This must be the place. David Byrne e lo zen – seconda parte

 

di Giorgio Sica

[La prima parte dell’articolo è uscita ieri, qui]

Chiaramente, alle spalle di questa concezione, non può esserci che John Cage. Vorrei a questo punto soffermarmi, per forza di cose brevemente, sulla figura di Cage, e sull’evidente influsso esercitati dalla sua opera e, ancor di più, dal suo pensiero, sulla parabola di Byrne e di Brian Eno. Questo ci aiuterà a comprendere meglio come lo zen, apertamente professato da Cage, possa essere entrato per una sorta di osmosi nella mente e nella musica di Byrne. Dobbiamo, dunque, fare un breve salto a ritroso nel tempo e tornare agli anni ’40 quando, al culmine della sua cosiddetta fase romantica, Cage, allora allievo di Schoenberg, componeva musica ancora animata da finalità espressive, creata secondo modalità matematiche, ad esempio i rapporti basati sulla sezione aurea, di cui è simbolo il suo lavoro per piano preparato più acclamato: Sonatas and Interludes, scritto tra il 1946 e il 1948. Ma proprio in quegli anni, il compositore americano incontra la spiritualità orientale e colui il quale sarà il suo partner di una vita, a livello sia artistico che sentimentale, il coreografo e ballerino Merce Cunningham, pioniere della danza asincronica.

Sono anni di straordinaria intensità, durante i quali Cage studia il buddismo zen, la filosofia indiana e il taoismo al Black Mountain College insieme a David Tudor. Segue le lezioni di D. T. Suzuki e considera lo zen come un’impostazione filosofica con cui ridiscutere il concetto di musica. La musica viene considerata affermazione della vita e, come la vita, la musica deve esistere senza fini, scopi, intenzioni: deve sorgere da una meditazione sul vuoto. Com’è noto, nel 1950 si procura l’IChing, il celeberrimo manuale di divinazione taoista, e comincia a comporre brani in maniera aleatoria. La tecnica non è nuova, basti pensare al “Musikalisches Würfelspiel” (letteralmente “gioco musicale con i dadi“) che Mozart compose per permettere di comporre minuetti e rondò definendo la sequenza delle battute secondo il lancio dei dadi; altri giochi analoghi erano stati utilizzati da Haydn, Calegari e Bach jr. L’adozione di tecniche aleatorie e casuali serve a Cage sia per liberarsi dal desiderio di trovare sempre l’emozione nella musica che per eliminare l’aspetto soggettivo del processo compositivo, il collegamento fra la sensibilità del compositore e i suoni che compone. La musica deve essere libera e impersonale, come i suoni e i silenzi del mondo.

In quei mesi, Cage elabora la teoria dell’Indeterminacy, per liberarsi dall’idea di scelta dal processo creativo, e avvicinarsi all’indeterminatezza del suono naturale. Vuole riportare la musica a un ipotetico stato di natura, eliminando la distorsione derivante dalla volontà di potenza del compositore. Come il flautista di Chuang-Tze, che smette di suonare il suo strumento quando si accorge che la musica del mondo è perfetta, il compositore che ha in mente Cage deve svolgere un ruolo ancillare rispetto alla musica del mondo; non è più esecutore né creatore della musica, è un liberatore del suono. Dallo zen Cage assorbe e fa sua l’idea che ogni suono, così come ogni altra manifestazione del mondo, è budda: è perfetta e in sé compiuta. Se il suono è manifestazione della mente unica – altro concetto cardine del buddismo che, in qualche misura, precede l’idea di inconscio collettivo – non ha bisogno di essere organizzato secondo logiche stabilite. Cage vuole liberare il suono, e il compositore, da ogni tipo di costrizione, rimuovere l’idea di modello. È il crollo dell’idea europea di musica, basata sulla centralità del compositore: il compositore genio, di stampo romantico, che Cage  smonta in numerosi e famosissimi happening in cui innaffia piante e suona papere di gomma, come in Water Walk, oppure lascia aperta la finestra ai rumori del traffico o resta semplicemente in silenzio. Il risultato più celebre di questa ricerca arriva nel 1952 quando, anche in seguito all’esperienza nella camera anecoica, compone 4’33’’, opera per qualsiasi strumento. L’opera consiste nel non suonare lo strumento. Alla maniera dei dadaisti, Cage stesso dichiarò d’aver creato quel titolo «just for fun» in quanto, scrivendolo con la sua macchina da scrivere, la maiuscola del numero 4 era il segno ‘ e la maiuscola del numero 3 era il segno ”.

Il significato del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione. La rinuncia alla centralità dell’uomo. Ma il silenzio non esiste come lo abbiamo idealizzato, è sempre permeato di suono, come Cage aveva appena sperimentato in una camera anecoica a Harvard, dove aveva potuto ascoltare il suono del proprio sangue e del proprio sistema nervoso. Il suono del proprio corpo, i suoni dell’ambiente circostante, i rumori interni ed esterni alla sala da concerto, il mormorio del pubblico se ci si trova in un teatro, il fruscio degli alberi se si è in aperta campagna, il rumore delle auto in mezzo al traffico. Cage vuole condurre all’ascolto dell’ambiente in cui si vive, all’ascolto del mondo. È un’apertura totale nei confronti del sonoro. Una rivoluzione estetica: è la dimostrazione che ogni suono può essere musica. Io decido che ciò che ascolto è musica. È l’intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha cambiato l’atteggiamento nei confronti del sonoro, ha messo in discussione i fondamenti della percezione. Con tutto questo Cage vuole condurre l’ascoltatore al satori; alla stregua di un maestro zen, lo invita ad attraversare la noia. Così affermava nel 1944: «In Zen they say: If something is boring after two minutes try it for four. If is still boring, try it for eight, sixteen, thirty-two, and so on. Eventually one discovers that it’s not boring at all but very interesting»[1].4’33sarà un punto di non ritorno nella ricerca di Cage e, possiamo affermare a posteriori, nell’evoluzione dell’intera musica contemporanea. Lo stesso Cage sintetizzerà così l’importanza di questo non-brano: «Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore a 4’33” come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo». Non mancheranno feroci incomprensioni, vere e proprie rivolte del pubblico – celebre l’esibizione del 1960 alla Fenice di Venezia quando di fronte ai rumori e alle distorsioni dei piani preparati di Cage e del suo amico David Tudor che si fronteggiavano, il pubblico reagì prima con un generale imbarazzo, poi ridacchiando e, infine, incazzandosi. Un distinto signore salì sul palco e sbattendo il proprio bengala sul piano di Cage iniziò a gridare: “Allora sono un musicista anch’io”. Ancor più notevole, restando nel nostro Paese, era stata l’anno precedente la partecipazione di Cage al quiz Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno dove, rispondendo a domande sui funghi, vinse 5 milioni di lire, che gli permisero di uscire da uno stato pressoché di indigenza e di comprare un trailer con cui portare in giro la sua intera compagnia. Durante lo spettacolo suonò Water Walk, sotto gli occhi sbigottiti di Mike Bongiorno e del pubblico italiano, in una performance in cui gli “strumenti” erano, tra gli altri, una vasca da bagno, un innaffiatoio, cinque radio, un pianoforte, dei cubetti di ghiaccio, una pentola a vapore e un vaso di fiori. Memorabile, e degno di essere riportato, il dialogo che ci fu tra il presentatore e Cage quando questi si congedò, vittorioso:

M.B.: “Bravissimo, bravo bravo bravo bravo. Bravo bravissimo, bravo Cage. Beh, il signor Cage ci ha dimostrato indubbiamente che se ne intendeva di funghi… quindi non è stato solo un personaggio che è venuto su questo palcoscenico per fare delle esibizioni strambe di musica strambissima, quindi è veramente un personaggio preparato. Lo sapevo perché mi ricordo che ci aveva detto che abitava nei boschetti nelle vicinanze di New York e che tutti i giorni andava a fare passeggiate e raccogliere funghi”.
J.C.: “Un ringraziamento a… funghi, e alla Rai e a tutti genti d’Italia”.
M.B.: “A tutta la gente d’Italia. Bravo signor Cage arrivederci e buon viaggio, torna in America o resta qui?”.
J.C.: “Mia musica resta”.
M.B.: “Ah, lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui”

Con buona pace di Mike Bongiorno, sarà la musica di Cage a restare e a propagarsi anche attraverso l’opera del duo Byrne-Eno. Ora i riferimenti di Byrne e, ancor di più del suo sodale Brian Eno, a Cage sono talmente vasti e articolati che sarebbe impossibile riassumerli qui. Da Cage Byrne prende simbolicamente, assieme a Eno, il testimone nel tentativo di andare verso una musica che sia aperta, condividendone l’idea della morte dell’autore, della liberazione del suono, e gli esperimenti aleatori. Sarà sulla base di queste premesse che Eno creerà il suo personale mazzo di carte “Strategie Oblique” con cui produrrà, oltre ai lavori di Byrne e dei Talking Heads, dischi dei Devo, dei Coldplay e il memorabile Heroes del Duca Bianco David Bowie, i cui 24 brani furono organizzati aleatoriamente secondo i suggerimenti di questi tarocchi personali.

Subito dopo la morte di Cage, avvenuta a New York nell’agosto del 1992, molti dei giovani che si erano formati al CGBG della Lower East Side vollero riunirsi per dedicare al loro obliquo maestro un ultimo omaggio musicale. Il disco Caged/Uncaged – A Rock/Experimental Homage To John Cage riunisce, oltre a numerose composizioni dello stesso Cage, brani scritti e interpretati in suo omaggio da personaggi quali Lou Reed, John Cale (insomma le menti dei Velvet), Joey Ramone, Eugene Chadbourne e altri. Nel suo brano, intitolato “Cage and the Long Island Expressway / Enlightened Whistler”, Byrne gioca con le sperimentazioni rumoristiche di Cage e legge estratti di Indeterminacy, forse il lascito letterario più interessante del maestro, una raccolta di 190 brevissime storie modellate sui koan dello zen, che possono e devono essere lette in maniera aleatoria (vi è un indice degli incipit, uno dei nomi, e uno delle frasi finali). Cage era solito leggere queste one minute-stories in pubblico, durante le lectures a cui era invitato, modulando la velocità della voce in maniera tale che ogni storia durasse esattamente un minuto. Sono una chiara testimonianza del suo apprendistato zen, e due delle storie più belle sono dedicate al Doctor Suzuki (la grafia ondeggiante, calligrafica è quella voluta da Cage):

[2]

La seconda è ambientata alle Hawaii dove, nel corso di un incontro con dei filosofi americani sulla Realtà, il maestro giapponese prova a recidere con una frase secca come un colpo di spada i dubbi della logica binaria:

[3]

Ritornando all’omaggio di Byrne, dopo un sapiente e giocoso dialogo con i rumori di Cage, la sua musica si ferma e la voce di David in tono basso e quasi ieratico, legge un’altra di queste “storie-haiku” in cui Cage riporta una frase del maestro Suzuki a proposito di un monaco giapponese che, dopo aver finalmente raggiunto il satori esclama: “Now that I’m enlightened, I am as miserable as ever” (qui il brano di Byrne).

La lettura di questo koan costituisce una delle poche testimonianze dirette che ho trovato del rapporto tra Byrne e la spiritualità zen, e di certo la più significativa. Un accadimento strano, quasi paradossale e di sicuro dal sapore zen, è che, nonostante Byrne non sia un dichiarato amante della meditazione, non sono pochi i riferimenti di maestri zen americani contemporanei che usano sue frasi come piccoli koan: nei The Zen Commandaments di Dean Sluyter, forse il più popolare autore di best-seller sulla meditazione negli USA, viene citato subito prima delle istruzioni di meditazione un verso di Wild wild life contenuto nell’album True stories: «Peace of mind? It’s a peace of cake». E con questo credo possiamo chiudere il cerchio – quell’Enso che nello zen rappresenta l’universo, il vuoto e il pieno ed è simbolo di illuminazione.

_

Note

[1] https://www.lcdf.org/indeterminacy/s/75

[2] V. https://www.lcdf.org/indeterminacy/s/34

[3] V. https://www.lcdf.org/indeterminacy/s/116

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Cinquant’anni dalle poesie che non cambieranno il mondo

di Rosalia Gambatesa
Le mie poesie non cambieranno il mondo non voleva dire che lei non lo volesse cambiare. Quel titolo «era una provocazione, ma anche una forma di arroganza. Perché dire “le mie poesie non cambieranno il mondo” voleva dire il contrario. Cambiarlo, ma in maniera diversa, attraverso le parole.

Una storia emiliano-romagnola

di Valeria Merante
A Bologna un affitto è più caro di un mutuo ed è una notizia indegna. Tutti pensano al capitale investito come la ricchezza migliore. Matteo ha un camper e vuole vendere la sua casa immensa, non vede l’ora.

Nelle pieghe degli anni Ottanta

di Pasquale Palmieri
Chi scrive parte dal presupposto che quella stessa epoca non sia riducibile alle sole tendenze verso l’ottimismo e l’edonismo, ma sia allo stesso tempo attraversata anche da pesanti conflitti che ridefiniscono il rapporto fra individui e collettività

Scoprire, conquistare, raccontare le Indie. Intervista a Emanuele Canzaniello

di Pasquale Palmieri
"Da un lato il Breviario vive della vertigine dei dati minimi, della pazienza della scienza, della faticosa acquisizione che ci ha offerto la Storia. Vive e omaggia quella moltitudine di notizie, ne fa una sostanza plasmabile che è già narrazione.

L’Africa per noi. Su “L’Africa non è un paese” di Dipo Faloyin

di Daniele Ruini
In apertura del libro di cui stiamo per parlare troviamo, come citazione in esergo, questa indicazione: «Inserire qui un generico proverbio africano. Idealmente, un’allegoria su una scimmia saggia che interagisce con un albero. Fonte: Antico proverbio africano».

I nervi, il cuore e la Storia. Intervista a Rosella Postorino

di Pasquale Palmieri
“Siamo tutti mossi dal desiderio, dubbiosi sulla felicità possibile, tentati da un impossibile ritorno a casa, gettati nostro malgrado nella Storia”. Prendo in prestito queste parole dalla quarta di copertina del nuovo libro di Rosella Postorino
ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: