Alla gente i passaporti continuano a scadere
di Gabriele Esposito
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Il campanello suona alle tredici e trentaquattro.
Acqua che scorre a cento gradi tra la ruggine dei tubi del palazzo; di là, passetti di coleotteri scuri in fuga verso bui d’intercapedini sconosciute. Lascio la pasta ferma nello scolino di plastica, cammino verso la porta. Lento, il vapore scompare alle mie spalle: so che il pranzo si impaccherà.
L’uomo davanti a me indossa una cravatta a pallini sopra una camicia color vinaccia. Fazzoletto a quattro punte nel taschino della giacca.
Lo guardo negli occhi, ci trovo riflesso il mio volto. Lui guarda nei miei, scopre l’immagine di se stesso.
Ho il passaporto in scadenza: me lo fa capire col sorriso a labbra serrate. Accenno un sì, gli faccio il gesto di accomodarsi, Venga dentro che fa freddo, la poltrona è ancora comoda, sa, è di quelle in pelle: quelle di una volta.
Capisco subito che il mio ospite è qualcuno che sa distinguere la roba buona, uno che i vuoti delle case li vede, li vive; uno che ci sguazza all’interno e non prova mai l’angoscia che si sente forte, qui dove ovunque manca il respiro.
L’uomo valuta il mobile per qualche secondo, ci si siede piano, un sospiro che vira alla risata, quindi affonda i gomiti sui grandi sovrabraccioli. Batte il pugno sul petto, all’altezza del cuore.
È pronto per la transazione.
Lo lascio per un attimo nell’estasi della comodità residua, vado di là e me ne accerto, è vero: ha ragione lui, il passaporto scadrà la settimana prossima. Un martedì come tanti.
Torno nella stanza, quella che tempo fa era il soggiorno dell’appartamento.
Guardi, le ho portato i moduli necessari, lo dice piano, senza un accento, nessuna esitazione. Me li porge sfilandoli da una cartelletta di tipo omologato.
Indosso gli occhiali da presbite e controllo, sembra tutto a posto: il nome è il mio, la data e il luogo di nascita corrispondono. Sono io. E poi la firma, la firma è quella di certo, mi appartiene: elegante, pochi ghirigori, inchiostro nero di una volta, stilografica – di sicuro. Non molto leggibile. Ma è così da sempre: mai avuto una scrittura chiara, io.
Gli rendo le carte e sorrido, del resto lui continua a farlo nei miei confronti. Mi siedo anche io, nella poltrona di fronte, gemella, regali di nozze, tra i pochi che mi rimangono. Unici elementi di decoro ancora presenti nel grande vano.
È il mio turno di installare i gomiti sui grandi sovrabraccioli.
Ecco le sue foto, dice. Mi allungo, prendo il plico dalla mano del funzionario. Rompo il sigillo in ceralacca, crac, un piccolo orgasmo irreversibile. Dalla busta vengono fuori quattro immagini formato tessera: è la mia faccia, una faccia da idiota, succede quando non si sorride. Cristiana lo diceva sempre, quando ancora potevamo dirci cose, quando ancora ci si poteva insultare ridendo. E poi il colletto della camicia è giallo, mi sarebbe piaciuto un colore più consono, le mie erano solo bianche o azzurre.
È a norma di legge. È il tale a dirlo, mi scruta nella mente, ci sa fare, conosce l’ambiente. Tutto è a norma di legge. Non si preoccupi.
Vuole un caffè? Mi alzo senza aspettare la risposta. Do un’occhiata alla pasta che ormai è del colore della camicia in foto: cibo per cani. Butto via, poi metto a bollire un altro pentolone pieno d’acqua. Metto a bollire la moka. La guarnizione andrebbe cambiata se potessi, fa delle croste brutte tutto attorno alla giuntura. Profumo di polvere e gomma bruciata.
Il caffè è nero, lo beviamo in silenzio, così, senza zucchero, caldo, con la più grande attenzione a non macchiare le poltrone. Lui, se possibile, mette anche più cura di me nell’operazione. Dal taschino interno della giacca estrae un sottobicchiere, lo appoggia piano vicino al suo avambraccio sinistro, in bilico sulla morbidezza, come fosse la carezza data a un seno, il pizzicore d’un capezzolo; quindi ci piazza sopra la tazzina vuota. L’impronta del liquido rimasta all’interno è a forma di cuore.
Le foto vanno bene, non serve guardare oltre, ci sto lasciando sopra la forma delle dita. Gliele restituisco.
Tra di noi ancora molti cenni del capo, sorrisi. Noto che ha i denti del colore della camicia. No, non vinaccia. Intendo sempre la mia camicia, quella della fototessera. È forse l’unico difetto dell’uomo: immagino che beva un caffè in ogni casa visitata: il sottobicchiere ha molte tacche, quelle di un cacciatore di taglie.
Vuole ascoltare della musica? Sorride ancora una volta. Significa sì.
C’è poca scelta tra i dischi che mi rimangono, ormai da giorni ascolto sempre e solo la Processione di Elsa verso la Cattedrale, un brano del secondo atto del Lohengrin, l’opera di Richard Wagner. Un arrangiamento per legni temo non voluto dal compositore, roba da flauto, tanto flauto. Mi ricorda la voce di questo signore. Mi ricorda le voci di tutti questi signori. Voci flautate. Velluto. Elsa che entra in chiesa, con abito di velluto? O era Cristiana con il suo vestito? Forse. Un velluto bianco. Voce bianca. Legni, tanti legni. Le assi del soppalco di castagno scoppiettano sotto i nostri movimenti lievi.
È il funzionario che parla o è l’orchestrina che suona, mi perdo nell’ascolto. L’acqua bolle di nuovo.
Lui si alza ancora una volta dalla poltrona, quella di pelle. Chi me l’ha offerta deve averla pagata più di un mese di lavoro, quella volta. Se ancora potesse chiedermelo gli direi anche che ne è valsa la pena perché davvero è comoda, e il mio ospite gradisce. Si vede.
Si alza e mi porge il libretto che fino ad allora era rimasto nella tasca dei pantaloni di fustagno. Secco, sbatte via la polvere accumulatasi tra le pieghe del tessuto. Da molto tempo nessuno si sedeva lì.
Guardo il passaporto nuovo: la foto è la stessa, quella dove indosso la camicia gialla come i denti di chi beve troppo caffè. Ne vuole un altro? Ringrazia, ma no. Io nemmeno, ché ancora devo mangiare. Devo ancora mangiare, mi dice lui. Siamo in pausa pranzo, del resto. Gli chiedo se vuole una pasta. Non può: è in servizio.
Sfoglio il passaporto, le pagine seguenti ai dati anagrafici sono bianche, bianche come il vestito da sposa di Elsa che fa il suo ingresso nella Cattedrale, come quello di Cristiana in chiesa, bianche così come resteranno in futuro, per sempre. Imperitura bellezza.
Lui mi ringrazia, e io ringrazio lui, e ci alziamo e ci diamo la mano, e per poco anche non copuliamo da quanta sintonia c’è, proprio lì, potremmo unire i divani, ma capisco che il tempo per mettersi le mani addosso, esplorare lo sconosciuto, innamorarsi l’uno dell’altro, non c’è più. L’atmosfera ci sarebbe, la casa è vuota come l’essenza di entrambe le nostre vite, si attraggono interstizi e falangi come poli opposti; il riverbero della luce sulle pareti farebbe brillare così bene due corpi nudi intrecciati.
Lui, purtroppo, ha la faccia di uno che per mestiere esita, e sappiamo entrambi che non ci sono tende alle finestre, vediamo entrambi la vicina che ci saluta con la mano già da qualche minuto. Rispondiamo al cenno con educazione, all’unisono. Solidarietà sociale.
Alla fine esito pure io, tanto che il momento è perduto, il flauto continua a suonare, io devo mangiare, lui ha di sicuro ancora lavoro da fare. Non come me. Non come la vicina.
Alla gente i passaporti continuano a scadere.
Lo accompagno alla porta.
Stavo per dimenticarmi, dice. Estrae il portafoglio di pelle dal taschino posteriore dei pantaloni. Estrae dal portafoglio di pelle due banconote da cinquanta soldi appena stampate dalla banca centrale. O perlomeno stirate per l’occasione, ma con molta cura. Me le porge.
Ringrazio. Chiudo la porta.
Faccio qualche passo verso la cucina, poi lui bussa di nuovo, apro: Dimenticavo: la ricevuta. La guardo per qualche secondo: anche lui ha davvero una bella firma, anche se poco leggibile. Come la mia. Saluti.
Torno alle cose. L’acqua bolle: ci verso dentro un etto e mezzo di bucatini e aspetto in silenzio, in piedi, che il tempo passi.
I documenti sono un po’ come le persone: dopo un certo tempo… Non c’è più tempo. Bisogna chiedersi dunque come lo spendiamo questo tempo che abbiamo a disposizione… Spesso ci dimentichiamo che potrebbe non bastare.