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I Decollati e l’odio del popolo

di Giuseppe Schillaci

Quel che resta del cippo dei Decollati 

Palermo, angolo Via Buon Riposo/Corso dei Mille, 27 maggio 2022

 

« Tout commence en mystique et finit en politique”

Charles Péguy

 

A fine maggio 2022, a Palermo, è stato distrutta l’ultima traccia di una devozione popolare antichissima, quella delle Anime dei Decollati, ovvero dei condannati a morte.

Il cippo votivo di fine Ottocento è stato divelto nell’indifferenza più assoluta, a causa di un incidente stradale o d’un atto di vandalismo. Sono intimamente legato a quest’antica devozione, per le ragioni che leggerete di seguito, e non riesco a non pensare al fatto che dovremmo fare qualcosa, quanto prima: restaurarlo e spostarlo dal ciglio della strada, ad esempio, e poi rivalorizzare questo piccolo monumento popolare, e cosi l’antica credenza delle Anime dei Decollati.

Mio padre, che è nato e abita ancora vicino al Santuario di Via Buon Riposo, mi ha avvertito della distruzione del cippo votivo e m’ha inviato alcune fotografie, raccomandandosi: “denuncia questo scempio, altrimenti non resterà più nulla dei Decollati”. Io ho subito avvertito i miei pochi contatti nella stampa siciliana, quella stampa teoricamente attenta alla cultura, che una volta si diceva “di sinistra”.  Ho poi contattato un alto funzionario ai Beni Culturali della Regione Siciliana. Ma la notizia non ha interessato nessuno. La mia amica giornalista si è sinceramente dispiaciuta per l’indifferenza del giornale su cui scrive, e la capisco. Poi, qualche giorno fa, leggo un articolo su un quotidiano siciliano, tradizionalmente conservatore, che pubblica la denuncia di due candidati di destra (quella si dice sempre cosi) alle elezioni comunali palermitane. I due lamentano la distruzione del cippo dei Decollati, precisando che si tratta di un monumento del Settecento e che la colpa è  da attribuire all’incuria dell’amministrazione comunale uscente. Sorvolando sull’imprecisione storica e non potendo non essere d’accordo con la seconda affermazione, mi chiedo: com’è possibile che la scomparsa definitiva, almeno nei suoi segni tangibili urbani, di un’antica devozione popolare finisca nelle grinfie di beceri interessi elettorali ? Perché questo scempio non suscita lo sgomento degli intellettuali e del popolo siciliano?

Ma poi mi rispondo da solo, come sempre più spesso capita negli ultimi anni: ma a chi interessa oggi del popolo ?

Chi ha un potere culturale e mediatico, in questa melma sinistra/destra, in realtà odia il popolo, lo sfrutta per biechi interessi di potere, ben che vada lo ignora o lo irride con  sufficienza. Il popolo non è cool, del popolo è rimasto soltanto il suo marchio pop, uno slogan, una categoria socio-politica, un teatrino per crocieristi. Il popolare ha perso  la sua dimensione antropologica, e dunque la sua forza ancestrale: la si è svilita, svuotata, depotenziata. A Palermo, ne restano ancora le macerie, buone manco per una story instagram.

Anni fa, per un’antologia intitolata “Palermo dietro i vetri” (Torri del Vento Editore, 2016), avevo scritto questo brano sui Decollati, ve lo ripropongo, perché la memoria non si perda, almeno la mia.

_____

Anche il mio primo romanzo era ambientato a Palermo. E precisamente intorno all’antico Ponte Ammiraglio, dove sono cresciuto, come i miei genitori, e pure i loro, e così fino alla settima generazione.

Era quello un romanzo sulle origini, che ruotava intorno a un luogo misterioso, perché non è data origine senza mistero. Il luogo in questione si trovava a un centinaio di metri dal Ponte Ammiraglio, in Via Decollati, ed è oggi un posto dimenticato dalle guide turistiche. A segnalarlo ci sono pochi indizi, tra cui il cippo votivo sul Corso dei Mille, all’angolo con Via Decollati: un parallelepipedo in pietra di circa un metro, lumini e fiori in cima e, sul lato frontale, una lastra d’ottone su cui è sbalzata l’immagine dei Decollati.

Quando mi hanno chiesto di scrivere qualcosa su Palermo, ho pensato ai Decollati, anche perché rischiano di sparire per sempre dalla città. L’anno scorso, infatti, sono passato com’è mia consuetudine dal cippo votivo dei Decollati e mi si è presentata un’immagine desolante: il cippo era stato travolto da un’automobile e l’icona sacra strappata dal tufo, divelta, distrutta. Sulla pietra restava soltanto qualche fiore.

Alla rabbia, è seguita la voglia di raccontare, affinché non si perda la memoria di ciò che eravamo, e siamo. Ecco dunque la storia dei Decollati e della loro via.

Fin dal 1799, in una piccola chiesa accanto al Fiume Oreto,  si seppellivano i corpi dei condannati a morte che venivano giustiziati a Piazza Marina con due tipi di esecuzione: per impiccagione alla forca, se il prigioniero era popolano, o per decapitazione alla ghigliottina, se nobile. Il santuario della Madonna del Fiume, poi denomimato Madonna del Carmelo ai Decollati, non era però un cimitero come gli altri, ma un luogo di devozione popolare unico in Sicilia. Davanti alla Chiesa c’era una piramide su cui erano esposti i teschi dei giustiziati, e in fondo c’era una grata a protezione degli ex-voto, davanti a un’icona con la Madonna e i corpi dei Decollati tra le fiamme, imploranti la salvezza, accanto alla forca e alla ghigliottina.

Qui giungeva la processione delle devote, il lunedì o il venerdì notte, per chiedere l’oracolo ai Decollati. Le cristiane pregavano la Madonna per il suffragio delle anime dei condannati a morte, affinché la Vergine le salvasse dal fuoco del Purgatorio e le accettasse finalmente in Paradiso; e in cambio delle loro preghiere, le devote chiedevano ai Decollati di conceder loro una grazia, con un vaticinio.

Le donne scendevano accanto al fiume, fino alla cripta dei Decollati, ognuna con una propria ansia per cui chiedevano oracolo e grazia: il figlio in guerra, la figlia da sposare, la malattia di un parente… e, giunte davanti all’effigie sacra, recitavano un rosario in dialetto siciliano.

 

Pi li flagelli e battitura

Vui ch’avistivu, Signuri

Pi li chiova arribbuccati

l‘armi di corpi decollati arrifriscati

 

Poi le donne restavano lì, tribolanti nel buio, in silenzio, ad ascoltare i rumori della notte e interpretarli come presagi positivi o negativi. C’era dunque un codice dei suoni, il cosiddetto “eco dei Decollati”: cinguettio d’uccello o fischio di treno, ad esempio, era considerato buon augurio; mentre raglio d’asino o scroscio d’acqua, malaugurio.

Quello dei Decollati era un culto centrale nella religiosità popolare siciliana, cattolica e pagana al contempo, a cui Giuseppe Pitrè dedicò infatti il primo capitolo del volume sul soprannaturale del suo trattato etnografico “Credenze e pregiudizi del popolo siciliano”.

La devozione dei Decollati potrebbe rivelare alcuni tratti profondi della cultura siciliana, a partire ad esempio dalla questione più ovvia: com’è possibile che i condannati a morte, teoricamente considerati dei criminali, siano trattati come dei santi, diventino cioé oggetto di devozione religiosa?

Forse il popolo siciliano ha un’istintiva simpatia verso i delinquenti? Oppure, come piace pensare a me, le devote non credevano alla colpa dei condannati a morte, ma semmai sospettavano fossero stati perseguitati ingiustamente dalla Legge, da un potere che si accaniva sugli indifesi, sui più deboli. Forse in questo culto si nascondeva la coscienza dell’ingiustizia terrena, la saggezza popolare secondo cui sono sempre i più fragili a pagare per gli altri. Una verità triste, universale, che sembrerebbe eterna.

Da qualche anno, poi, il mito dei Decollati sembra essersi incarnato in altri corpi di perseguitati dalla legge. Proprio in via Decollati, infatti, dall’altro lato della ferrovia, c’è un centro per migranti e richiedenti asilo.

Qui, a due passi dall’antico santuario, sopravvivono decine di africani sbarcati sulle coste della Sicilia. Anche loro sperano che qualcuno li salvi e, come in un Purgatorio, aspettano che qualcuno li tiri fuori dalle fiamme.

Io li guardo camminare sulla via dei Decollati, avanti e indietro. Osservo i loro corpi sulla strada sprovvista di marciapiede e m’appare in visione un’immagine di malaugurio: un’automobile che piomba su di loro, proprio com’è accaduto con il cippo votivo dei Decollati. Un’immagine che evoco per esorcizzare il male, il destino per cui i più miserabili siano condannati a morte, giustiziati per colpe non loro. Un’immagine come un ex-voto, affinché la memoria non sia distrutta e i Decollati tratti in salvo. Chiudo gli occhi. Fischio di treno: buon augurio.


 

PS. Forse bisognerebbe cambiare la chiusa finale in: “Pianto di bambino: malaugurio”.

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1 commento

  1. Il suo articolo e il brano che lo segue mi riportano alla memoria mia nonna (sapeva leggere appena sillabando e si esprimeva quasi per intero in dialetto) mentre pronunciava qualcosa di sonoramente simile a “l’armuzzi appè ddicullati”. La distruzione materiale del cippo e soprattutto sia il conseguente disinteresse delle istituzioni che l’attenzione beceramente elettorale mi sembrano la conferma della volontà di vivere in un opaco, ininterrotto presente senza forma. Forse, ma non è una giustificazione, ha contribuito a quanto Lei racconta anche il fatto che il cippo sia fuori dai Quattro Mandamenti del centro storico, fuori dalla Palermo turisticamente “spendibile”. Ai margini della città si dedica di solito uno sguardo (ancora più) frettoloso, superficiale, distratto.

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