Bonanza accende la luce
di Giorgio Mascitelli
Le cose e gli uomini differiscono per i segni che il tempo vi lascia: nelle prime la modificazione può essere talvolta reversibile, qualora il guasto sia riparabile, e la cosa tornerà come nuova, affidabile nella sua staticità; nei secondi, alimentata dal ricordo, vige una promessa di reversibilità che, per la sostanza di cui sono fatti, finisce con il fungere da succedaneo di quella effettiva, cellulare, biologica, impossibile. Così le cose restano e gli uomini ricordano. Ma questi sono discorsi fuorvianti, da tempi passati, da tempi di Matusalemme, ora che queste distinzioni diventano sempre più obsolete grazie agli stupefacenti progressi che rendono evidenti i vantaggi di una formattazione globale.
Anche le case sono cose e pertanto sottostanno alla medesima regola. Ecco per esempio la palazzina al civico numero 11 di via Marconi, vicino al Centro Storico, era ritornata a essere una casa nuova non solo fuori negli intonaci della facciata, ma anche dentro nelle scale illuminate dal nuovo impianto elettrico e ancor più intimamente nei penetrali degli appartamenti ristrutturati, tutti in perfetta somiglianza a dispetto della varietà dei proprietari e quindi dei committenti delle ristrutturazioni. La chiamavano la casa dei turisti nel bar e dalla panettiera in fondo alla via perché tutti gli appartamenti, ma proprio tutti, li affittavano agli stranieri con quell’affare lì del telefonino che schiacci l’applicazione e, anche se sei in capo al mondo, ti trova l’appartamento per la tua vacanzina ovunque vuoi, sicché facevano degli affari d’oro i proprietari degli appartamenti e anche quelli del bar in fondo alla via perché va da sé che lo straniero per i quattro giorni che passa in Italia non rinuncerebbe neanche per tutto l’oro del mondo al piacere di bersi al pranzo il suo cappuccino originale doc e c’è da dire che Toni, il barista, lo decorava con il cuoricino di schiuma. Le cose andavano talmente bene che anche al numero 9 e al numero 7 e perfino al numero 6, che si sapeva abitato da gente schiva di ogni novità, avevano cominciato a mettere in affitto qualche appartamento.
In verità sarebbe più corretto dire che le cose erano andate abbastanza bene perché c’era la storia di quell’altro nome, che finché restava una storiella mormorata dalle vecchiette del quartiere era da ridere, ma se lo scrivi in rete nei commenti agli annunci e perdipiù in inglese, allora non è più un ricordo, ma diventa una faccenda seria. Internet è una comare globale che fa apparire all’uomo ciò che non è e ciò che è non glielo fa vedere. Fu questo del resto il motivo per cui venne ingaggiato Santi Bonanza al di là di tutti i discorsi sulla pulizia e il decoro della casa ( la casa è una cosa ma appartiene sempre a degli uomini, e dunque ai loro ricordi). Santi Bonanza era un operoso professionista del lavoro multitasking sia in senso intensivo che estensivo, sempre in cerca di nuove sfide professionali che ne arricchissero l’esperienza e gli consentissero di sbarcare il lunario, mai seduto sugli allori dei risultati ottenuti ma in perenne autoaggiornamento perché si impara per tutta la vita e non solo a scuola; pertanto con un simile profilo gli fu facile accettare l’offerta di diventare l’addetto alla manutenzione e al progresso dei lumi della palazzina di via Marconi 11 in cambio di un modesto ma onorevole stipendio e della cessione della stanza della ex portineria in comodato gratuito a fini domiciliari. La filosofia di Santi poteva essere riassunta dalla frase che non di rado avresti udito affiorare sulle sue labbra ‘sempre meglio che due schiaffi in faccia’. Si trattava di una filosofia del lavoro indubbiamente restrittiva rispetto alla natura nobilitante di quell’attività, ma quelli erano tempi in cui, per rendere l’idea, uno come Santi, che avrebbe dovuto gridare Vogliamo tutto, si trovava costretto a sussurrare Lasciateci qualcosa e dunque la sopraddetta filosofia in un contesto del genere poteva vantare una sua rustica validità. In un certo senso la vera mansione di Santi Bonanza consisteva nell’accendere la luce, ma non nel senso letterale quotidiano, egli doveva accendere la luce in un senso più generale, più assoluto; da lui doveva sorgere il baluardo contro ogni folle superstizione che ancora alligna nell’animo umano, limitatamente al numero 11 di via Marconi, com’è naturale.
E da questo punto di vista la scelta di Santi Bonanza era stata fortunata perché egli non usava cedere facilmente il controllo del suo animo a paure superstiziose a differenza di molti dei proprietari degli appartamenti. Queste paure non si diffondono per caso e, anche se è possibile indicare una causa immediata, la verità è che il terreno, intriso di pregiudizi, era già fertile prima. Per esempio i proprietari cominciarono ad avere paura dei fantasmi dopo che una coppia polacca, in cui lei purtroppo parlava un po’ d’italiano, scrisse nei commenti, per il resto lusinghieri, che la casa nel quartiere era soprannominata ‘la casa dei fantasmi’, il che era un fatto perlomeno discutibile, visto che la prima qualità di un soprannome è quello di essere di pubblico dominio e di una cosa simile si ricordavano al massimo tre o quattro anziani destinati prima o poi a trasferirsi nei viali alberati della periferia. Che nell’era dei satelliti e dell’intelligenza artificiale si credesse ancora a simili credenze non sarebbe stato credibile, se non fosse stato che in virtù di un algoritmo gli appartamenti offerti uscissero anche in ricerche con le parole chiave ‘casa dei fantasmi’. Fu così che i proprietari cominciarono ad avere paura dei fantasmi. Fu così che fu ingaggiato Santi Bonanza.
Le prenotazioni apparentemente sembravano non risentire della segnalazione, ma quando un’associazione di ricercatori di fenomeni paranormali chiese di affittare per una notte l’intera palazzina e di usare i propri strumenti per registrare eventuali presenze, i proprietari si spaventarono e rifiutarono. Santi Bonanza, che in quella casa ci dormiva ogni notte, non s’accorse mai di nulla, ma questo non vuol dire un bel niente perché può darsi che gli spiriti o chi per essi decidano di apparire solo in determinate condizioni o solo a quelli più impressionabili. Santi Bonanza invece si accorse di un altro fatto e cioè che c’erano in giro degli scarafaggi, lo segnalò e consigliò una disinfestazione. Da questo orecchio, tuttavia, i proprietari non ci sentivano per timore di spese e domandarono con fare malizioso come era possibile che in una casa linda e appena ristrutturata, ci fossero degli scarafaggi. Santi non raccolse l’allusione offensiva e disse con calma che la casa era ristrutturata e meticolosamente pulita da lui, ma che le tubature erano vecchie e c’erano le cantine che non erano state toccate ed era un peccato, per risparmiare quattro soldi di disinfestazione, rischiare qualche brutta figura con gli ospiti.
Non è che Santi Bonanza non credesse ai fantasmi, a differenza dei ricordi a cui in effetti non credeva, ma doveva credere anche a tante altre cose, sicché c’era in lui un effetto da chiodo scaccia chiodo che avrebbe potuto apparire come una forma di implicita incredulità a un osservatore esterno. E poi nessuno degli ospiti aveva mai accennato neanche vagamente alla storia dei fantasmi finché non giunsero due signore britanniche che gli confessarono di aver scelto l’appartamento in quella palazzina perché era stata segnalato da un sito specializzato in luoghi del paranormale. O meglio lo confessarono alla figlia della portinaia del 9 che svolgeva la funzione di interprete, dato che Santi parlava solo la lingua di sua mamma. La ragazza tradusse fedelmente quelle parole, ma il mondo interiore di Santi quel giorno era infestato da altre presenze e non dette peso alla dichiarazione.
Peraltro le due visitatrici non indugiarono in ulteriori precisazioni sulle ragioni della loro scelta e defluirono ad ammirare le bellezze gotiche e/o rinascimentali, che nelle vicinanze abbondavano più che altrove. La loro fantasia fu debitamente toccata dalla congerie di angiolotti ammiccanti e annunziati dai capitelli delle colonne e dagli angoli delle tele, che parve la doverosa ambientazione di ciò che venivano cercando. Nulla insomma si ebbe nel loro contegno che avrebbe potuto suggerire a Santi, o anche a un osservatore neutrale, un significativo discostamento dagli standard universalmente accettati che permettevano di definire una persona ‘turista’. Invece la sera stesse ebbe modo di ritornare sul senso di quelle affermazioni diurne e fu una fortuna che esse fossero le uniche ospiti della casa giacché si era in bassa stagione. Stava per coricarsi quando del trambusto, dei sospiri, dei colpi di tosse e un battito di mani provenienti dai piani superiori lo ridestarono ai doveri del giorno. Gli toccò salire e vide sul pianerottolo del terzo le due signore che sostenevano di aver visto qualcosa muoversi vicino alla porta dell’appartamento vuoto prospiciente il loro, puntavano freneticamente i cellulari per riprendere la presenza e dicevano, per farsi intendere, ‘ghosts’ (Santi Bonanza capiva quella parola perché aveva visto Ghostbusters). Gli fu subito chiaro che, se si trattava di fantasmi, erano fantasmi di scarafaggi. Effettivamente una colonna di scarrafoni percorreva lo stipite in legno della porta dell’appartamento, ma le signore non se avvedevano vuoi per l’eccitazione vuoi perché la luce sulle scale, che era a tempo e aveva un intervallo molto rapido, era spenta. Santi si frappose tra loro e la porta, continuando a ripetere ‘calma’, attese che anche l’ultimo individuo della colonna fosse passato e accese la luce. Quando vi fu la luce, con ampi gesti Santi Bonanza mostrò come non nulla vi fosse e altrettanto perentoriamente invitò le due turiste a guadagnare i propri appartamenti.
L’indomani le due turiste lo interpellarono, sia pure in maniera incomprensibile per lui, e gli mostrarono sul telefonino un filmato ripreso la notte stessa prima del suo intervento: il filmato era mosso e di cattiva qualità vuoi per l’oscurità vuoi per l’emozione dell’operatrice che evidentemente aveva giocato un brutto scherzo alla saldezza della sua mano. Nonostante tutte queste mende tecniche, nel filmato si scorgeva sia pure difficoltosamente un formicolio, una nebbiosa mobilità passibile delle più svariate interpretazioni ( tra cui la entomologica). Qui allora trasparì tutta la virtù di Santi Bonanza, che capì che il momento era pericoloso e decisivo, ma che quello stesso momento, colto opportunamente, poteva giocare in suo favore. Non si perse d’animo, convocò la figlia della portinaia del 9 e le chiese di tradurre per lui un piccolo discorso affermante, che sebbene lui fosse solo un povero lavoratore, non era giusto prenderlo in giro svegliandolo nel cuore della notte con scherzi di cattivo gusto perché, anche se non aveva studiato, sapeva benissimo anche lui che viviamo in un’epoca di progresso dove la scienza può tutto e i fantasmi non possono esistere; che le immagini erano sfocate e potevano essere qualsiasi cosa. Le due signore provarono ad assicurargli che qualcosa avevano visto muoversi, se ne ricordavano perfettamente, ma Bonanza si mantenne fermo nella sua attitudine sentenziosa, e non restò loro che scusarsi.
Allorché presso i proprietari si riseppe la storia, si congratularono con lui e lo tennero per uomo di non piccola astuzia e collaudato professionista, decisero così di accontentarlo: chiamarono quelli della disinfestazione e a mo’ di premio gli rinnovarono il contratto per altri sei mesi.
( una precedente versione di questo racconto è apparsa su Machina, novembre 2021, g.m.)
Sono stato attirato alla lettura di questo pezzo dal barista che versa il latte schiumoso nel cappuccino a forma di cuore, perché l’identica cosa accadeva in un bar vicino a piazzale Maciachini che frequentavo spesso la mattina nei primi anni ’70. Poi anche il binomio scarrafoni – fantasmi mi tocca da vicino perché mi suscita altri ricordi di vita passata (tipo: certi miei cugini più vecchi di me si coprivano talvolta di un ampio lenzuolo per terrorizzarmi, quando abitavo per qualche settimana con loro). E poi ho apprezzato molto Santi Bonanza che non sa una parola d’inglese ma se la cava benissimo. Grazie Giorgio!