Sotto il vulcano ma fuori luogo con Andrea Bajani
di Davide Orecchio
È uscito da poche settimane il terzo numero della rivista “Sotto il Vulcano”. Il trimestrale diretto da Marino Sinibaldi ospita in ogni numero una parte monografica curata da uno scrittore. Qui è il turno, con “Fuori luogo”, di Andrea Bajani, che ha deciso di ragionare e far ragionare di geografia. «Pensare a un numero geografico di una rivista come “Sotto il Vulcano”, nel 2022 – osserva Bajani introducendo il dossier -, significa rimettere al centro la geografia, cioè la Terra e cosa ne stiamo facendo. La geografia è la nostra cattiva coscienza». Tra gli interventi: un’intervista dello stesso Bajani ad Abdulrazak Gurnah sul tema del colonialismo e una di Marino Sinibaldi a Franco Farinelli sulla geopolitica, un reportage di Maurizio Pagliassotti sulle rotte dei migranti e uno di Angelo Ferracuti sui suicidi assistiti in Svizzera. Mircea Cărtărescu racconta Bucarest, mentre l’autrice messicana Jazmina Barrera rievoca l’Inghilterra, anche attraverso gli occhi del proprio piccolo figlio. Dubravka Ugrešić affronta il tema dei falsi miti, mentre Jhumpa Lahiri riflette sulla geografia in Ovidio. Inoltre: due racconti, uno di David Szalay e uno di Maylis de Kerangal. I testi poetici sono di Cees Nooteboom e Adelelmo Ruggieri. Il graphic novel è di Davide Reviati. Abbiamo rivolto qualche domanda a Andrea Bajani.
***
Hai chiesto a un gruppo di scrittori, poeti, illustratori di disegnare mappe con le parole, di raccontare scene forse “fuori luogo”, ma senz’altro non fuori dalla storia e dalla memoria. Introduci il numero chiedendo dove sia il limite tra ciò che sappiamo e quanto non conosciamo, dove inizi il territorio dell’invenzione nella cartografia narrata del nostro tempo. Dopo avere letto i testi che hai raccolto, questo limite, il punto in cui “sono i leoni”, per te si è spostato? In altri termini, quanto sei rimasto sorpreso dai materiali che hai ricevuto, e per quali ragioni?
Quello della geografia è un rovello che rimane in qualche modo inudibile per anni, nella vita delle persone, ma che poi a poco a poco si fa sentire. Tollerata a scuola, percepita come esornativa e fuori moda, finisce poi per – paradossalmente – diventare una forma di coscienza politica. Se a scuola la geografia sembra soltanto una specie di organizzazione degli spazi del pianeta, via via comincia a essere evidente quanto abbia a che fare con la gestione del potere. I confini tra gli stati nazionali, che apprendiamo disciplinatamente come fossero un fatto di natura, si rivelano nel loro tratto negoziale. Ogni confine è una spartizione, ci sono forze in campo, denaro, eserciti. Mentre scrivo queste parole ce n’è un’evidenza drammatica ai confini tra la Russia e l’Ucraina. I confini, ci dicono queste ore devastanti, li decide e li sposta a piacimento il più forte. Che questo si armonizzi poi con le persone, le lingue, le religioni, la conformazione geofisica di un territorio, importa poco. L’intervista che ho fatto a Adbulrazak Gurnah, mi pare particolarmente rappresentativa, da questo punto di vista: l’Africa, dice l’autore Premio Nobel, ha confini che sono ferite mai completamente rimarginate inferte dalla violenza coloniale del nostro continente – l’Europa. Ecco, quando ho coinvolto gli autori e le autrici che ora firmano i testi del terzo numero della rivista avevo chiaro questo quadro. Conoscevo bene il lavoro di ciascuno di loro – con ciascuno ho concordato il tema, discusso, ragionato – per cui più che la sorpresa c’è stato un lavoro collegiale. Che è il bello di una rivista, come sai, che ognuno porta il suo, ma la tavola è la stessa.
Ci sono motivazioni autobiografiche nella scelta del tema? In fondo sei uno scrittore, da quanto mi sembra di capire, piuttosto errante.
Credo che il mio nomadismo, se così si può chiamare, mi abbia aiutato a vedere, o forse ancora meglio, a fare esperienza della geografia. Che significa la lingua, la cultura, l’educazione, la geografia, l’economia. Altro che manuale delle scuole medie. Il fatto che io abbia vissuto in Germania, in Francia e ora sia a Houston, in Texas, mi ha fatto vedere in maniera politica l’incrostazione politica di ogni metro della Terra. Guidare verso il golfo del Messico per andare al mare e vedere i pennacchi di fuoco delle raffinerie, non è solo un paesaggio industriale texano: ha a che fare con l’America, con la geopolitica, con l’Iraq, con le guerre in corso, con la gestione del conflitto attuale – e dunque anche con l’Europa, con le bollette, con chi si ferma a fare rifornimento a una pompa di benzina sulla via Emilia, o nel centro di Palermo. Il sindaco afroamericano di Houston – e quello che significa per gli Stati Uniti – fa visualizzare immediatamente le navi dall’Africa, la schiavitù, la subordinazione geografica, la repressione – e poi da lì il passo è breve a sentire quante morti ci sono sul fondo del mar Mediterraneo, e sentire quanto questo ci riguarda. Insomma, il mio muovermi sul planisfero sono solo state delle lenti buone per i miei occhiali. Ma tutto questo è riscontrabile anche senza spostarsi troppo da casa, è sufficiente saper leggere il contesto. Le città, le case, le infrastrutture, la viabilità, sono libri sufficientemente chiari da poter essere letti da tutti. I quartieri cosiddetti dormitorio, i ghetti marginalizzati, i palazzoni in cemento armato, le strade dissestate, i centri pedonali rifiniti e ripuliti con sovvenzioni pubbliche, sono lì a rivelare una storia politica. Basta prendersi il tempo per alzare gli occhi a guardare. L’architettura è politica, l’urbanista è politica. Bisognerebbe pubblicare i piani regolatori, gli atti di acquisto delle case, per avere il grande romanzo di ogni epoca.
Alcuni dei testi in “Fuori luogo” mi sembrano sorprendentemente affratellati, come a segnalare dei dialoghi a distanza. Una di queste coppie – ma non so se sei d’accordo – mi pare comprendere la tua intervista a Abdulrazak Gurnah e quella di Marino Sinibaldi a Franco Farinelli. Da entrambe emerge una riflessione comune sulle mappe come specchio deformato di una volontà politica, statuale nel ragionamento di Farinelli o postcoloniale in quello di Gurnah. Quando si parla di mappe e geografia, non si scappa dal confronto col potere.
È vero, lo sono, e per questo dicevo che c’era una forma di collegialità. Forse dovrei dire una piccola comunità, per usare una parola cara a Franco Farinelli, che è in fondo il nume tutelare di questo numero, e tra le persone che oggi con più acume sta leggendo la crisi della modernità in cui siamo sprofondati. Quella comunità nasce dai legami – ecco un’altra parola chiave, senza la quale è impossibile capire la geografia – intellettuali, e umani. Molti degli autori e delle autrici coinvolti sono amici e amiche, e l’amicizia è una cosa seria che si costruisce sull’ammirazione e la dialettica di percorsi che a volte si tangono, a volte si scontrano, a volte scorrono paralleli. Sì, ne parlavo poco sopra, del rapporto tra le mappe e il potere. Le potenze dominanti hanno i cartografi col diritto di parola e di veto sui cartografi delle potenze subordinate. Gurnah ha dedicato un saggio molto bello a Fra Mauro, e un mappamondo disegnato a metà del 1400. Non a caso riflette la visione del mondo della Repubblica di Venezia.
Un’altra coppia la trovo nei due reportage di Maurizio Pagliassotti e Angelo Ferracuti. Molto diversi per tema, ma affini nel proporre una scrittura “pragmatica” della realtà. Sono quasi un controcanto alle pagine oniriche o fiabesche di Mircea Cărtărescu e Jazmina Barrera.
Pagliassotti e Ferracuti sono due reporter puri, pur con storie differenti, quasi opposte. Ferracuti ha scelto il reportage dopo aver constatato una sorta di scacco della ‘finzione’, abbattendo per certi versi lo steccato che almeno in teoria divide il racconto della realtà da quello per così dire di immaginazione – e in definitiva innovando entrambi. Pagliassotti invece è un reporter naturale, non tanto nel senso che arriva dal giornalismo – cosa che nei fatti è vera – ma che è mosso da un istinto naturale. Fiuta, e prima di decidere è già in volo verso la sua preda. I loro due interventi sono centrali, e hai ragione, sono il perno materico del numero. Quello di Pagliassotti è il più letterale, il più direttamente geografico. È impegnato nella ricognizione, per la maggior parte a piedi, della rotta cosiddetta balcanica dei migranti, quelli verso i quali profondiamo retorica e divieti, buonismo e odio mai esperito così ferocemente prima d’ora (come ricorda anche Gurnah nell’intervista). Quando stavamo per chiudere il numero l’ho chiamato ed era in Polonia, al confine con l’Ucraina. Era il giorno dell’incendio alla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Sentiva che doveva farlo, perché il suo scrivere fosse completo. Un low cost da Torino, ed era a due passi dall’inferno. Il pezzo di Ferracuti indaga invece un confine molto più vicino a noi, ma per certi versi incolmabile. Geograficamente si tratta del confine tra Italia e Svizzera, ma il suo sguardo ci porta dentro quel confine tra la liceità di stabilire della propria morte – o del proprio fine vita – e l’impossibilità di farlo. È un testo toccante, disarmante, quel cercare di oltrepassare una dogana per potersene andare, congedarsi definitivamente dalla propria sofferenza.
Il mio pezzo preferito, lasciando da parte Cărtărescu che fa storia a sé, è proprio il racconto di Jazmina Barrera, che si muove con fascino e delicatezza in una Inghilterra utopistica e immaginaria, attraverso gli occhi e le memorie dell’autrice e poi di suo figlio. Anche le riflessioni di Jhumpa Lahiri sulla geografia delle Metamorfosi di Ovidio sono sorprendenti, e confermano una vocazione a viaggiare in terre incognite. Lahiri mi sembra avere un raro talento nel rendere il “fuori luogo” la propria casa. Tu hai dei contributi prediletti? Forse i testi poetici?
Mi piace questo tuo procedere per abbinamenti. Cărtărescu è visionario, la Bucarest che racconta è un corpo che cambia, e il suo viaggio è inarrestabile pur non spostandosi in tutto il racconto che di pochi chilometri. Jazmina Barrera è un talento naturale – mi dispiace usare un’espressione così retorica, ma tant’è, la penso esattamente con queste parole. Le sue ricognizioni del mondo sono diari di viaggio e racconti, travolge qualsiasi distinzione tra fiction e non fiction ma senza intenzione, superando una volta per tutte regole posticce e invecchiate. Lo fa come fosse un respiro. Jhumpa Lahiri ha fatto una specie di gioco di prestigio, scrivere in italiano della traduzione di Ovidio in inglese: già il solo progetto è vertiginoso. Quanto ai miei preferiti, non credo ce ne siano di preferiti in assoluto, ma certo la poesia – dici bene – è quella che sento più vicina in questo momento della mia vita. E il racconto per immagini, in questo caso firmato dal ravennate Davide Reviati, un poeta che disegna, oltre che scrivere. La poesia di Cees Nooteboom è una piccola epifania. Il poemetto di Adelelmo Ruggieri dedicato alle colline a sud di Fermo è in qualche modo una specie di segreto sussurrato dentro questo numero così nomadico. La dignità, la mitezza, la cura che il suo verso e il suo sguardo hanno sono l’unico antidoto alla violenza del presente finanziario, bellico, così spaventosamente incurante del clima, delle altre specie e, checché se ne dica, della nostra.
Quanto tempo e impegno ci sono voluti, per mettere insieme “Fuori luogo”?
Ci sono voluti alcuni mesi. Le prime volte sono state chiacchiere con Marino Sinibaldi, che dirige il complesso della rivista, Federico Bona – il direttore responsabile di “Sotto il Vulcano” -, e Laura Cerutti, editor di Feltrinelli. Avevo le idee molto chiare, forse fin troppo, temevo di finire per essere troppo impositivo. Ma quando c’è ascolto reciproco, non si corrono di questi rischi come sai. Ho iniziato in Nazione Indiana – cosa di cui sono orgoglioso -, e insomma la dinamica di una rivista mi piace, anche se poi ogni organismo fa caso a sé. Ad ogni modo, è un tema che mi batteva e mi batte in testa da molto, e sapevo chi erano esattamente le persone che avrei voluto coinvolgere. Per me sarebbe stato impossibile un numero del genere senza David Szalay, il più cosmopolita degli autori in attività e altro “talento naturale”, Dubravka Ugrešić, una delle voci più importanti della letteratura mondiale, Maylis De Kerangal, che con Nascita di un ponte ci aveva fatto sentire il mappamondo in una storia corale di infrastrutture e sogni di dominio degli esseri umani sul mondo. Questo soltanto per citare alcuni degli autori e delle autrici che ancora non erano finiti nella ricognizione di questa nostra conversazione. Dialogare con loro, ascoltarli, concordare gli argomenti, e poi ricevere, leggere avidamente, constatare tutto lo scarto che c’è tra le idee dette a voce e poi quel risultato sbalorditivo che ogni volta la scrittura produce di per sé. Quell’unico modo che abbiamo veramente di pensare, noi malati di quel gioco pericoloso che è far interagire le parole con il mondo.
Wow. Dico sul serio. E lo dico da architetto, scrittore e psicogeografo. Wow!