La guerra e la Champions League
di Pasquale Palmieri
Perdi l’ultimo brandello di speranza quando ti accorgi che la guerra è raccontata come se fosse una partita di Champions League. Accade sui giornali, in televisione, sui social, al bar o al mercato. “Stanno perdendo”, “si ritirano con la coda fra le gambe”, “prendono botte da orbi”. Persino lo sberleffo ha fatto capolino nei nostri linguaggi quotidiani da qualche settimana a questa parte, insieme alle scommesse e alle previsioni sul “risultato finale”. Le parole di un noto scrittore (nonché firma prestigiosa del “Corriere della Sera”) pronunciate il 27 aprile davanti alle telecamere di “Otto e mezzo” erano solo una spia di una tendenza più ampia: “Non c’è storia, è abbastanza evidente come va a finire. Vinciamo noi questa guerra. Quindi, calma”.
Le stragi o le atrocità non mettono un freno alla nostra progressiva fanatizzazione. Non ci spingono a esercitare la “pìetas”, la cura dell’altro, del più debole. Al contrario, ci inducono ad amplificare l’alfabeto della violenza. Esistono i criminali di guerra, i mostri, i vendicatori, e continuiamo a concentrarci solo su di loro, come se non ci fossero altre esistenze degne di attenzione. Ma ci siamo mai chiesti quali persone vanno a comporre la grande maggioranza dell’esercito russo? Sono spesso ragazzini, poco più che adolescenti, impauriti dalla loro stessa ombra, nati sotto un dittatore, trascinati nell’invasione folle di un territorio ormai ridotto in macerie. Sono vittime dell’imperialismo del loro leader, proprio come gli Ucraini aggrediti. Sono vittime degli imperialismi che insozzano il pianeta, insieme a troppi altri esseri umani.
Lo ha spiegato di recente anche lo storico Giovanni Savino nel suo “Diario russo”, pubblicato a puntate da “Doppiozero”. Uno degli esempi più eloquenti arriva dalla Repubblica del Daghestan, nel Caucaso settentrionale, che può contare sul triste primato del pianto con circa 150 soldati caduti, senza prendere in considerazione quelli sfuggiti ai censimenti o dimenticati (spesso di proposito) dalle fonti ufficiali. Le cronache locali sono reticenti sulle cerimonie funebri, ma non riescono a nascondere la nascita di nuove aree cimiteriali dedicate ai militari. “In questa cornice – scrive Savino – la retorica bellicista, il militarismo inculcato a piè battente, le fanfare della propaganda approdate definitivamente nelle scuole e nelle università, risultano essere ancor più inquietanti. Un culto della vittoria a ogni costo, dove il sacrificio è annullato perché a morire sono i perdenti, in un’ottica trionfalistica da manager in mimetica, si coniuga alla necessità di altri uomini da mandare al fronte”.
Abbiamo quindi bisogno di ribadire l’ovvio: la guerra non è una partita di calcio, né un incontro di pugilato. I soldati non scendono in campo per consentire a noi altri di sederci sugli spalti a fare il tifo. Non fanno “melina”, non subiscono il “pressing”, non conoscono il “contropiede” o il “fuorigioco”, non “abbassano la guardia”, non si “chiudono in difesa”, non incassano “botte da orbi” per poi rialzarsi, contare i lividi, e aspettare il round successivo. Hanno armi potentissime. Le hanno tutti, indipendentemente dai distintivi che appaiono sulle loro divise. Tengono in piedi con il loro sangue una delle industrie più fiorenti del nostro mondo. E muoiono.
Purtroppo va sempre di moda il cinismo e l’empatia è sempre più rara, anzi: direi che è passata di moda.
Si guarda al concreto, al misero nostro orticello spelacchiato: “Avete visto quanti aumenti al supermercato?”, “E se ci sospendono il gas come ci riscalderemo?”.
Come aveva previsto Pasolini, siamo diventati dei semplici consumatori, eterodiretti dalla pubblicità dei prodotti di poche, pochissime ormai, grandi famiglie che sono proprietarie della maggior parte delle risorse del paese.
Si “guarda” la guerra alla TV anche un po’ annoiati, come fosse una fiction.
È sempre bene ripeterle, certe cose. Cresciamo assediati dal mito della vittoria (e anche della sconfitta eroica, del tipo: i ragazzi hanno dato tutto, faccio i complimenti al vincitore), ma non possiamo viverle se non per procura, attraverso il tifo. La nostra condizione è da sempre quella dello spettatore, perdente fin dall’inizio perché fuori dai giochi. Irrilevanti su tutto, ci limitiamo a svolgere il compito di un atomo riposizionabile nell’economia dello spettacolo.
Più che perdenti siamo passivi, che è ancora peggio. Almeno chi perde ci ha provato, ha combattuto. Noi neanche quello. La rassegnazione è il male del secolo, la passività una conseguenza.