Di Crollalanza D’Annunzio, un’amicizia impossibile
di Nicola Fanizza
( è uscito il saggio di Nicola Fanizza Araldo di Crollalanza, Un ministro all’ombra del duce, ed. Progredit, 2021, euro 20, ne pubblico un capitolo per gentile concessione dell’editore)
A volere la Gardesana, la strada che avrebbe consentito di raggiungere il Vittoriale, fu Gabriele d’Annunzio. Ne parlò al duce fin dal 23 marzo 1925: «Tu sai che non v’è una salda e rapida via a collegare la liberata Venezia tridentina e la regione lombarda, la veneta, la padana, l’emiliana». Poi un’osservazione: «Le vie fra Bolzano e Brescia, per la Val Camonica, per Val Giudicaria e Val di Ledro, sono troppo lunghe e faticose. Tutte superano i dugento chilometri mentre la distanza tra Brescia e Bolzano in linea d’aria è di 140 e nessuna favorisce l’attività crescente delle città ricongiunte alla madre patria». Ed ecco la sua garanzia: «Ho esaminato con l’attenzione che mi conosci il disegno della nuovissima via studiata dagli ingegneri benacensi Riccardo e Italo Cozzaglio. È compiutamente lodevole».
Deve però arrivare il settembre 1928 perché venga approvata la costruzione del «Meandro», come il poeta denominerà la nuova strada. Il via ai lavori venne dato solo nel febbraio 1929. Quando nel 1930 di Crollalanza diventerà ministro dei Lavori Pubblici, sarà costretto a prendersi cura non solo della strada in salita che portava alla villa di Cargnacco, bensì anche dei lavori inerenti alla costruzione del Vittoriale e di quelli per la casa della madre del poeta a Pescara.
Tale costrizione traspare dalle parole di Onda di Crollalanza, figlia di Araldo, la quale in un’intervista del 2013 dice che suo «padre accontentò d’Annunzio promuovendo la costruzione del Vittoriale anche perché era sollecitato dall’alto, quel monumento si doveva fare […]. Il Vittoriale si doveva fare anche con i suoi eccessi».
Tutto ciò avveniva per esplicita volontà di Mussolini ed era frutto di un tacito accordo fra il duce e lo stesso d’Annunzio: in cambio della sua autoemarginazione dalla scena politica, a partire dal 1924-25, il Poeta-Soldato avrebbe ottenuto diversi privilegi. Così, d’Annunzio otterrà una sorta di stipendio legato alla vendita dei suoi manoscritti allo Stato; percepirà, inoltre, gli introiti legati alla vendita delle sue opere, pubblicate dal Poligrafico dello Stato; e, soprattutto, otterrà i finanziamenti per la costruzione del Vittoriale e per il risanamento della sua casa a Pescara.
Eppure, prima della sua resa, Mussolini aveva temuto che il Comandante potesse passare all’opposizione. Il duce non sottovalutava d’Annunzio, riconosceva le sue straordinarie qualità e soprattutto era consapevole del seguito su cui poteva contare all’interno dello stesso movimento fascista.
Sapeva che il Comandante aveva manifestato il proprio rancore nei suoi confronti: non gli aveva perdonato di averlo abbandonato durante il «Natale di sangue». Il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 aveva dato al governo italiano la possibilità di risolvere la spinosa questione di Fiume attraverso l’uso della forza. Cosa che avvenne nel giorno nella vigilia di Natale quando la Regia Marina bombardò la città. Fu lo stesso d’Annunzio a coniare l’espressione «Natale di sangue» per indicare il lasso di tempo in cui infuriò l’impari lotta tra l’esercito e i legionari. La battaglia durò cinque giorni, morirono 22 legionari, 5 civili e diversi soldati del Regio Esercito. D’Annunzio durante l’assedio coltivò la speranza che Mussolini si spendesse per la causa di Fiume e non vedendolo arrivare se la legò al dito.
Sta di fatto che da uomo politico scaltro qual era, Mussolini non se l’era sentita in quell’occasione di mettere a repentaglio l’esistenza dei fasci di combattimento e la sua stessa carriera politica.
Le loro strade si divisero e continueranno a non intrecciarsi. Un mese dopo la fine dell’impresa fiumana, nel febbraio 1921, d’Annunzio giunse la prima volta a Gardone. Il suo soggiorno sul lago di Garda doveva durare solo alcuni mesi – per completare la stesura del suo ultimo romanzo! –, mentre oggi sappiamo che quella sul Garda sarebbe diventata la sua ultima e definitiva dimora. Allora aveva cinquantasette anni, era mezzo cieco e persino le sue energie erano state fiaccate da cinque anni di attività spossanti. Il tempo della lotta per lui si era concluso a Fiume. Voleva darsi solo all’arte. Scrisse a un amico: «Sono morto a ogni politica».
Il ruolo che egli aveva avuto, con la sua trascinante oratoria, nelle «radiose giornate» di maggio, la partecipazione alla guerra, la «beffa di Buccari», il volo su Vienna, la taglia dell’Impero austro-ungarico sulla sua testa avevano creato intorno alla sua figura un alone di eroismo destinato a protrarsi sin dopo la fine della guerra. La stessa impresa di Fiume e i sedici mesi dell’occupazione della città avevano contribuito ad alimentare lo splendore della sua immagine.
D’Annunzio appariva come un leader autorevole. Godeva di un enorme prestigio sia presso i militari sia presso diversi settori politici: dalla destra nazionalista e fascista alle frange della sinistra estrema. Erano con lui i sindacalisti rivoluzionari come Di Vittorio e persino alcuni comunisti come Antonio Gramsci e Nicola Bombacci.
Non fu certo un caso che nell’agosto 1921 Grandi e Balbo fossero andati a trovarlo al Gardone per offrirgli la guida del movimento fascista.
Quella sarebbe stata per lui l’ultima occasione per giocare un ruolo decisivo nella storia italiana. Il Comandante aveva preso tempo. La proposta poteva anche essere allettante, poteva consentirgli di regolare i conti con Mussolini, il quale nel «dicembre di sangue» lo aveva tradito. Tuttavia, non se l’era sentita di mettersi alla testa del fascismo più retrivo.
Dopo il colpo di mano di Mussolini dell’ottobre 1922, d’Annunzio si era reso conto che con l’avvento del fascismo al potere gli erano rimaste ben poche possibilità per tornare protagonista sulla scena politica nazionale.
Mussolini era riuscito a ottenere la sua neutralità, promettendogli che si sarebbe adoperato per promuovere l’unità sindacale fra la film (Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare) e i sindacati fascisti. L’unione sindacale, tuttavia, non si realizzò per l’ostilità dei settori più intransigenti del sindacalismo fascista, i quali non volevano in alcun modo rinunciare al monopolio della rappresentanza dei lavoratori.
D’Annunzio si rese conto di essere stato preso in giro già a partire dal febbraio 1924, quando venne a sapere che il suo amico Giuseppe Giulietti era stato defenestrato dalla guida della film. Fu allora che d’Annunzio cominciò a manifestare il rimpianto e soprattutto la delusione per l’amara conclusionedella sua avventura a Fiume. Sentiva di non avere nulla a che fare con il fascismo.
Mussolini non aveva creato nessun nuovo ordine, non aveva promosso nessuna Lega dei popoli oppressi; la Carta del Carnaro per il duce era rimasta lettera morta, una semplice prova letteraria.
Tutto ciò veniva portato a conoscenza di Mussolini, il quale ritenne possibile che d’Annunzio potesse passare al contrattacco. Le sue parole furono interpretate come un segnale della sua ostilità nei confronti del regime. Da qui il cambiamento della tattica di Mussolini per mettere sotto controllo il Poeta-Soldato. Il duce si era reso conto che non bastavano più le solite promesse. Senza rinunciare a queste ultime, era necessario aggiungere ai riconoscimenti formali (il titolo di principe di Montenevoso) e alle blandizie, capaci di sollecitare la sua vanità, gli interventi più concreti.
D’Annunzio era stato per molti versi il suo maestro. Mussolini aveva condiviso il suo nazionalismo e si era ispirato a lui per quel che riguarda l’estetizzazione della politica. Guardava, però, con diffidenza alla sua parte maledetta, a ciò che si situava nel suo cono d’ombra: le istanze libertarie e di democrazia diretta che il Comandante aveva veicolato attraverso la Carta del Carnaro.
Da qui la sua famosa battuta: «D’Annunzio è come un dente cariato: o lo si estirpa o lo si copre d’oro».
E per d’Annunzio fu scelta la seconda opzione; non era certo pensabile eliminare fisicamente un eroe della grande guerra, mentre era consigliabile neutralizzarlo, favorendolo economicamente nella sua vita dispendiosa.
D’Annunzio chiese e ottenne continuamente per sé e per i suoi familiari e amici tanti piccoli favori. Il duce non poteva non esaudire i suoi desideri. Il Poeta-Soldato era sempre pronto a ricorrere alla solita minaccia che comportava il suo esilio.
A proposito di tali minacce, giova ricostruire quanto accadde nel marzo 1928. La rappresentazione da parte della compagnia di Tommaso Monicelli di alcune opere dannunziane aveva suscitato il biasimo di alcuni predicatori cattolici. Il poeta reagì inviando una lettera a Monicelli in cui denunciava la «persecuzione clericale». La missiva, pubblicata sul «Popolo di Brescia», fu, però, sequestrata dal prefetto per le espressioni giudicate sconvenienti. Subito dopo, l’8 marzo 1928 giungeva a Giovanni Rizzo, il poliziotto che lo controllava, la reazione di d’Annunzio:
Caro amico?
Accade qualcosa che non esito a giudicare ignobile. Svillaneggiato da grassi predicatori e rivendicato dall’amore del popolo, iersera scrissi una pagina. La pagina è sequestrata. Sa nulla? Se ne lava le mani? Contro il “pilatismo” io sono costretto a chiedere oggi una dichiarazione netta del Capo. La esigo. Si afferma che l’ordine viene dal Palazzo Chigi, dov’è stabilita la pinguedine del cardinale Gasparri. Attendo la dichiarazione per sapere se mi convenga trasmigrare nell’Austria di Monsignor Seipel.
Dalla lettera si evince che d’Annunzio fosse a conoscenza delle trattative fra il governo italiano e il Vaticano per pervenire alla Conciliazione. Mussolini a sua volta sapeva che la trattativa stava per concludersi, e non voleva compromettere le trattative iniziate nel 1923 con il cardinale Gasparri a causa di d’Annunzio. Pertanto, si era come al solito giustificato asserendo che si era trattato di un «equivoco», di un «eccesso di zelo» e che il sequestro non doveva essere messo in relazione con la «pressione di vescovi».
D’Annunzio non rimase soddisfatto della risposta di Mussolini. Sospettava che quest’ultimo si fosse adoperato per non far circolare i suoi libri. Per di più, nel mese di giugno dello stesso anno, venne a sapere che la Congregazione del Sant’Uffizio aveva messo all’Indice tutte le sue opere. Mussolini, però, non credeva affatto che d’Annunzio volesse per davvero lasciare l’Italia come aveva lasciato intendere nella lettera che aveva inviato a Rizzo.
Sapeva che d’Annunzio reagiva ai controlli solo quando il morso della censura lo prendeva alla gola e gli impediva di respirare l’aria di libertà a cui aveva volontariamente rinunciato. Così il Poeta-Soldato si ritrovò probabilmente a fruire gratuitamente non solo dei lavori per la costruzione del Vittoriale, bensì anche dei finanziamenti derivanti dalle economie sugli stessi lavori. Tutto ciò lo si evince da una nota del ministero del Lavori Pubblici. Di Crollalanza con tale documento premeva per l’invio di un promemoria a Mussolini per sollecitare se vi fosse la «possibilità di corrispondere a G. d’Annunzio le economie fatte sui lavori del Vittoriale».
Il tema che pervade le prime lettere del carteggio fra d’Annunzio e di Crollalanza non è quello delle «economie», bensì quello, come vedremo fra poco, del «Meandro». Intanto, va precisato che il carteggio, che pubblichiamo in Appendice, è composto da undici lettere e cinque minute di telegramma inviate da d’Annunzio a di Crollalanza; nonché da sei lettere e quattordici telegrammi inviati da di Crollalanza a d’Annunzio.
Di Crollalanza aveva inviato una missiva a Gabriele d’Annunzio già nel novembre 1919, quando gli offrì, inutilmente, la candidatura alle elezioni politiche nel collegio di Bari, ma in quell’occasione non aveva ricevuto alcuna risposta. Lo stesso accadde nel 1928, quando, come podestà di Bari, gli inviò una comunicazione incentrata sulla commemorazione di Niccolò Piccinni in occasione del secondo centenario della nascita.
Lo scambio epistolare vero e proprio fra d’Annunzio e di Crollalanza iniziò solo a partire dal 1° maggio 1930, quando quest’ultimo aveva già assunto la carica di ministro dei Lavori Pubblici.
Il Comandante era solito attribuire nuovi nomi alle persone con cui entrava in contatto. Si trattava di nomi legati alle loro specifiche attitudini o alle loro professioni. E anche la prima lettera che egli aveva inviato a di Crollalanza conferma questa sua particolare disposizione. Il ministro dei Lavori Pubblici, proprio perché era «tutelare della via novissima in salita verso il Vittoriale», gli ricordava le «deità dei Lares viales, tutelari delle antiche strade». E pertanto lo chiamava: «viale».
Dice inoltre che anni addietro aveva italianizzato Will Shakespeare (shake = scuotere, scrollare; spear = lancia) con Guglielmo Scotilancia. E che il suo «nome gli dava una parola ancora più italica e arcaica: Crollalanza».
E tuttavia non si dimenticava di proporre al ministro il nome dell’ingegnere che avrebbe desiderato fosse nominato per la direzione dei lavori della strada che in salita doveva portare al Vittoriale.
Un desiderio che venne subito soddisfatto. Lo apprendiamo dalla lettera di risposta che il ministro dei Lavori Pubblici gli inviò ventitré giorni dopo. Qui, in riferimento alle origini del suo cognome, Araldo chiamava in causa suo padre e suo nonno. I due «appassionati e ineguagliabili» studiosi di araldica avevano già colto nelle loro pubblicazioni l’analogia di cui gli aveva parlato d’Annunzio. Il poeta nella sua lettera aveva toccato un tema che gli stava particolarmente a cuore. Di Crollalanza, pertanto, non si lasciò sfuggire l’occasione per descrivere le origini nobiliari della sua famiglia.
Le lettere e i telegrammi danno conto delle richieste che il Comandante continuamente avanzava e della tempestività con cui il ministro dei Lavori Pubblici lo informava in merito alle determinazioni di legge che il governo assumeva a suo vantaggio.
D’Annunzio riteneva che tali vantaggi gli spettassero, poiché si configuravano come una ricompensa per quello che aveva fatto per l’Italia:
io ho dato all’Italia non soltanto Fiume e Zara ma tutto il Confine giulio. Questo è accertato con documenti militari e diplomatici, inoppugnabilmente. Questo è storico, se giovi adoperare una parola oggi abusata e, ahi!, insignificante.
Ora è impedito al Principe di Montenevoso, con spregevoli angherie burocratiche, il compimento dell’opera intrapresa a dimostrazione di una lunga vita operosa e coraggiosa.
Il ministro doveva riparare pure i grossolani errori «sentimentali», commessi contro la sua «nobile memoria»: nella ristrutturazione della sua casa di Pescara occorreva:
lasciare intatte alcune particolarità puerili che sembravano appartenermi come il lento formarsi delle mie ossa, come le lividure e le scorticature segnato ne’ miei urti e ne’ miei capitomboli.
Di Crollalanza non era da meno quando ricordava al poeta il «superbo Lungomare Nazario Sauro che io volli costruire per molti chilometri, per gettare le basi della nuova metropoli mediterranea».
Tali considerazioni vengono ignorate dal Comandante. Benché avesse visitato Bari e il suo Lungomare nel dicembre 1931, d’Annunzio nelle sue lettere non ne parla. Forse il suo era un silenzio eloquente!
La visita era avvenuta in occasione del suo viaggio in Puglia per commemorare l’impresa del 4-5 ottobre 1917, quando d’Annunzio con la sua squadriglia aveva spiccato il volo da Gioia del Colle per andare a bombardare la flotta austro-ungarica presso le Bocche di Cattaro. Tra andata e ritorno, avevano volato di notte per quasi mille chilometri e per l’orientamento i piloti si erano affidati alle bussole e forse anche alle stelle.
Il Comandante si era recato presso l’aeroporto di «Gioia della Vittoria» – così il poeta l’aveva ribattezzata –, poiché da quel «campo», con la sua «squadriglia temeraria», doveva raggiungere nuovamente le Bocche di Cattaro.
Nei giorni precedenti alla partenza per Cattaro e in quelli successivi al suo ritorno, d’Annunzio soggiornò nella villa di Tommaso Cassano, ubicata a Cozze (frazione di Mola). Cassano era un grosso proprietario di Gioia del Colle, e la sua famiglia aveva già ospitato il Comandante nel 1917. Chiamato in causa per aver partecipato all’assassinio del deputato socialista Giuseppe Di Vagno, fu assolto nel processo che si tenne nel 1922 presso la Corte d’assise di Trani per «non aver commesso il fatto». Tuttavia, nel secondo dopoguerra, con la riapertura delle indagini, fu rinviato nuovamente a giudizio come complice nell’omicidio. La Corte d’assise di Potenza il 31 luglio 1947 dichiarò, infine, «non doversi procedere» contro Cassano, poiché il reato di «complicità non necessaria» era «estinto» per l’amnistia, promossa da Togliatti.
I due sedicenti amici non avevano la stessa concezione dell’arte. Il ministro si richiamava ai canoni dell’estetica fascista e in questo senso affermava che il Vittoriale rappresentava la «luminosa dimostrazione dell’ineguagliabile maestria creativa di quegli artefici italiani che, senza rinnegare il passato, lo sapevano far vivere nel presente e potenziare nell’avvenire».
Un giudizio, questo, che non poteva essere condiviso dal «trasvolatore di Cattaro», il quale si richiamava, invece, alla paganità come espressione di un ideale di vita intensa e attiva e come culto della forza e della bellezza. In questo senso il poeta vedeva nella «Centrale elettrica» rivana, costruita da Gian Carlo Maroni, un’esaltazione della «Regola della forza». Il suo amico architetto percepiva:
quel che sentirono ed espressero i Greci o talvolta gli Italiani del Rinascimento e i Francesi del XIII secolo: l’armonia delle masse e dei vuoti, l’eleganza dei rilievi profondi e semplici, la stupenda lotta della luce e dell’ombra in un’architettura immune d’ogni sforzo senza ragione e d’ogni forma plastica che non sia architettonica e quindi necessaria […]. Qui tutte le linee indicano la destinazione di tutte le forze e di tutte le resistenze
Il giovane architetto gardesano aveva partecipato valorosamente al recente conflitto, venendo ferito gravemente. Il suo ruolo nella realizzazione del Vittoriale fu rilevante. Maroni, «Magister de vivis lapidibus» (Io son maestro delle pietre vive) – come d’Annunzio lo chiama indirettamente in causa in una lettera del dicembre 1932 –, era in realtà un occultista. La drammatica esperienza della ferita in guerra e il lungo periodo in cui era rimasto sospeso fra la vita e la morte lo avevano convinto di essere un morto resuscitato. L’architetto era persuaso di ricevere nottetempo la visita di personaggi di altre età e di «poter comunicare in modo telepatico con d’Annunzio».
Quando poi il poeta e il ministro passano dai concetti agli affetti, le loro parole appaiono consunte e logore. Per non parlare della retorica del loro patriottismo: l’amuleto di bronzo regalato da d’Annunzio al ministro diventa simbolo della «Vittoria, che protende dalla prua della nave Puglia»; a sua volta, di Crollalanza rivendica la «passione adriatica» della sua «terra che, nelle alterne vicende della storia, seppe creare la prima e la più grande civiltà italiana».
La comunicazione fra i due presunti amici non è mai autentica. Sia l’uno che l’altro sono incapaci di mettersi in gioco. Sono diffidenti. I loro dialoghi sono sempre formali. L’ipertrofia dell’io di cui sono affetti sia l’uno che l’altro impedisce loro di autoridursi, di far posto all’altro da sé.
La vanità di d’Annunzio – l’«artiere di tutte le arti» – e, insieme, il suo disprezzo per la volgarità emergono in modo particolare dalla lettera che egli aveva inviato, in data 25 luglio 1933, al ministro. D’Annunzio mostra di essere grato nei suoi confronti, poiché aveva avuto il merito di disporre la distruzione dell’«immonda taverna». Quest’ultima disonorava la porta del Vittoriale; ossia d’«un luogo pieno di reliquie adorabili, di cimeli preziosi e di settantamila volumi (raccolta che ormai è fuor d’ogni paragone) ordinati e in gran parte annotati da me».
Particolarmente interessante è l’incipit della lettera che d’Annunzio inviò, nel febbraio 1932, al ministro dei Lavori Pubblici. L’atto con cui il poeta donava una copia del Dantes adriacus a di Crollalanza si configurava come un gesto che probabilmente aveva una connotazione simbolica.
Nel 1921 Adolfo de Carolis aveva inciso per il sesto centenario della morte di Dante una piccola xilografia dell’Alighieri allo scrittoio, cui seguirà un grande ritratto frontale di Dante che medita sulla Divina Commedia. D’Annunzio intervenne per acquistare il ritratto, e lo ribattezzò Dantes adriacus in ricordo dell’impresa fiumana e lo collocò nella biblioteca del Vittoriale.
La xilografia evocava pertanto il suo legame spirituale con Dante – la «santa lampada» – e, insieme, con Fiume, la città di vita. Un’immagine ambivalente: il riferimento a Dante, con la sua predilezione per l’Impero, legittimava la politica imperialistica del duce; l’evocazione dell’impresa di Fiume, in cui era sorta l’internazionale dei popoli oppressi, invece, revocava in causa la stessa politica estera di Mussolini che, con la rivendicazione del Mare nostrum, era ostile al mondo slavo. Tutto ciò può sembrare contraddittorio, genera ambiguità. E tuttavia solo i grandi artisti possiedono la straordinaria capacità di unire gli opposti!
L’ostilità nei confronti della politica estera dell’Italia fascista verrà comunque rimarcata da d’Annunzio nel 1936 in occasione della guerra contro l’Impero etiopico e l’anno dopo, nel 1937, quando si recherà a Verona per manifestare a Mussolini il suo dissenso nei confronti dell’alleanza fra l’Italia e la Germania nazista.
Benché d’Annunzio affermi che il Vittoriale fosse un luogo in cui il «Grazie» da anni era stato «fieramente abolito», la sua relazione con il ministro non stazionava nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e insieme della libertà, bensì in quella dell’utilitarismo.
La tendenza a rimarcare la loro amicizia tradisce la fragilità del loro legame, che era ancorato al mero interesse. Non è un caso che a partire dal gennaio 1935, con l’avvento di un nuovo ministro alla guida del dicastero dei Lavori Pubblici, termini anche il loro rapporto epistolare.
Probabilmente non si vedranno mai più. Sappiamo, però, con certezza che l’annuncio della morte di d’Annunzio non commosse Mussolini. Lo dice Galeazzo Ciano, il quale annotò negli appunti del 2 marzo 1938 – il giorno successivo alla morte del poeta – di averne parlato con il duce. Quest’ultimo si era soffermato sul modo in cui gli era stata comunicata la notizia. Il prefetto Giovanni Rizzo gli aveva telefonato, comunicandogli l’accaduto con queste parole: «Duce, ho il dolore di darvi una buona notizia!».
D’Annunzio rappresenta quanto di più lontano possa esserci dagli artisti di oggi. Un bene o un male? Lascio commentare a voi.