Note a margine della ferita
di Lorenzo Orazi
Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese
I
Detesto avvicinarmi all’arte per un senso del dovere che intende costringermi alla conoscenza. Non voglio sapere tutto e ad ogni costo; ogni volta che il mio approccio all’opera è tale, so già per certo che ne resterò deluso. Eppure, non posso più farne a meno. Mi circondano gli spettri della sapienza, figure con cui stupidamente instauro competizioni; mi dico che non posso fermarmi se voglio ottenere anch’io un posto nel mondo.
Costante è la consapevolezza che non si tratti d’altro che di menzogna: io non voglio davvero raggiungere questo scopo, non ho questa missione, non ho nessuna missione. Voglio essere oggi e non proiettato avanti nel tempo. Meno solitudine, semplice umanità sulla via, sedere ad un bar e bere caffè con qualcuno; meravigliarsi quando dei panni stesi si gonfiano di vento, o per una luce crepuscolare caduta sulla facciata di un palazzo. Devo riavvicinarmi al reale, uscire dall’esilio della mia stanza e delle mie prigioni mentali; devo allontanarmi dal dominio dell’inettitudine e della sfiducia in me stesso, dall’ossessione di non essere mai abbastanza.
Smetterò di vivere le vite degli altri e avrà inizio la mia, più spontanea e sicura. Non è più tempo di restare lontano dalle cose. Ho bisogno di sentire che quanto mi circonda è davvero qui, percepire una potenza poetica che esonda. Oggetti e persone hanno perso ogni relazione con me. Come un fantasma passo e non lascio traccia; lo stesso vale per i giorni: passano e non lasciano traccia. Temo di impazzire: estrema necessità che qualcosa accada. Come riprendere forza, riuscire a lavorare intensamente e con piacere? C’è una poesia e un disegno: voglio frequentarli, essere con loro. Da tempo mi sforzo di interrompere quotidianità e abitudini, ma tutto è determinato a mantenere la distanza; l’incapacità ad avvicinarmi sembra una fatalità inevitabile.
La disciplina, in questo buco nero quotidiano, in questo vuoto di cui cerco di essere struttura, pare non porti altro che false aspettative, senso di inadeguatezza, ansia. Sono scadente materia mentale che cammina per le strade. Un oblio del mondo, un sapere sgretolatosi nella lontananza dal suo oggetto. In giorni insipidi, traggo il piacere più grande avvicinandomi a un corpo qualunque. Prestandogli attenzione tento di toccare qualcosa di vivo, mi sforzo di scorgere gesti ingenui, naturali, immediati. Più qualcosa è banale e ordinario, più esso mi attrae; la megalomania dell’arte, la mistica, mi hanno donato tutto per poi privarmene. Avevo delle idee: sono appassite, e con loro le sostanze che le riguardavano. Ogni cosa s’è prosciugata di forza: non vedo grazia né segni, un passo di danza, il cenno di un volto amico. Evaporati, erano lì poco fa. Uscirò dall’anestesia, riprenderò a corteggiare il nucleo che arde.
II
Al risveglio siamo privi di forze, ci sentiamo profondamente intorpiditi, stanchi, come se qualcuno nella la notte si fosse divertito a tormentarci. Compiere un passo nella direzione che ci eravamo prefissati, aggiungere un solo mattone al ponte progettato, appare un compito inattuabile. Cerchiamo allora di non insistere troppo, di non esasperarci. Ci concediamo a qualcosa che riteniamo piacevole: la lettura di un libro, la visione di un film, una passeggiata lungo il fiume. Alle volte ci aiuta: il piccolo godimento che ne deriva ci accompagna dolcemente alle soglie del pomeriggio, quando, per qualche ora, scemando lentamente la cappa depressiva, sembrano riemergere appena delle energie. Altre volte il piacere tarda a venire, o non si presenta affatto. E, come un nutrimento necessario che venga a mancare, ci lascia esanimi, sfiniti dal senso di colpa, frusti; in preda al dolore a cui aggiungiamo dolore, in preda all’insensatezza a cui aggiungiamo insensatezza.
Poi, l’effimero delinearsi di un sentiero ci provoca una lieve ebrezza. Avere un obiettivo davanti a sé, dirsi che ogni piccola, minima, apparentemente nulla azione varrà ad avvicinarsi ad esso; è uno sprone che avevamo dimenticato di poter provare. Ad esempio: l’idea dell’insegnamento; come per una brezza sentiamo dileguarsi l’aria stantia di una quotidianità inane. Ci vediamo concludere gli studi universitari, magari presi da una tesi di laurea appassionante, e non redatta alla sola spinta della voce che incalza: “è tardi, è tardi, è tardi”. Muoveremo verso la città, tenteremo di stabilire una rete di rapporti, relazioni che diano in qualche modo nuova vita a una ricerca da sempre claudicante, meticcia, insubordinata. Una linfa sconosciuta pare rianimare le ricerche, la cultura lasciata ad ammuffire negli scantinati della mente; eccoci offrire l’amore per il sapere – che da qualche parte, in noi, oltre la vanità e le false glorie, dovrà pur sopravvivere – a ragazzi e ragazze, uomini e donne fertili come campi appena arati ebagnati da un inatteso temporale.
Un progetto è anche questo: forzare l’immaginazione verso un raro momento di piacere. Si tenta allora di ristabilire una disciplina: torniamo a dormire presto la sera, rifiutiamo il bicchiere di vino che avrebbe portato ad altre sigarette, ad altri bicchieri. Ci si allontana dagli amici quando la festa è ancora viva, gli argomenti allettanti alimentano le conversazioni, cenni di affetto scivolano dagli sguardi di ciascuno. Lo si fa, dopotutto, con una certa leggerezza, senza dramma. È un piccolo sacrificio offerto sull’altare della nostra idea, che è, abbiamo detto, una forma di amore. Ma ecco, col sorgere del nuovo giorno, siamo ancora davanti alla disfatta, all’umiliazione di un’altra caduta. A nulla, dunque, è valso il sacrificio? Così caduco era il progetto che, per qualche istante, ci ha fatto scorgere il germe di una vita possibile?
Ci diciamo che a nulla vale l’affetto di chi ci è vicino; a nulla l’ennesimo esame superato con lode e decorato dei complimenti del docente; a nulla la pubblicazione sulla rivista da cui attendevamo da mesi una risposta; a nulla l’approvazione, l’incoraggiamento di intelligenze che si credevano inavvicinabili. Sappiamo soltanto che lo sconforto, ad ogni risveglio, si rinnova; che la parabola del sole, nonostante il neonato autunno, ci sembra allungarsi ogni giorno di più, e che il rifugio annichilente della notte tardi troppo a venire.
Eppure, nella tangibilità del dolore, c’è sempre un diabolico compiacimento, una volontà di affondare in esso, di concedersi senza più resistenze. Abitare un silenzio di corruzione, recidere il legame da cui ci viene l’effimero lampo della bellezza – ché è nel marciume che ci appare tutto lo scandalo della bellezza-, diventano le prospettive più invitanti. Una fatalità che attendeva solamente il nostro assenso per avverarsi. Scissione, separazione, distruzione: il diabolico non è altro che questo. Con Natalia Ginzburg, allora, vorremmo dire: “Non ci è dato scegliere se essere felici o infelici. Ma bisogna scegliere di non essere diabolicamente infelici”.
III
Sono le 10:30 del mattino. Ho annotato i sogni della notte e alcune riflessioni su di essi. Ho passeggiato per un’ora, fatto colazione e fumato una sigaretta. Gli occhi si fanno pesanti e gonfi, sopra le spalle sta accumulata una tensione nervosa, la vitalità mi abbandona. Desidero solo tornare a dormire. Un’intrusione inaspettata nella stasi del quotidiano e ritrovo la prostrazione ad attendermi.
Vedo quanto sono fragili le strutture edificate per arginare l’inatteso; più tentiamo di ordinarlo, di elaborare un sistema razionale e stabile, più esso emerge con il suo impeto perturbante. Non aspettavo altro dall’offrirsi di una mutazione. Incappato nella bonaccia, ero impossibilitato a muovermi per una strana, quasi sconosciuta, quiete dei sensi: per un’assenza di irrazionale. Triste richiamo della malattia. Il limite che si ripresenta e sbeffeggia chi tentava di dimenticarlo. È il ricordo dell’insufficienza, della sostanziale inutilità di ogni tentativo di ammaestrare una forza che tracima. Di nuovo Dioniso fa il suo ingresso in città: crolla il palazzo, il re impazzisce, le donne diventate menadi vanno ad abitare la montagna, danzano. Ero in sua attesa, ma mi sono sorpreso mentre lo rifuggivo.
La cieca ascesa al sole con ali di cera, ennesimo preludio al precipizio, alla vertigine. Se esiste peccato, altro non è da questa debolezza e fragilità, ovvero essere incapaci di riconoscerla in quanto tale. Il “nulla di troppo” delfico risuona nello spiccarsi del frutto dall’albero della conoscenza. Abitare il limite, riconoscere l’ate al suo emergere, la voce del demone quando si pronuncia. E se il demone non si lascia incatenare dai nostri mezzucci di creature, non resterà che concedersi ad esso quando ci reclama per formulare possibilità imperscrutabili.
Rappresentiamo simili eventi sulla scena affinché ci paiano, per qualche breve istante, intellegibili. L’oblio non ci faccia impreparati al cospetto del divino che soverchia. Sul forcipe spuntato cresce la ruggine, alla matita la mina si è spezzata, secco è l’inchiostro; in cerca del vero, nell’ombra, è zoppo ogni strumento. Caos boschivo: tra la natura che germina si espande fiorisce muta, tra il battito d’ali delle falene e il ronzio dei calabroni: siamo smarriti. Ma è da una città in rovina che eravamo partiti, dove le edere crescevano nelle crepe e spaccavano le mura. Laggiù non è più dato tornare.
IV
In frenetica ricerca, sulle tracce di una voce che risponda affermativamente alla domanda: “sono degno del tuo amore?”. Elevo l’oggetto sul plinto, ne faccio un idolo che orno e adoro, gli danzo attorno, offro incenso e doni: finalmente il responso a lungo anelato. Mio malgrado, do cominciamento alla prassi distruttiva; subito, principia la disperazione del rimpianto. Non appena l’idolo sembra aprire gli occhi e tendermi la mano, impugno un martello e lo riduco in rovina, in cocci mostruosi senza forma. Ora lo imploro affinché si risollevi dall’ammasso di detriti che è divenuto, canto inni perché presti ancora orecchio alla preghiera. Ma l’idolo tace in una nebbia di polvere: svanita la bellezza, dileguato il profumo. Come è possibile tanto silenzio, l’incolmabile distanza che si è frapposta tra noi? Le interrogazioni mi assillano e provo a ricordare che aspetto avesse nel donarmi amore. Costruisco un tabernacolo atto a conservarne i resti. I vaghi tratti del volto sono minacciati da una pioggia acida, la lamina d’oro cede, le gocce iniziano a penetrare. Ho dimenticato il tocco della mano che, raggiungendomi il viso, mi carezzava; il tepore della veste che mi cingeva. Non resta che manomettere, attraverso le menzogne della memoria, un’immagine che non smette di scomparire. Avvicino i granelli di polvere tra loro, ricompongo qualche frammento e vedo delinearsi soltanto ghigni, smorfie di disprezzo, stridule risa.
V
Quando parliamo di Dio, non stiamo forse indicando un magnete che attiri a sé schiere di uomini e donne ridotte in polvere dalla vita, dalla malattia, dalla morte? L’uomo è mai impegnato in qualcosa che sia altro dal ritornare alla condizione paradisiaca originaria?
Siamo eternamente lanciati in una corsa a ritroso: nella carne aneliamo ad un ritorno nell’utero, nello spirito aneliamo al ritorno nel giardino edenico. Ogni progetto non è che una forma più o meno degradata di questa mira, di una dimenticanza più o meno radicale. Narrazioni si stratificano su narrazioni, ma il nucleo primigenio resta il medesimo. Ecco la necessità di una prassi distruttiva: dobbiamo sgombrare la via da ogni ostacolo che ci occluda lo sguardo. Ma su quante vite saremo costretti a esercitare violenza, quante lacrime verseranno coloro che ci hanno amato, quanti dovranno essere sacrificati sull’altare del dio sanguinario che inseguiamo. La crudeltà del disegno divino è definitiva e scandalosa. Chi abbia avuto in destino l’occasione di scorgere, anche per un solo istante, il rovescio del tappeto, ne rimarrà pietrificato. Ciascun dio è Medusa: scendere con immediatezza nell’abisso gorgonico implica l’estinzione subitanea: fissarlo significa essere immortalati in una maschera di dolore, in sassi densi di strazio. Bisogna domandarsi quale forma di mediazione ci sia concessa per accostarci all’infinito. L’arte è forse lo specchio che ci viene consegnato, una via indiretta per avvicinare l’essere immondo. L’arte educa all’estasi: rende respirabile l’aria glaciale e rarefatta delle altezze, quella ardente e sulfurea del baratro. Sapremo anche noi, come Perseo, divenire leggeri a sufficienza per sollevarci in volo? Da dove ci verrà il dono di un copricapo che renda invisibili?
VI
Non si viene cacciati dal Paradiso senza rimpiangerlo in eterno. In ciascun amore i progenitori sopravvivono, rinascono nella ricchezza edenica di un giardino odoroso, colgono dalle piante i sapidi frutti di cui cibarsi, si immergono in limpidi fiumi. Ogni mattina è nuova e ovunque germina la meraviglia. Morte non significa altro che conoscere la fine di uno stato simile.
Chi ha vissuto nella pienezza, una volta estromesso percepisce a fondo il vuoto dell’esistenza. Si chiede come possa chiamare con lo stesso nome ciò che era prima e ciò che è ora. Dove sbocciavano varietà di colori e fragranze, egli non scorge che grigiore e putrefazione. I ritmi organici, il battito del cuore, il respiro, si reiterano come un paradosso; il cacciato si sorprende a dire: “come? Vivo ancora?”. Imbattendosi in una salma privata del rito funebre, senza sorpresa vi riconosce fattezze familiari. Lo spirito inquieto va in cerca di una fossa adatta alle proprie spoglie. Vaga, diafano e dimentico di se stesso, narrando le sbiadite immagini di un luogo primigenio.
VII
Il lavoro psicologico obbliga al rimestio dell’infezione, al maneggiare di nuovo la parte dolente. I fantasmi si fanno finalmente presenza. Il piede che prima inciampava appena, sorpreso da una figura inattesa all’angolo della strada, prende a zoppicare per giorni, settimane intere. Si credeva di essere in cammino sulla via della guarigione, e ciò rende l’acuirsi della sofferenza inaccettabile. Eppure, una volta che si è scelto di frequentare la ferita, di interrogarne la natura, non si potrà che constatarne il risveglio del bruciore. Poi d’improvviso inizierà a scemare. Il trauma somiglia allora ad un film visto troppe volte e di cui abbiamo appreso battute e inquadrature a memoria. Prende ad annoiarci, crediamo di averne svelato il mistero. Ma tale sensazione si rivela presto menzognera: il trauma non smette di chiamarci per nome, continua ad offrirci una parte di eccedenza; la ferita non può mai essere sondata fino in fondo, ha in sé un elemento costitutivo di ignoto. È sufficiente un mutamento minimo, un’inclinazione del capo, una luce autunnale caduta nel folto di foglie ingiallite, affinché un nuovo significato si presenti. Forse non esiste vera ferita all’infuori di quella capace di custodire una parte di indicibile. Cionondimeno, la ferita continua a farci dono di risposte di cui neppure sospettavamo. E, anche quando ci sembrerà abbia pronunciato l’ultima parola, non dovremo comunque smettere di tendere l’orecchio. Essere sordi ad essa equivale a inaridire, implica l’ottusa presunzione di chi crede di aver indagato a sufficienza. Il tronco si secca, perde elasticità, quindi si spezza. Custodire la ferita non significa venerare il dolore, né porsi nei confronti dell’esistenza con atteggiamento masochista: piuttosto, si tratterà di accogliere l’enigma che non cessa di abitarci e che sfugge ai nostri intenti di sistematizzazione.
Tendere l’orecchio (per cercare di capirlo, questo mondo complesso) è l’essenza stessa, sempre in divenire, del nostro vivere.