme ad ogni sorta di attrezzatura sportiva, una copia russa del volume di Lermontov in balia delle intemperie, talvolta ricoperta di neve, aperta per giorni e giorni sulla stessa pagina, di cui controllava il numero che annotava con cura.”
Quel tono ironico, che talvolta eguaglia quello del genitore, è eloquente. La dice lunga su quali fossero le sue priorità all’epoca in cui esordisce come traduttore: la musica, le scalate, la sua vecchia auto, vari sport più o meno pericolosi, e infine la traduzione. Queste attività furono il suo vanto e… croce e delizia dei genitori. Tra l’ingenuo e il faceto Dmitri si pavoneggia: “Il risultato di queste fatiche, alla fine, con una piccola lucidatura di Vladimir e Vera Nabokov è soddisfacente, accurato e leggibile, e la nostra traduzione è diventata un testo di riferimento in molti corsi di letteratura russa.”
Da quel momento, Dmitri comincerà a tradurre esclusivamente le opere del padre dal russo all’inglese e, contrariamente alla madre che agisce in sordina, si distinguerà esibendo la propria firma su tutte le traduzioni in collaborazione con il padre, compreso, ovviamente, A Hero of Our Time.
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Trl (Traduzione a responsabilità limitata)
Forse l’esperienza ha insegnato ai genitori che, visti i problemi riscontrati nel tradurre il capolavoro di Lermontov, il repertorio del figlio dovrebbe “limitarsi” all’opera del padre. L’amato Dmitri ha alcuni vantaggi innegabili per continuare su quella strada: conosce le lingue, l’opera e il lessico paterno meglio di chiunque altro che non sia la madre.
Inoltre, nella sua qualità di figlio di esuli sa bene che cosa significa vivere tra le lingue. La sua biografia è poliglotta, come quella dei genitori e come l’opera paterna. In casa parla russo, ma abbiamo visto che nasce a Berlino per trasferirsi in Francia poi negli Stati Uniti dove si “americanizza”, in Italia e infine in Svizzera. La madrelingua, o meglio la lingua naturale, per lui non è quella della madre, bensì l’inglese che impara a parlare come un autoctono. Un inglese che, contrariamente a quello di Nabokov, eccellente ed erudito, è attuale, idiomatico, spontaneo. Quanto al russo, lo conosce abbastanza bene da poterlo tradurre, anche se sembra fosse “spaventoso” allo scritto: “al suo primo anno di università, Vladimir scriveva a Roman Jakobson, il famoso linguista strutturalista di Harvard, per dirgli che il ragazzo “non vedeva l’ora di seguire i suoi corsi” e aveva urgente bisogno di studiare la grammatica”. Conosce, inoltre, l’opera del padre. I Nabokov gliene leggono i testi ad alta voce fin dalla sua tenera età per poi darglieli in lettura quando è in grado di capirli. Raggiunta la maturità necessaria, parteciperà alla sua attività creativa come ascoltatore e testimone delle discussioni tra i genitori. Serena Vitale, traduttrice di Vladimir Nabokov, nonché forse l’unica donna che Dmitri fu davvero sul punto di sposare, sostiene che era “– anche per i discorsi sentiti in casa, per quello che gli diceva la madre – uno dei migliori ‘lettori’ dell’opera del padre, capace di intendere sfumature e sottintesi, ecc., che anche a un buon traduttore sfuggono”. Dmitri riconosce con umile onestà quel privilegio:
“Leggere, rileggere e riflettere sulle opere di mio padre col beneficio di averlo conosciuto intimamente, è sicuramente uno di questi. Un altro è l’accesso a materiale privato, che mi permette di sbirciare attraverso gli interstizi e addentrarmi nei meandri del processo creativo nabokoviano. Ultimo e principale è mia madre, che pur nella sua grande modestia, è una studiosa brillante e vanta una conoscenza enciclopedica di Nabokov, della letteratura e delle cose in generale.”
Mettendo il figlio a tradurre il padre, i Nabokov rinforzano l’idea di un’impresa familiare che divulga l’opera del grande autore in varie lingue. Se l’impresa nasce quasi per caso dall’amore tra Vera e Vladimir Nabokov e dalla loro comune passione per le lettere, l’unico figlio della coppia deve la sua posizione di traduttore a contingenze più materiali, a un tentativo di arginare le sue energie centrifughe. Quando Dmitri termina gli studi a Harvard, Nabokov si è potuto guadagnare una certa fama anche negli Stati Uniti. Il lavoro di Vera cresce proporzionalmente a quel successo e occorre qualcuno che possa aiutarla. Dmitri, con l’ausilio del padre e della madre, potrà fare le veci di quel tanto anelato e introvabile “traduttore ideale”. Non possiamo certo affermare che la sua prima traduzione in collaborazione, A Hero, sia stata un esempio di virtuosismo ed etica professionale. Abbiamo visto che il lavoro andò a buon fine solo perché se l’accollarono in gran parte i genitori.
Perché allora entrambe le parti si ostinano a fare di lui un traduttore? Che Dmitri trovi più stimolante tradurre l’opera del padre? Vi sono ragioni per crederlo. Meriterà le lodi dei genitori per la sua versione inglese della sua seconda traduzione (la prima di un testo di Nabokov): Invitation to a Beheading, Invito a una decapitazione. Forse non è un caso che quella traduzione fosse già stata cominciata da Vera, pur restando nel cassetto. Comunque siano andate le cose, quella prima traduzione di un testo di Nabokov pare aprire la strada a nuove responsabilità: “Vladimir è stato felicissimo di sapere che Invitation ti è piaciuto”, scrive Vera Nabokov a Morris Bishop: “Il povero Dmitri non ha avuto grandi riconoscimenti dai giornali, è vero. Per motivi di copyright, era necessario specificare che questa traduzione era stata eseguita “in collaborazione con l’autore”. La prossima volta sarà diverso”.
E invece no, non “sarà diverso” (c’è da chiedersi se Vera crede davvero a quanto scrive). Nabokov continuerà a puntualizzare sistematicamente che le traduzioni inglesi dei suoi testi sono il frutto di una collaborazione con l’autore, il quale si riterrà unico responsabile del risultato finale. Non mi è stato possibile ritrovare i manoscritti di Invitation per poter stabilire quale fu il rispettivo contributo del padre della madre e del figlio, ma come spiega senza malizia lo stesso Dmitri Nabokov in saggi pubblicati dopo la morte dell’autore, la ripartizione dei ruoli è chiara e immutabile: “Il mio compito” –– afferma in un’intervista rilasciata a France Culture – “era di procurargli una traduzione molto, molto letterale che conteneva varie possibilità. Tra queste [Nabokov] ne sceglieva una.” Poi conferma: “La mia versione fungeva da ‘base’, spesso trovava espressioni un po’ maldestre nell’originale che eliminava traducendo […] Gli lasciavo carta bianca. Sapeva che non avrebbe ferito il mio amor proprio di traduttore”. Non contesterà mai né il sapere né l’autorità paterna che gli sono anzi indispensabili:
“I problemi di traduzione, quando mio padre era ancora in vita, si risolvevano facilmente qualora si trovasse nelle vicinanze, a Ithaca, Cambridge, o Montreux. In tal caso, mi potevo rivolgere direttamente a lui. Altrimenti, per certe parole o frasi fornivo due o più opzioni con diverse sfumature. Spesso sceglieva quella che preferiva: in altri casi, invece, rifiutava le alternative proposte e se ne usciva con una brillante trovata nabokoviana che non mi aveva neppure sfiorato la mente. Tra noi regnava un patto inviolabile. Io avrei procurato la traduzione più letterale possibile, sulla quale lui aveva tutta la libertà che desiderava. Talvolta, come nel caso di King, Queen, Knave (Re, regina, fante), aggiungeva o riscriveva interi brani. Oppure, come in “Solus Rex”, o nel capitolo dei Chernyeshevskij in The Gift (Il dono), reinseriva passaggi che erano stati sostituiti da punti di sospensione allo scopo di aggirare i pregiudizi della censura di un’era passata.”
[…] Quando entra a pieno titolo nell’impresa familiare, la collaborazione con Nabokov assomiglia a una pratica di autotraduzione laddove il collaboratore rappresenterebbe una sorta di amanuense specializzato nell’altra lingua. E la sua bozza servirebbe soprattutto a sgravare l’autore dalla parte più cronofagica e prosaica del lavoro. Mai i genitori si lamenteranno pubblicamente dell’operato del figlio che godeva della loro stima e del loro appoggio incondizionato. Il padre, in particolar modo, si dimostrava sempre molto elogiativo nei confronti di quel “traduttore meravigliosamente congeniale” e considera, tra l’altro, la traduzione di Glory “superlativa”, e “splendida” quella di Cose Trasparenti in italiano firmata dal solo Dmitri. Ma Nabokov senior non conosceva quella lingua, come ammetterà in seguito lo stesso Dmitri per criticare un’altra traduzione italiana incensata dal genitore, quella di Lolita ad opera di Bruno Oddera.
Una cosa i Nabokov l’hanno capita. Nessuna pressione sul figlio lo distrarrà dalle sue attività preferite e prioritarie. Quando non sarà disponibile, si rassegneranno e affideranno la traduzione ad altri bilingui anglofoni. È quanto avviene per Дар, poi The Gift (Il dono), di cui Dmitri traduce il primo capitolo per passare la penna a Scammel. Questi incidenti di percorso non scalfiscono il progetto e la gestione dell’opera di Nabokov resta principalmente un affare di famiglia. Ma a che prezzo?
Sembra quasi che, in attesa del momento ineluttabile in cui il grande autore verrà a mancare, i Nabokov, uniti da un interesse comune, preparino il matrimonio a venire di Dmitri con l’opera, in un gioco di specchi e in un succedersi di ruoli che sfiora l’identificazione. Eppure, almeno in principio, la posta in gioco non è la stessa per i genitori e per il figlio. Non sarà la morte del padre a far precipitare gli eventi e a convincerlo a scegliere la strada tracciatagli dai genitori, bensì un incidente che gli fu fatale.