Les nouveaux réalistes: Giovanni Palilla
Lettera al figlio
di Giovanni Palilla
Caro figlio mio,
i problemi che ci portiamo dietro sono sempre più grandi di noi. Il corpo di mio padre, il corpo che, un giorno, mi condannò alla morte per affogamento in una disputa avente come motivo scatenante la ditta di famiglia di cui io ero appena diventato titolare, giaceva inerme sulla vettura sorvegliato da mia madre, tua nonna, e nonostante tutte le sue funzioni vitali fossero ancora intatte, il suo senno era già da molto tempo accanto a quello di Orlando. L’imbarcazione su cui noi ci trovavamo aveva difatti il profetico nome di Caronte e ben si confaceva alla nostra missione: accompagnare tuo nonno in un limbo sanatoriale nell’attesa della Sua venuta. La verità è che tuo nonno non voleva morire perché non aveva realizzato appieno la sua vita, e ciò implicava non solo la sua, ma anche la mia. Ho iniziato questa lettera con il ricordo del momento in cui mi resi conto di quanto lui dipendesse da me, di quanto fosse inerme, lui, la cui ombra ha fagocitato tutti coloro che gli stavano vicino, me compreso, che per mano mia si stava facendo trasportare nel suo personale purgatorio senza avere la facoltà (oppure la volontà, non ne sono sicuro) di ribellarsi.
Figlio mio, ammetto in queste pagine destinate solo ai tuoi occhi che il giorno in cui imbarcai tuo nonno su quel traghetto fu il giorno più felice della mia esistenza, e mi sembra paradossale, riflettendoci adesso a qualche mese di distanza, che l’oggetto della mia più grande infelicità potesse costituire in futuro la mia più grande gioia. Un tale sentimento non lo provavo da tempo: potrei sbagliarmi, ma non mi sentivo così felice dal momento in cui ho pianificato la sua morte. Posa questi fogli, alzati e va’ nel nostro scantinato. Laddove parcheggiamo la nostra auto, tenendo la saracinesca alle tue spalle, dirigiti verso sinistra, all’angolo, e tasta le mattonelle del battiscopa finché non ne troverai una poco stabile. Da’ un leggero colpo e ti si riveleranno i piani di tuo padre. Troverai le droghe che pazientemente davo a tuo nonno. La pratica dell’avvelenamento quotidiano mi ha tenuto in vita e la felicità che mi dava è stata solo superata dal momento a cui ho fatto riferimento all’inizio. Tua madre, piena di latte d’umana tenerezza, mi ha scoperto e mi ha costretto a fermarmi. Ma la mia dedizione è bastata a farlo aggravare in modo tale da dovercene sbarazzare. Che le mie azioni abbiano potuto contribuire al decadimento fisico e mentale della sua persona è il pensiero che mi ha restituito il sonno. Trovarmi a dovermi prendere cura dell’uomo che più di tutti ho odiato, pulirgli la merda solo perché è mio padre ed è questo che ci si aspetta, amore incondizionato a qualsiasi costo. Io non ci riesco. Non riesco a perdonare la presunzione con cui ha voluto guidare la mia vita, la falsità con cui mi concedeva un inesistente libero arbitrio. Drogarlo mi restituiva la dignità che lui mi aveva rubato. Eppure, caro figlio mio, tu devi molto a tuo nonno (non per nulla porti il suo nome): senza di lui probabilmente non saresti mai nato. No, non è una di quelle frasi che si dicono tanto per dire: sai che odio le frasi di circostanza. Credo, anzi, so di non avere il coraggio di dirti a voce quello che sto per rivelarti. Non ho la dignità di farlo né ne avrei mai il coraggio. La carta aiuta a mettere un filtro tra me e te, sopperisce alla mia mancanza di coraggio, creando una distanza tale da permettermi di poterti dire perché sei nato. Sei nato unicamente per volere di tuo nonno.
Io e tua madre perseguivamo le nostre carriere in quel periodo e l’idea di metter su famiglia, o meglio, di avere figli (perché una famiglia lo eravamo già prima di te), non ci aveva sfiorato. Di comune accordo, senza discuterne, avevamo deciso di non averne, ma le manie organizzative di tua madre ci tradirono. Era solita sistemare gli anticoncezionali – abitudine che ha eliminato – dentro a un portapillole dotato di piccoli scompartimenti, uno per ogni giorno della settimana. Tuo nonno, in una di quelle domeniche in cui, senza invito, legittimato solamente dal suo esser padre, veniva a pranzare a casa nostra, aveva chiesto dell’utilità di quello strumento, mentre tua madre in cucina davanti a lui le stava organizzando. Quando ci accorgemmo che tu stavi prendendo il tuo posto al mondo e lo comunicammo alla famiglia, tuo nonno, con la sua consueta altezzosità, fece un commento, che tuttavia mi risultò più velenoso e maligno dei precedenti: faceva riferimento alla poca affidabilità del sistema impiegato da tua madre nell’organizzazione delle sue pillole. Una volta a casa, mi resi anche conto che le ultime domeniche non era mai mancato a casa nostra. Il dubbio mi fece salire in macchina e guidare diverse ore per raggiungere un laboratorio forense. Non l’ho mai detto a tua madre, a lei, che non ebbe il coraggio di ucciderti. Le nostre carriere andarono a farsi benedire, bambino mio, per colpa tua le abbiamo dovute abbandonare e siamo finiti a lavorare per l’azienda di famiglia, come voleva tuo nonno fin dal principio; inoltre, è la soluzione più rapida, facile e scontata che ci sia quando si sta per avere un bambino: ripararsi nella famiglia, il porto sicuro. La tua venuta è coincisa con la perdita della mia sanità mentale e con la comparsa della mia perenne infelicità: figlio mio, mi dirai che non hai scelto tu di venire al mondo, che è stato tuo nonno a scegliere per te. Hai ragione, ma perdonami, ti odio nello stesso identico modo in cui odio mio padre perché rappresenti il prolungamento vivente del suo volere. Consciamente so che non sei tu l’artefice della mia rovina, ma tuo nonno. Dicono che quando diventi genitore ci sia questo famigerato “amore incondizionato”, espressione rivoltante che ho già usato in questa lettera. Quante volte ho sentito la frase: “non lo capirai finché non sarai genitore”. Ebbene, in parte è vero: il peso dei figli ti fa prendere decisioni che mai avresti preso prima. È vero che ti voglio bene con tutto me stesso e morirei per te, ma ti odio, perché hai rovinato la vita che c’era prima di te e che andava altrettanto bene, anche senza di te. Il bene che ti voglio non mi permette di poterti dire queste cose a voce, non potrei più guardarti negli occhi: non l’ho mai fatto, in tutti questi anni di vita. Mandarti fuori a studiare è stato sicuramente un atto d’amore. Volevamo darti e assicurarti il meglio, questo era il motivo apparente, che tu faticavi a capire; ma c’era un altro motivo altrettanto impellente che mi aveva spinto ad allontanarti da me, e ora lo sai.
Caro figlio mio, chiudo questa lettera con una richiesta. Mi dirai: come posso esaudire una tua richiesta dopo quello che mi hai detto, dopo tutto l’odio che mi hai riversato in un’unica soluzione, senza pietà? Eppure, sono sicuro che il compito che ti sto per assegnare sarà di tuo gradimento: ti chiedo di uccidermi. Avvelenami, mettimi un cuscino in faccia, iniettami una bolla d’aria con una siringa, qualsiasi cosa ti compiaccia e ti venga facile da svolgere. Voglio che tu mi uccida. Pochi giorni dopo averlo accompagnato, ho scoperto di aver ereditato la stessa malattia di tuo nonno. Anche da morto vivente, la sua mano continua a stringermi il collo, è riuscita ad averla vinta portandomi con sé, conducendomi al suo medesimo destino. Perché non voleva morire? Dopo aver trasformato la mia vita in quello che lui aveva desiderato, perché si ostinava a non allentare il giogo? Perché una cosa non è riuscito a ottenerla: non gli ho mai voluto bene, non è mai riuscito a spezzarmi completamente, a entrare dentro di me e convincermi che il cambiamento era la cosa migliore che potesse succedermi. E adesso spera che la sua condizione mi induca pietà, che gli dia l’amore che non ha mai avuto: non lo avrà, e io non voglio ridurmi a un fantoccio come lui, non voglio regredire allo stadio infantile, un pupo di carne privo di senno: non voglio esserci solo con il corpo, non voglio indurre in te, figlio mio, alcuna pietà. Non so come reagirà tua madre, non ho ancora avuto il coraggio di dirglielo, ma di una cosa sono certo: non voglio essere il peso dei suoi ultimi anni, non voglio essere l’eclissi che oscura il sole della tua vita. Per questo, figlio mio, senza che tu dica nulla a nessuno, ti chiedo di farmi fuori. Ho tenuto le prove del farmaco che ho iniettato a tuo nonno come prova per te, affinché tu mi credessi. Prima che mi ricoverino, metti in atto il piano che tu avrai preparato per me e fa’ in modo che venga preso per un incidente. Se così non fosse, se tu dovessi essere scoperto e colpevolizzato della mia morte – imputazione vera, in realtà, se avrai portato a termine il tuo piano – mostra questa lettera in cui esprimo il diritto totalmente umano di non voler più vivere per mancanza di autosufficienza e in cui autorizzo mio figlio a togliermi la vita.
Tuo padre