Il cielo sotto Parigi
Non toccare
di
Francesco Forlani
Ci sono molte periferie per un solo centro ed è per questo che cambiano i treni, le stazioni, le facce della gente per arrivarci. Tale moltiplicazione di mezzi e luoghi non la puoi racchiudere in una sola parola, nemmeno una come banlieue, neanche al plurale, Banlieues, quando le vocali si ripetono all’infinito prima di tacere la voce, e cingere il capo con una couronne.
Le RER, per esempio, con un nocciolo di fermate all’interno della capitale ne sezionano il centro prima di biforcarsi alle porte in direzioni diverse, ma in fondo rimangono dentro la città, ne rovesciano simmetricamente gli orizzonti, le verticali, rimanendo fedeli tutto sommato alla croce dei venti e ai punti cardinali. Altra cosa sono i treni quasi veri che dalle stazioni, Gare d’Austerlitz, Gare de Lyon, Gare St. Lazare, Gare de Montparnasse, Gare de l’Est e Gare du Nord, proiettano i pendolari nei due sensi, nel senso di chi a Parigi ci vive e va o ci viene a lavorare da fuori.
In periferia non ci vai, a pensarci bene, perché ce l’hai addosso, sei tu la prova che esista un mondo oltre le porte, abitato, vissuto, da altri, un luogo che per loro è al centro della vita, delle loro vite, di certo non la tua.
A volte basta poco, un sorriso inatteso, un gesto di cortesia che ti fa cedere il posto a una persona più stanca o uno scambio di sguardi complice a farti sentire parte di un tutto e non un pezzo di ricambio alla grande macchina, a rendere il passo meno pesante, l’attesa sulla banchina più distratta. Oppure, accade qualcosa all’improvviso che attira la tua attenzione, una scena, una posa da instagram che ti fa indugiare sul prendere o meno il cellulare, o riflettere per capire cosa stia succedendo.
La prima volta è stata la stranezza della cosa ad attirare la mia attenzione. Un uomo, elegante, sulla sessantina, snello, di colore che tenendosi sulle retrovie delle file di persone in attesa del passaggio del treno, ad un tratto s’era avvicinato ad un passeggero sfiorandolo con una mano sulla spalla. L’altro non se n’era nemmeno accorto e così aveva proseguito nel suo cammino prima di sparire lungo le scale mobili. In altri termini non era lì per partire, ma solo per compiere un gesto inspiegabile ma chiaro, volontario. No, non era stato per nulla aggressivo, né tanto meno cattivo come potrebbe essere quello di un complice di borseggiatori, o peggio ancora di un untore. Ma allora cosa significava quel gesto e poi perché proprio a lui era toccato?
Diversa la seconda volta, poche settimane dopo. Non un uomo, stavolta, a compiere quello strano rituale ma una donna, e giovane, vestita alla moda dei giovani con cuffie di colore rosso, di buona marca per ascoltare musica, e con i modi di una studentessa di matematica. Quali siano i gesti soliti di una che studi algebra e geometria non saprei dirlo, però quella era stata l’impressione che ne avevo avuto. A differenza del primo, non camminava, ma se n’era rimasta ferma dietro alla seconda fila e quando le porte si sono aperte per accogliere i nuovi viaggiatori, aveva semplicemente appoggiato un palmo di mano dietro ad una signora dall’aria assorta, quasi preoccupata, quasi volesse spingerla e non solo sfiorarla. Era il gesto di chi impone le mani alla maniera di un rito cristiano, di certe Madonne del Rinascimento che non sai se ti stiano intimando di fermarti o semplicemente rassicurando rispetto a un qualcosa di simile a un dolore e che ha bisogno di grazia. Tutti erano saliti sul convoglio tranne lei che era rimasta nello stesso punto dov’era prima di incamminarsi, una volta chiuse le porte, verso l’uscita.
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Grazie.
a te. effeffe
lo “sfiorare” è un gesto positivo, perché è come il passaggio ravvicinato di un fiore.
grazie Sparz.