This must be the place. David Byrne e lo zen – prima parte

©Catalina Kulczar 2019

 

di Giorgio Sica

L’iconica This must be the place dei Talking Heads, uno dei brani più celebri dell’art rock a cui pochi anni fa Paolo Sorrentino ha dedicato un omonimo film, mi ha sempre stupito per il suo carattere buddista, più precisamente buddista zen. Alcune sue strofe sembrano tratte da un manuale di istruzioni per uno studente di meditazione e la stessa partitura musicale, con il basso che ripete un’unica frase per l’intera durata del brano mentre la chitarra suona su questa frase un’unica melodia in chiave più alta, sembra voler evocare, insieme al canto sillabico di Byrne, la circolarità di un mantra.

Già l’anelito iniziale, «Home is where I want to be», ha un chiaro sapore zen in questo riconoscere la propria casa nel mondo, nell’esatto luogo in cui si vuole essere. Ma è la seconda strofa a spiazzare chi conosca la letteratura e la terminologia collegata alle pratiche meditative giapponesi:

The less we say about it the better
Make it up as we go along
Feet on the ground, head in the sky
It’s okay, I know nothing’s wrong, nothing

Se a qualcuno di voi è mai capitato di fare meditazione zen, oltre all’invito costante al silenzio per scardinare gli schemi della mente, vi verranno ripetute fino allo sfinimento istruzioni del genere: «Spingete il cielo con la testaspingete la terra con le ginocchia».

Già secondo il Taoismo, che è responsabile dell’evoluzione del buddismo originario nel chán cinese e poi nello zen giapponese, si predica l’unione di cielo e terra come ristabilimento dell’equilibrio originario. E, come avverrà successivamente agli adepti dello zen, questo equilibrio trovato al di là, o al di qua, di ogni imposizione gnoseologica e etica porterà i taoisti al rifiuto di ogni morale acquisita e alla confutazione di ogni logica[1].

Ispirato da queste somiglianze tra i versi di Byrne e il discorso taoista-zen, ho iniziato a ricercare ogni possibile rapporto tra il front-man dei Talking Heads e lo zen e, con mia somma sorpresa e un po’ di sconcerto, non ho trovato nessuna dichiarazione diretta del gentleman di origine scozzese al riguardo, neppure un’intervista in cui gli fossero rivolte domande precise sull’argomento. Tuttavia, ho avuto modo di avere la conferma che l’influsso di questa particolare forma di buddismo si è rivelato a più riprese nell’opera di David Byrne, e non solo in quella musicale.

Ciò è dovuto innanzitutto –  la premessa è d’obbligo –  al fatto che Byrne si forma nella irripetibile New York dei primi anni ’70, un ambiente in cui l’influsso dello zen è ormai un dato di fatto acquisito in ogni ambito artistico. Le memorabili lezioni di D. T. Suzuki alla Columbia e poi a Berkeley – lezioni a cui assistevano incantati, tra gli altri, John Cage, su cui torneremo tra poco, Alan Watts, Jack Kerouac, Allen Ginsberg e tutta l’allegra banda della Beat Generation – segnarono un punto di non ritorno nell’immaginario dei giovani e irrequieti figli del boom.

Il maestro Suzuki verrà immortalato come Doctor Suzuki nei Dharma Bums di Kerouac, il racconto di una vera e propria iniziazione al buddismo zen del Nostro da parte dell’amico Japhy Rider, alter ego del poeta Gary Snyder, che nel romanzo come nella vita salperà per Kyoto, dove si ordinerà monaco zen della scuola Soto. Negli stessi anni J. D. Salinger infarcirà di elementi taoisti e zen le sue storie, dal koan del maestro Ikkyu riportato in epigrafe a Nine Stories (“A battere le mani sappiamo il suono delle due mani insieme. Ma qual è il suono di una mano sola?”) all’aneddoto sul domatore di cavalli trasposto dal Chuang-Tze in apertura di Raise High the Roof Beam, Carpenters; e soprattutto condenserà le sue aspirazioni al satori nelle indimenticabili figure dei fratelli Glass e, in particolare, nel primogenito Seymour, versione americana del mukti, dell’illuminato libero dalle catene del karma, che però potrà trovare un’ambigua liberazione definitiva solo nel suicidio, compiuto nell’indimenticabile finale di A perfect day for bananafish.

Quando all’inizio degli anni ’70 Byrne si trasferisce a New York da San Francisco, “essere zen” è già un modo di dire acquisito e i koan proposti da Suzuki (cioè le brevi frasi, spesso paradossali e enigmatiche volte a condurre al satori lo studente di meditazione) rimbalzavano ormai di bocca in bocca tra artisti e letterati di entrambe le coste[2].

In questo ambiente così ricettivo rispetto alla cultura buddista, Byrne ebbe modo di incontrare uno dei musicisti che meglio incarnarono in Occidente le idee dello zen, maestro suo, del suo sodale Brian Eno e di chiunque in quegli anni volesse fare musica sperimentale. Sto parlando chiaramente di John Cage, già allievo del maestro Suzuki in qualità di studente di filosofia orientale al Black Mountain College e ormai, in quegli anni, uno dei guru indiscussi della contro-cultura americana.

Vedremo, per forza di cose in maniera sintetica e rapsodica, come questi contatti con lo zen, spesso indiretti, permeino sia l’attività compositiva della mente dei Talking Heads che la sua stessa concezione della musica, espressa magistralmente nel suo How music works, il libro che riassume quarant’anni di carriera e che si pone come un interessante via di mezzo tra un saggio di teoria e storia della musica, l’autobiografia e il manuale per aspiranti musicisti che vogliano imparare a muoversi nell’infido mondo della produzione e della distribuzione.

Benché, come dicevo, non abbia trovato dichiarazioni dirette di Byrne, il suo interesse per lo zen doveva essere percepito sin dagli esordi della sua carriera se, già nel 1980, presentando al pubblico italiano l’ultimo lavoro dei Talking Heads, il settimanale l’Europeo ce lo presentava così:

In bilico tra cultura raffinata e spettacolarità, la fortuna dei Talking Heads è legata a David Byrne, figura di punta del gruppo newyorkese, e al più geniale esteta rock degli ultimi anni, Brian Eno. I risultati sono sconvolgenti: il nuovo e torrido disco dei Talking Heads (Remain in light); la sinfonia ipnotica di Eno e Jon Hassel (Fourth World); i collage di rock, musica araba e sermoni isterici che hanno tramato insieme Eno e Byrne (My life in the bush of ghosts, il disco non è ancora finito).

Il nuovo album dei Talking Heads, prodotto da Eno, è il manifesto di questo prodotto ed è stato salutato come un evento. La musica è indiscutibilmente lo specchio del carattere introverso di David Byrne. Ventotto anni, scapolo, voce evanescente, capelli corti e ben ravviati, Byrne ha qualcosa di Anthony Perkins in Psycho, un tocco di schizofrenia sotto un’aria di adolescente istruito. Infatti è colto, curioso di tutto: Camus e cibernetica, zen e Godard.

Al di là dell’accostamento un po’ teatrale a Anthony Perkins – eppure nell’accenno alla schizofrenia il giornalista colse qualcosa di Byrne che di sé stesso ha recentemente detto di essersi autodiagnosticato una sindrome di Asperger in forma lieve –  l’articolo dell’Europeo mette in luce l’eccentricità culturale del leader dei Talking Heads, di sicuro tanto nel campo musicale quanto nella formazione letteraria un autodidatta di talento e intuito straordinari.

Per avere un’idea del contesto in cui Byrne iniziò la sua avventura musicale, e per rimpiangere un po’ insieme tempi memorabili che sembrano lontani anni luce, facciamo dunque un salto indietro alla New York della metà degli anni ’70, dove iniziava l’avventura dei Talking Heads e dove Byrne viveva in un tugurio nel Lower East Side, a pochi metri dal CBGB, il mitico club di Hilly Crystal sulla Bowery dove mossero i primi passi tanti dei nomi destinati a maggior gloria del post-punk, tra cui Patti Smith, i Ramones e i Television di Tom Verlaine, oltre agli stessi Heads.

Come Byrne afferma ripetutamente nel suo libro, questa sorta di comune che ruotava intorno al CBGB ebbe un ruolo importante nell’indirizzare le scelte musicali e nel determinare il cammino intrapreso con i suoi sodali. In parecchi punti del testo, a cominciare dal primo capitolo, intitolato ironicamente «La creazione alla rovescia», sulla scia di Cage Byrne mostra una visione della musica e dell’atto creativo opposta al mito romantico del genio creatore e invece in sintonia con quello che è uno dei concetti cardine del buddismo, l’interdipendenza. Forte di queste prime esperienze nei club, dove moltissimo era dovuto all’azzardo e all’adattamento all’ambiente, Byrne afferma infatti, in netto contrasto con il mito della creazione come dono sceso dall’alto nel cuore dell’artista eletto, che il «vero cammino della creazione è agli antipodi da questo modello»[3]. Nei paragrafi successivi rafforza questo concetto ribadendo «che, inconsciamente e istintivamente, adeguiamo il nostro lavoro a schemi preesistenti» e, ancora, che «l’opportunità e la disponibilità sono spesso le madri dell’invenzione» e che, in tutte le arti, procediamo «creando opere che si adattano allo spazio disponibile»[4]. Questo, sottolinea sir David, vale anche per il canto degli uccelli che, anche se della stessa specie, modificano le loro frequenze in maniera tale da poter sfruttare al meglio l’acustica del fogliame e dei rami intorno a loro.

Queste dichiarazioni programmatiche di How Music Works credo siano un buon volano per comprendere l’intera parabola di Byrne. Un amante della poesia sentirà chiara l’eco della concezione del poeta espressa da T. S. Eliot in Tradition and Individual Talent e prima di lui, da Pound nella sua incessante attività di critico e polemista – entrambe le visioni chiaramente ispirate alla tradizione cinese e giapponese da Pound amate e poste a modello del rinnovamento della letteratura occidentale avvenuto nei primi decenni del ‘900.

Una delle linee guida del libro è, poi, l’attenzione di Byrne data al corpo: all’inizio della sua carriera, nella New York dei primi anni ’70, si assisteva a una vera e propria riscoperta del corpo, dal punk dei Ramones al glam di Bowie e alle posture androgine e tossiche di Lou Reed e Iggie Pop, fino al fenomeno della dance alla scoperta della musica africana. In questo variegato contesto Byrne ironizza sui tentativi necessari a trovare una propria via, che lo portò anche ad avvicinarsi al look del Duca Bianco. In particolare, ricorda la sua ricerca di una sua personale maniera di stare sul palco: «un ragazzo bianco che si sforza di ballare in modo sciolto e come un nero è uno spettacolo quasi insopportabile. Lasciavo che il mio corpo scoprisse, piano piano, la sua grammatica dei movimenti: spesso a scatti, spastici o stranamente formali».

Nel mezzo di questa ricerca, e del primo tour mondiale degli Heads, Byrne approda in Giappone:

Andai a vedere le forme teatrali tradizionali: Kabuki, No, Bunraku. Paragonate al teatro occidentale, erano estremamente stilizzate (…). Era come se i vari aspetti della performance di un attore fossero stati decostruiti, divisi in innumerevoli elementi costitutivi e funzioni. Bisognava rimettere insieme il personaggio nella propria mente.

Al termine di questa acuta analisi del teatro giapponese, Byrne si chiede se tutto questo sia applicabile a un concerto di musica pop e conclude: «Forse ero ormai pronto ad assimilare un nuovo modo di concepire l’esibizione, perché compresi all’istante che fosse possibile fare uno spettacolo senza fingere che fosse naturale».

Risultato di queste intuizioni è il video di Once in a Lifetime, singolo di Remain in Light, per cui Byrne elaborò «una complessa serie di movimenti che traevano spunto dalla danza di strada giapponese, dalla trance del gospel e da alcune mie improvvisazioni».

È interessante come proprio il testo di Once in a Lifetime sia uno dei più zen di quel periodo. Siamo di fronte all’improvvisa crisi del borghese nevrotico che vede crollare il suo mondo di certezze, come ben sintetizza Simon Reynolds nel suo The Sex Revolts: Gender, Rebellion, and Rock ‘n’ Roll: «Once in a Lifetime was brimming oceanic funk, the sound of Byrne’s neurotic protagonist suddenly overwhelmed by the satori of here and now».

Uno dei koan più noti della letteratura zen recita: «Se incontri tuo padre, uccidilo»; e pochi anni dopo Byrne invocherà la distruzione della legge del padre, e della sua logica, nel capolavoro Stop Making Sense – il tour e il film documentario diretto da Jonhatan Demme del 1984:

Decisi di rendere lo spettacolo totalmente trasparente. Volevo mostrarne i vari pezzi e come fossero assemblati. Il pubblico avrebbe visto ogni singola parte dell’attrezzatura che veniva sistemata e, poi, il prima possibile, quel che faceva quello strumento (o quel tipo di luce). Mi pareva un’idea così semplice che mi stupiva non conoscere un solo spettacolo (quantomeno musicale) in cui fosse stata usata. Seguirla fino alle sue estreme conseguenze significava cominciare con il palco vuoto. L’idea era che la gente avrebbe guardato il vuoto e pensato alle sue possibilità (…). Niente glamour e zero spettacolo anche se, naturalmente quello era già lo spettacolo.

In questa adesione al vuoto, in questo allestimento minimale della scena, è evidente la suggestione dello zen, attraverso le sue espressioni teatrali. Un’eco profonda dei concetti di wabi e sabi, che il Doctor Suzuki aveva illustrato ai suoi studenti americani, emerge da queste intuizioni di Byrne, come pure ci pare di rivivere la descrizione della Suki-ya, la Stanza del Vuoto, offerta da Okakura Kakuzo ai lettori americani nel suo The Book of Tea. Siamo di fronte a uno spazio vuoto da riempire con la fisicità dell’attore, come nella cerimonia del tè e nel teatro Noh, come risulta evidente in particolare nell’idea del suo abito che cresce di dimensione di brano in brano fino a divenire assurdamente largo, sul modello degli abiti del teatro giapponese, in Girlfriend is better che ripete il mantra distruttore della logica: «Stop making sense».

Lo stesso Byrne, in un’intervista del 2014 a Melissa Locker su Time, ha ricordato l’idea alla base della trovata:

I was in Japan in between tours and I was checking out traditional Japanese theater — Kabuki, Noh, Bunraku — and I was wondering what to wear on our upcoming tour. A fashion designer friend (Jurgen Lehl) said in his typically droll manner, ‘Well David, everything is bigger on stage.’ He was referring to gestures and all that, but I applied the idea to a businessman’s suit.

Parallelamente alla ricerca in questo settore, Byrne rifletteva ed espandeva le possibilità compositive e l’idea stessa di autorialità musicale insieme al suo amico Brian Eno. Il frutto celeberrimo della loro collaborazione in questa direzione sarà My life in the bush of ghosts, pubblicato con la Sire records nel 1981 e riedito nel 2006 dalla Virgin con l’aggiunta di 7 bonus tracks. Il titolo, com’è noto, è tratto dalla versione originale del romanzo omonimo dello scrittore nigeriano Amos Tutuola, una raccolta di favole che ha per protagonista un bimbo africano, attratto ed allo stesso tempo terrorizzato dalle molteplici creature magiche che incontra nel bosco.

L’album rappresenta una tappa straordinaria nella carriera di Eno e Byrne, che esplorano in modo assolutamente originale vari mondi legati al folk ed alla musica etnica, creando una connessione nuova tra questi e la neonata scena dell’ambient, e proseguendo il lavoro iniziato proprio con Fear of Music che, ricordiamolo, si  apriva con la splendida I Zimbra, adattazione di una filastrocca nonsense del poeta dadaista Hugo Ball con ritmi funk e africani. Entriamo negli anni ’80 e Byrne, che intanto ha proseguito questa ricerca con Remain in Light, composto con l’ausilio di Fela Kuti e dei suoi musicisti, apre le porte alla world music insieme a Eno proprio con My life in the bush of ghosts, che si pose alla base delle molteplici direzioni in cui la musica degli anni ottanta e novanta si sarebbe sviluppata e che lo stesso Byrne proseguirà sia con i suoi lavori in combo con musicisti sudamericani nella seconda metà degli ’80, che culminano nell’album solista Rei Momo (89), che con la fondazione nel 1988 di Luaka Bop, l’etichetta che ha fatto conoscere in Occidente alcuni dei maggiori artisti africani e sudamericani, tra cui Tim Maia, Tom Zé, Cesaria Evora e tanti altri. Una testimonianza inaspettata e, per questo, ancora più significativa dell’importanza di questo album ci è data da Hank Schocklee dei Public Enemy, ritenuto il gruppo rap più influente della storia, che ci spiega, come ispirati dal lavoro di Byrne e Eno: “Prendevamo qualsiasi cosa potesse dare fastidio e la buttavamo nel pentolone. È così che siamo usciti con questo gruppo, pensavamo che la musica non fosse nient’altro che rumore organizzato. Puoi prendere di tutto – suoni della strada, noi che stiamo parlando, quello che vuoi – e renderlo musica organizzandolo”.

Riflettendo, oltre 30 anni dopo, su questo straordinario esperimento in How Music Works, Byrne mette a fuoco, di nuovo, la sua idea di musica totalmente differente dalla vulgata romantica dell’artista ispirato:

Fare musica è come costruire una macchina la cui funzione è suscitare emozioni nell’interprete come nell’ascoltatore. Alcuni trovano l’idea ripugnante perché sembra abbassare l’artista al livello dell’imbroglione, del manipolatore e del mentitore, a una sorta di onanista. Alcuni preferirebbero (…) credere che l’artista sia qualcuno che ha qualcosa da dire. Sto cominciando a considerare l’artista una persona abile nel creare dispositivi che attingono alla nostra conformazione psicologica comune e stimolano ciò che muove tutti noi nel profondo. In questo senso, il concetto convenzionale di autore è discutibile.

 

[La seconda parte dell’articolo sarà pubblicata domani]

_

Note

[1] Tra le centinaia di aneddoti che testimoniano questa libertà estrema, vorrei qui ricordare soltanto il dialogo tra il brigante Zhi e Confucio, riportato nel Libro di Chuang-Tze, in cui il filosofo padre dell’etica “ufficiale” cinese prova a redimere dialogicamente il più celebre brigante della sua epoca, ricevendone un sonoro schiaffo logico e morale che lo costringe a ritirarsi in buon ordine; e, ancora, la morte del più grande poeta cinese di ogni tempo, Li Po, che annega cascando ubriaco da una barca nel tentativo di afferrare la luna.

[2] Una sorta di trasposizione letteraria del senso di straniamento provocato del koan ci veniva offerto, in quegli anni, dalla poesia e dalla narrativa apparentemente stramba di Richard Brautigan, un’altra icona della generazione hippie.

[3] Tutte le citazioni di Byrne sono tratte da D. Byrne, Come funziona la musica, trad. di A. Silvestri, Bompiani, 2013.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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