Il nostro tempo insieme
di Sara Mazzini
Questa ora è la mia casa, pensa, mentre lui già richiude la porta, le sfila la giacca del completo di cotone leggero. La luce in salotto muta un filo di polvere in sabbia che scende a indorare la superficie del tavolo, delle poltrone; la scaccia con il palmo della mano, la guarda accumularsi altrove. Anche la polvere è parte di lui, viene da un tempo in cui viveva senza sapere che lei esisteva. Inconcepibile ora quel tempo, ora che loro due sono una cosa sola. Ora che lei spinge le scarpe in un angolo e pensa, è qui che inizia il nostro tempo insieme. Lui ha gli occhi sinceri e lei si dice che è davvero fortunata. Lo aspettiamo così a lungo, si dice, che quando infine arriva non ci sembra neanche vero. L’amore? No, sciocca, è qualcosa di più. Accarezza con lo sguardo il suo lato del letto, i cassetti socchiusi e appena svuotati; lo sguardo si porta sul resto, sulla sedia che lui ha occupato, sui vestiti che ha dimenticato. Pensa, più tardi avrò modo di affondarci dentro il naso. Più tardi, non vista, potrà fare un’incursione nella vita del suo uomo. Poi pensa che adesso quella vita è anche la sua. L’aria che lui ha respirato, i souvenir di viaggi fatti insieme a qualcun altro: tutto, si dice, appartiene anche a me. Mi appartiene questo posto, dove si parla una lingua diversa. Le appartiene l’uggiolio che sente mentre lui prende la sua valigetta e con un bacio si congeda: devo andarmene al lavoro. Il diritto di infestare questo vuoto che rimane.
Questa ora è la mia casa, pensa: dovrò renderla accogliente anche per me. Sistemare le fioriere, rifoderare il divano. Scrostare la vasca da bagno. Strofinare via le impronte lasciate sull’ingresso dagli ospiti che lui ha ricevuto. Svuotare il posacenere dai mozziconi scordati da persone che lei non avrebbe invitato. Su alcuni sono impressi i segni di un rossetto, li seppellisce in fondo a un sacco. Pensa, sono anni che non metto più il rossetto. Qualcuno una volta le ha fatto notare che non le sta bene, la rende volgare. Non importa chi fosse, neppure lo ricorda. Ricorda il solletico dello spumante tra il naso e le labbra, quello sì. L’attesa del momento in cui le bollicine avrebbero finito di portare il rossetto via con sé. Ridicolo ora quel tempo, ora che nessuna opinione potrebbe toccarla. Ora che ad avere un peso è soltanto il pensiero di lui. Lui la vede per quello che è e lei sa che non deve più fingere nulla. Una rosa sarebbe ancora una rosa, disse Giulietta, sospirando al suo balcone, se avesse un altro nome.
Questa ora è la mia casa, pensa, e si concede il lusso di sdraiarsi sopra il letto, perché ha fatto un lungo viaggio. Fuori ha preso a piovere, poi ha smesso. La risveglia il tonfo secco di una porta sbattuta dal vento, la nota metallica di un chiavistello. Gli infissi sono chiusi, lui li ha serrati uno dopo l’altro. Si dice, di certo il rumore proviene dal piano di sotto. Non conosce le persone che lo abitano, non ha mai visto i loro volti. Ha visto le lunghe tuniche che appendono in cortile ad asciugare. Sulla porta d’ingresso c’è una targhetta sbiadita dal sole. A volte sente il pianto di un neonato che trafigge il pavimento, finché a un tratto si arresta per rimarcare il silenzio. Si chiede come facciano a zittirlo, si dice che forse non vuole saperlo. Accarezza con lo sguardo le cornici attaccate sul muro: rimandano odore di muschio e salnitro. Al loro interno sopravvivono persone rese giovani per sempre dalla mano di qualcuno che è stato un fotografo solo per un momento. Pensa, più tardi avrò modo di sostituirle. Con stampe a colori della sua terra, con la pelle di serpente di sua madre. O di ricoprire tutto con carta da parati a motivi trompe-l’oeil. Non le va di ritrovare nelle foto quell’uomo che sembra il suo uomo. Difficile pensare che sia esistito un tempo in cui lui si radeva la barba. Ora che è diventato vitale per lei aggrapparsi a quella barba con le dita. Pensa che presto sarà l’ora di pranzo e il suo ufficio sta in fondo al viale. Indossa le scarpe, rimette il vestito; pensa, gli farò una sorpresa.
Se questa ora è la mia casa, pensa, dovrò cercare qualcosa che mi sia familiare. Ha letto quel consiglio dentro una rivista; forse viene da sua madre. Sua madre, che ha fatto la guerra in una tempesta di sabbia. Una strada è una strada, pensa, è così dappertutto. Cerca la familiarità del viale, lunghe gettate di asfalto e manifesti masticati dalla nebbia. Vecchie insegne di locali che non riesce a decifrare. Un’agenzia di viaggi dalla vetrina vuota, le luci spente, la porta chiusa. Il prezzario di un salone di bellezza, di quelli a cui un tempo affidava la sua pelle per renderla più tonica. Ridicolo ora quel tempo, ora che non servirebbe a nulla nascondere l’età. Ora che insieme hanno creato uno spazio in cui nessun altro può entrare. La luce di mezzogiorno proietta un’ombra lunga quanto un dito sui palazzi dalle finestre murate, descrive una rotta ideale verso il cornicione. Piccioni fanno il bagno dentro le grondaie, depositano guano che cola lungo il muro. È qui che un uomo un tempo l’aspettava, spiando la vita al di là di un portone. Vomitando d’impazienza, aspettando la ragazza che non sarebbe mai invecchiata. A volte quell’uomo sembrava il suo uomo, altre volte invece assomigliava a lei. Guardava l’orologio che troneggia sulla strada trafiggendo il marciapiedi; pensava, questa è l’ora che decide tutto.
Questa ora, pensa. La aspettiamo così a lungo che quando infine arriva non ci sembra neanche vero. Impossibile capire le parole, incredibile il suo gesto. Lui ha mani addestrate a servire il signore e lei pensa, l’avevo capito. Pensa, sapevo già tutto da tempo. Per lui ha confezionato quel vestito, per i suoi occhi sinceri, per le sue mani in prestito. Perché lo riponesse in un cassetto, come fa sempre con tutte le cose. L’amore? No, sciocca. Quanta sciocchezza in questa storia. Pensa, più tardi avrò modo di affrontare il mio rimorso. Più tardi potrà fare ammenda per la vita che ha sacrificato. Su un lato del viale trova il luogo familiare, sotto un cartello di svendita totale. Un prato affamato, coperto di sabbia e animato dagli insetti. Anche la sabbia ora è parte di lei. Viene dal tempo in cui tutto lo spazio si è generato. Dolcissimo ora quel tempo, ora che l’unico amore possibile è quello che lei ha scartato. Ora che spinge le scarpe in un angolo e sente la polvere agganciarla ai calcagni, afferrarle la testa, invitarla a sdraiarsi in mezzo a due biciclettine da bambino: una dipinta di rosa, l’altra di azzurro. Chiude gli occhi e lascia che a vegliare su di lei siano gli sguardi immutabili di sette nani da giardino scolpiti nella pietra. Una mosca le ticchetta su una guancia, lei trattiene a lungo il fiato e strappa un filo d’erba secca. Da lontano un campanile scandisce i suoi rintocchi, come strofe di un antico salmo. Li segue col pensiero, poi smette di contarli.
Questa ora è la mia casa, pensa. Ha fatto un sogno, una volta, in cui faceva un sogno che lentamente si avverava. C’era un uomo, lo vedeva su un cartellone pubblicitario. Pensava che era un bell’uomo. Poi, lo avevano rimosso.
Mai essere troppo sicuri che le nostre case siano davvero nostre… È tutto effimero e precario in questa vita. Per questo non bisognerebbe mai prendersi troppo sul serio.