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Giamaica e malinconie

 

di Nick Casini

[Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale]

Felix è il primo maltese che conosco in vita mia che non sia un cane. Ma non è lui ad accogliermi, al suo posto ha lasciato un ragazzino che ci dice che Felix is not there, is at the beach, come se essere in spiaggia fosse una scusa valida per non farsi trovare al lavoro. Per il ragazzino, però, è tutto normale: ha un’espressione disillusa, arresa all’irrealizzabilità della vita come quella di un architetto finito a fare l’amministratore condominiale. Mi aiuta con i bagagli senza dire altro, struscia i piedi su per un’ampia scalinata marrone con corrimano bianchi e mi accompagna al secondo piano della back villa, la parte meno lussuosa della guest house. È un edificio in stile georgiano-giamaicano di epoca coloniale, di un giallo paglierino molto chiaro abbracciato da colonne senza capitelli, stucchi decorativi e balaustre dai motivi arcuati. L’arredamento è composto da divanetti di legno che fanno venire il mal di schiena solo a guardarli, tappeti di juta e plafoniere in ferro e vetro opalino. La mia stanza si chiama Rodinia, che è il nome dell’antico supercontinente in cui il Congo era un quartiere di San Francisco e l’Australia si trovava ad un tiro di schioppo dalla Siberia. Questo, però, succedeva un miliardo di anni fa, mentre adesso Rodinia è solo una grossa camera con un enorme letto cigolante, un materasso spesso cinquanta centimetri e un bagno delle dimensioni di un monolocale di quelli che a Milano vengo affittati a mille euro al mese (più spese). La stanza ha pure una terrazza di forma semicircolare presa d’assalto dall’arrembante vegetazione giamaicana, che si arrampica tutto intorno come una bestia affamata. In lontananza, bruciate dal sole, si allungano le onde della Cocoa Walk Bay. Una sistemazione niente male.
Felix lo incontro solo a pomeriggio inoltrato. È un tipo segaligno con il pizzetto, trent’anni suonati; indossa una camicia dai motivi floreali, un costume da bagno e tiene i dreadlocks arrotolati sulla testa in una specie di crocchia. Ha lo sguardo vacuo del fumatore d’erba incallito, e infatti ci appartiamo subito a fumare marjuana in una scala che dà sul retro, lontano dagli occhi degli altri ospiti che non si sa mai come la pensino al riguardo. Contrariamente a quanto credessi, fumare marjuana in pubblico, in Giamaica, non è legale (anche se ampiamente tollerato) e Felix, in veste di gestore della struttura, non vuole dare l’impressione di infischiarsene della legge, soprattutto agli occhi degli ospiti giamaicani che, come tutti gli autoctoni del mondo, non amano gli stranieri che si sentono al di sopra delle regole. Dopo avermi passato lo spinello, mi mostra con orgoglio una collezione di vasi dove coltiva salvia, basilico, prezzemolo, menta e una pianta carnivora dal fiore simile ad una bocca di carpa che nutre con piccoli insetti. Tutto molto bello, anche se a spiccare è un arbusto di marjuana alto quasi un metro che in confronto alle altre piante ha la statura di una sequoia.
“Sta qui solo come arredamento”, mi assicura, anche se da come lo coccola dopo averlo bagnato con uno spruzzino sembra tenerci molto più che al basilico e pure alla minacciosa pianta carnivora.
Felix non è solo in questa avventura ricettiva caraibica, ha una compagna che è anche sua socia e la scorgo poco dopo mentre attraversa il salone d’ingresso. Alta, magra, lineamenti mediterranei, perfettamente abbronzata e con indosso solo un paio di shorts e il pezzo di sopra del costume. Da come si atteggia, direi che è lei a mandare avanti la baracca. Mi sorride prima di scomparire dietro una porta, seguita da due tedeschi paffuti muniti di tappetini da yoga. Un Ganesha disegnato su un telo appeso al muro sventola al suo passaggio. Felix si riprende lo spinello. Le sue guance scavate si infossano mentre aspira, la pelle del viso si tira come un tamburo, il tabacco riprende il colore del fuoco. Ha l’aria di un mezzo Prometeo che ha scampato la punizione divina in cambio della promessa di starsene buono nel nido di bambagia che si è ricavato a novemila chilometri da casa. Parla con un marcato accento siciliano che ne tradisce le reali origini, ma mi spiega che la sua residenza fiscale è ormai a Malta da molti anni.
“Sei mai stato a Gozo?”
Mi frugo la lingua per tirar via un pezzo di tabacco che ci è rimasto appiccicato.
“Se ci vai, chiedi di Felix il Rasta: mi conoscono tutti”.
Lo spinello mi torna tra le mani. Il filtro, fatto con un pezzo di carta arrotolato, è zuppo della saliva di Felix. La cartina, sottilissima, lascia intravedere il tabacco mischiato alla marjuana. Faccio un tiro a tutto polmone e poi – come usa tra italiani all’estero – ci lasciamo andare ad un po’ di small talk sulle disgrazie del nostro paese: i politici incompetenti, l’evasione fiscale, la mafia, la Chiesa.
“Nemmeno ci qualifichiamo più ai mondiali di calcio, ormai”.
Annuisco seriosamente e mi reggo alla ringhiera delle scale. Dopo l’ennesimo tiro, i miei occhi hanno smesso di funzionare e adesso vedo solo nero. Non è la prima volta che mi succede, quindi riesco a mantenere la calma. Anni fa, a Roma, mi capitò di rimanere aggrappato ad una saracinesca di San Lorenzo per quasi un quarto d’ora in attesa che mi tornasse la vista. Quella volta, la prima, andai in panico, convinto di esser diventato cieco per sempre, certo di essermelo meritato perché si sa che non si accettano droghe da sconosciuti. Poi tutto era tornato alla normalità, e pace fatta con le droghe leggere. Stavolta, per evitare imbarazzi, invece di schiamazzare e piangere il mio destino, mi limito a rimanere attaccato alla ringhiera e ad annuire a qualsiasi cosa dica Felix, in attesa di tempi migliori. Senza vedere nulla, allungo in avanti la mano che tiene lo spinello per segnalare che ho finito il mio turno, e poi la uso – con molta cautela – per sedermi. Felix continua a parlare dell’Italia: le tasse erano il suo tormento (adesso, mi confessa, se il mio commercialista mi chiama per dirmi che c’è qualcosa da pagare, cambio commercialista), ma si lamenta anche della monogamia che, secondo lui, esiste solo per alimentare la società dei consumi, che si fonda a sua volta sull’infelicità delle persone
“Gli infelici mangiano troppo e comprano auto che non possono permettersi”.
Ne deduco che la sua relazione con la fidanzata sia un po’ in stallo, ma Felix non ne fa menzione. Intanto continuo ad annuire e mi premuro di tenere lo sguardo verso il basso, così da non insospettirlo nel caso stia provando a passarmi di nuovo lo spinello e non me ne stia accorgendo. Per tenermi occupato, mi tocco le ciabatte e cerco di ricordare che aspetto abbiano. Mi concentro su dettagli insignificanti per non perdere la calma. Il logo era giallo o arancione? Dove le ho comprate? Sento un gran freddo alle mani, eppure la fronte e le orecchie mi vanno a fuoco. Da una finestra, credo quella della stanza dove ho visto entrare la compagna di Felix, una voce registrata con un accento indiano ripete ad intervalli regolari sempre le stesse parole.
“I’m not the body… I’m not even the mind. I’m not the body… I’m not even the mind”.
“Vuoi una birra?”
Annuisco. Comincio a sentire un formicolio all’altezza della tempia e spero che sia di buon auspicio. Il buio che mi circonda è attraversato dagli stessi bagliori che compaiono quando si chiudono gli occhi dopo aver fissato intensamente una fonte di luce.
“I’m not the body… I’m not even the mind.”
Sento Felix che si allontana, i suoi piedi scalzi si attaccano alle mattonelle del pavimento. La famelica vegetazione giamaicana sussurra intorno a me. Immagino animali che non vedono l’ora di mettermi le zampe addosso e la pianta carnivora protendere la bocca di carpa verso il mio corpo indifeso. Mi tengo alla ringhiera e spero che vada tutto per il meglio.

A Winnifred Beach c’è una signora che prepara zuppe bollenti. Non è Cynthia – la ristoratrice che compare con Anthony Bourdain in un episodio di Parts Unknown – ma un’altra signora. Gestisce un chiosco a dieci metri dal mare, dove – se si ha la pazienza di aspettare quarantacinque minuti – si può gustare dell’ottimo jerk chicken cotto sul momento. Io pazienza non ne ho, quindi scelgo la zuppa di pesce che è già pronta. La signora me la serve in un bicchiere di carta come fosse del succo di frutta, raccomandandomi di tenerlo dal bordo per non bruciarmi. Non mi dà né un pezzo di pane né qualcosa di solido da mangiarci insieme, solo la zuppa. Sospiro e ci soffio dentro. La zuppa ha un colore rossastro, e quando appoggio la bocca sul bicchiere e provo a bere un sorso qualcosa mi colpisce le labbra. Lascio passare – con cautela – un po’ di liquido e tengo fuori l’oggetto non identificato. Sembra un pezzo di conchiglia, o una grossa lisca, e non è solo. Intanto, la zuppa mi scende lungo la faringe lasciandosi alle spalle un solco di bruciore e piccantezza che mi fa venire le lacrime agli occhi. Seduti ad un tavolo, più astuti e pazienti di me, due signori di mezza età mi guardano e se la ridono. Il loro jerk chicken si sta cuocendo dentro un barile di metallo tagliato a metà, assicurato in orizzontale a un piedistallo di ferro. La brace sfarfalla sotto la carne dorata. Svuoto la zuppa dietro un cespuglio e, dopo aver lasciato passare cinque minuti, torno dalla signora e compro un pacchetto di patatine alla cipolla. Mi siedo a guardare il mare e due cani randagi vengono a farmi compagnia. Hanno il pelo rado e irregolare, la cassa toracica in vista, bozzi intorno alla bocca, ma si stendono sulla sabbia come se non avessero un problema al mondo. Un ragazzo in costume e t-shirt sta nuotando dove l’acqua è così bassa che si riesce a spingersi con le mani. Quando lo guardo, mi saluta e poi prosegue con la sua strana nuotata. È talmente tanta la sabbia che smuove che dà l’impressione di galleggiare all’interno di una nuvola color avena. Il mare, più in là, è immacolato, attraversato da strisce blu che si confondono con i colori del cielo; l’aria profuma di jerk chicken. Noci di cocco sono impilate sotto gli alberi e cartelli scritti a mano chiedono donazioni per mantenere la spiaggia pubblica e al sicuro dalle grinfie degli investitori privati che si sono già presi tutto il resto. Un uomo seduto davanti ad un tavolo da picnic incide canne di bambù con un coltellino. Il ragazzo che nuotava va a sciacquarsi in uno stagno d’acqua dolce nascosto ai margini della spiaggia. Si tuffa di schianto facendo un rumore infernale e poi riemerge scrollando i capelli come una bestia bagnata. Nessuno ci fa caso. In giro – a parte me – non ci sono bianchi; non come a Treasure Beach, nel sud, dove ovunque andassi avevo la compagnia di pallide signore attempate che si bagnavano tra le onde e al tramonto passeggiavano mano nella mano e facevano lingua in bocca con tartarugati fidanzati locali. Che posto, Treasure Beach! Le onde di Frenchman’s Bay che dondolano motoscafi di legno e poi si infrangono ad un passo da casette colorate che fanno sognare la solita vita esotica ed impossibile in riva al mare. L’albergo dove avrei dovuto dormire il cui proprietario era morto da poco e la gente gli stava rubando i mobili dalle finestre. Le crab cakes di Jack Sprat. Le villette fatiscenti in collina e le gite a vedere i coccodrilli del Black River.
Mi tiro su e vado a buttarmi in mare. Faccio il morto, mentre un ciuffo di alghe scure mi solletica i piedi e i cani, ancora stesi, mi guardano con un occhio solo. L’acqua è tiepida, le onde si rompono al largo e a riva giungono solo sussulti schiumosi. La vegetazione avvolge la spiaggia in un abbraccio non ricambiato. Alberi dinoccolati allungano i tronchi verso il mare.
Ogni volta che mi trovo immerso in un luogo magnifico mi viene voglia di farne la mia tomba. È un istinto animalesco e trascendente allo stesso tempo, a metà strada tra la pisciata di un cane e un bisogno di eternità. Winnifred Beach, nonostante la zuppa fatta con gli scarti di pesce, sembra il luogo perfetto per aspettare l’ultimo tramonto della propria vita. Per chi come me non crede ancora nell’aldilà, o nella reincarnazione, la scelta del luogo dove andare a morire è cruciale e definitiva: è l’ultima scena prima dell’eterno sipario.
“Ganja, weed, marijuana?”
Il ragazzo che nuotava spingendosi con le mani sventola una bustina trasparente nella mia direzione. Torno a riva battendo i piedi. Rifiuto la ganja, e allora si mette ad intrecciare un braccialetto con le mie iniziali. Mi spiega che tutti i soldi che fa a Winnifred Beach rimangono a disposizione di Winnifred Beach, ma non so se credergli: vorrei, perché l’idea del braccialetto si addice al mio stato d’animo del momento, a un sentimento di purezza esotica che ho voglia di respirare e in cui voglio crogiolarmi, non importa se illusorio. Compaiono anche Felix e la fidanzata, che mi fanno un cenno di saluto da lontano e poi vanno a sedersi all’ombra. Camminano distanti come una coppia che sta insieme da abbastanza tempo per essersi abituata ai reciproci difetti e aver dimenticato i propri pregi. Appoggio i gomiti nella sabbia. Carezzo i cani tignosi. Il ragazzo mi porge il braccialetto: è fatto di fili e perline, e ha i colori della bandiera giamaicana. Lo compro per cinque dollari americani, anche se all’improvviso mi è venuta un po’ di malinconia.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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