Vasyl’ Stus e Marina Cvetaeva
di Ornella Tajani
Nessuna lingua è madrelingua.
M.C.
Nella collana DieciXuno di Mucchi dedicata alla traduzione poetica, di cui ho già parlato in questa sede, è uscito stavolta un volumetto dedicato non a uno ma a due poeti: l’ucraino Vasyl’ Stus insieme a Marina Cvetaeva. Due poesie, prima tradotte da Annelisa Alleva, poi variamente riscritte da Fabrizio Bajec, Massimo Bocchiola, Paolo Febbraro, Roberto Deidier, Rosaria Lo Russo, Paola Loreto, Valerio Magrelli, Annalisa Manstretta ed Edoardo Zuccato.
Come scrive Alessandro Achilli nell’introduzione,
la possibilità di invitare i lettori ad accostarsi, in un unico volume, alla poesia di Vasyl’ Stus e Marina Cvetaeva ci consente non solo di cominciare a trattare la civiltà letteraria ucraina alla pari delle altre civiltà letterarie europee, ma anche di accompagnare una riflessione di carattere culturale e politico al piacere della poesia e, naturalmente, alla riflessione sulla traduzione poetica e alle sue straordinarie risorse.
La nota finale di Antonio Lavieri, direttore della collana, fornisce a chi legge le specifiche di queste operazioni linguistiche e testuali:
La tensione esegetica che scaturisce da questi versi di confine – che Gianfranco Folena avrebbe probabilmente chiamato, come fece per Il ladro di ciliegie di Fortini, «paesaggi di transpoesia» – ci suggerisce che l’incontro/scontro fra due poetiche diverse non può escludere la scoperta e la sperimentazione, che poesia e traduzione non possono eludere il nesso poietico fra imitazione e invenzione, o tralasciare la congiunzione simbolica che lega linguaggio, storia e soggettività. Fra queste pagine, lettore, ti ritroverai in mezzo a ri-scritture in bilico, anamorfiche, eccentriche, oblique, dove scrivere vuol dire già tradurre, dove tradurre vuol dire già scrivere.
Pubblico in anteprima Dentro di me sta già nascendo Dio di Vasyl’ Stus nella traduzione interlinguistica di Alleva e nella riscrittura di Paolo Febbraro, e Inimitabile mente la vita di Cvetaeva nelle riscritture di Rosaria Lo Russo e Valerio Magrelli (Magrelli definisce la sua versione una “estroflessione”, spiegando il termine in nota:
Alla fine ho deciso di chiamarle “estroflessioni”: infatti in biologia, cito, estroflettersi, nell’intransitivo pronominale, sta per «svilupparsi, espandersi verso l’esterno, evaginarsi, di un organo anatomico da un primitivo stato di invaginazione, o di un tessuto da una superficie uniforme». E allora perché non immaginare il testo originale come il primo stato di un processo del genere, destinato a persistere in una sua latenza illimitata, attendendo il compiersi di sempre nuove, possibili “estroflessioni”?)
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Vasyl’ Stus / Annelisa Alleva
Dentro di me nasce già Dio,
memorabile e trascurabile,
né fuori né dentro di me, ma al limite della morte,
dove un vivo — nipote mio o antenato —
sopravvivrà finché io morirò.
Noi viviamo in due. In due esisto
se non c’è nessuno. Tuona la sciagura,
come una cannonata. È lui la salvezza,
io con labbra bianche lo invoco: salvami,
mio Signore. Salvami per un istante,
che poi mi salverò da solo. Me — da me.
Vuole uscire fuori da me.
Per salvarmi cerca di annientarmi,
affinché nella corrente, nelle tempeste di vento,
io esca fuori da me stesso, come la sciabola
esce dal fodero. Vuole andarsene affinché
si spenga la candela del dolore. Affinché
la tenebra della sottomissione salvi me
con un’altra vita. Un’altra vita. Con un nome
ormai improprio: eccola, quella massa,
la governa quel dio impazzito
che ama nascere dentro di me
(e io accenderò quella candela,
perché non si offuschi anzitempo,
candela nera di strada chiarissima,
come una vittoria ottenuta in segreto).
Vasyl’ Stus / Paolo Febbraro
Eccolo, Dio nasce, mezzo presente
mezzo passato, non proprio dentro me,
ma in limine mortis, luogo infrequentato
dai parenti, giovani e vecchi, mi attende
finché sarò spirato. In due con lui son vivo,
e quindi esisto quando sono assente.
E suona la sventura, e vengo bombardato.
Però è salvezza, e con la bocca pura
dico sei il signore, salva un solo istante
e poi placato salverò me stesso,
l’identico me stesso ormai trovato.
Ma lui è l’uscente, salva andando
poiché distrugge, vuole che io cada;
che nella tempesta, nel correre dell’aria,
come dal fodero fuoriesce la spada,
io da me stesso fugga. E lui fuggire vuole
perché si estingua la candela del dolore.
E il nero sottomettermi mi salvi
con un esistere altro, con un nome
scaltro, non più mio. Ecco l’ingombro,
il corpo maneggiato da quel dio
che dentro me rinasce come matto
(e io dichiaro santa la candela
così che il buio accada ma non presto.
Nera candela di splendente strada —
per me vittoria tenue, di soppiatto).
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Marina Cvetaeva / Rosaria Lo Russo
Come nessuno la vita sa ingannare
Oltre ogni illusione, oltre ogni speranza,
Ma dal fremito nelle vene la riconosci,
È proprio lei, la tua vita.
Siamo sdraiati sull’erba di grano.
Calore, colori, cielo, terra, suoni
(Finzione? E allora?) Nel caprifoglio
Vibra l’estro di cento pungiglioni.
Felicità! E il tuo richiamo!
Non mi rimproverare, amore, se i nostri
Corpi ottundono l’anima a tal punto
Che mi casca la fronte dal sonno.
È perché sei tu a cantare!
Nel libro bianco dei tuoi silenzi
Nella creta selvaggia dei tuoi sì
Lenta abbasso alta la fronte
Sulla tua mano viva.
Marina Cvetaeva / Valerio Magrelli
La vita è palmo, menzogna,
tremore di tutte le vene,
e l’anima crolla nel sogno.
I tuoi sì sono argilla selvaggia.
Grano, erba, azzurro, afa:
sei stato tu a cantare,
sei stato tu a chiamare!