Francesco Iannone: il mestiere della cenere
È uscita per peQuod la raccolta poetica Prima opera del gesto di Francesco Iannone. Ospito qui alcuni estratti dal libro, in anteprima.
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Questo è il sangue, questa è la numerazione
la voce pacificata dei giorni
dopo il danno dopo
il nostro abbattimento.
Siamo qui perché è la legge
e io ci credo
come l’ultima folata
che rimette in cammino la fiamma
e così vivremo
reali in questo spargimento
saremo il lampo che solleva
la cenere dal mucchio
e ricompone il reperto in alto.
Tutto muore un’altra volta e si consegna
alla durata
c’è una guerra qui e ci si ama
come si potrebbe amare un posto
del prima, un glorioso luogo
della gioia
c’è una guerra qui e la goccia che cade
fa tremare la tua ombra nella pozza.
Il nuovo mondo assomiglia al nome
che non si staccherà mai più dalla sorgente
come un codice inciso sullo stemma
chiama il suo significato dal fondo
mai più, mai più
le poesie, le foglie se cadono
coprono il disastro, tolgono
peso alle rovine.
Questo è il campo, qui è feconda
ogni mutilazione
ci salveremo allargando lo scavo
restituiremo il frammento all’intero
luce dopo luce fino al gesto,
al dettaglio, al panorama.
Fammi abitare ogni lettera del tuo nome
la mia voce cavalcherà ogni sillaba
in essenza
come l’impavido fantino cavalca
il puledro più spericolato
è perché ti amo che ogni interstizio
è la casa ampia del raggio, l’ultima
avventura del tramonto.
Ti chiamerò da una sperduta
isola di me
ti racconterò laggiù come si vive.
*
Siano le mie tristezze le micce sulle fibre dell’incendio quando si attraversano gli anelli. Salto dopo salto, tutte le volte delle vampe. Gemere nel blocco è il mestiere della cenere e il nostro.
*
Siamo quell’attesa in alto della fame, la vitrea intonazione delle biglie che la terra ingoia nel suo festante oblio. Quell’eco sulle vele del racconto avanzerà nel nome di ciò che siamo stati, l’immagine rifluita nelle fughe, lo stacco della luce e le sue progeniture di bene, le cantine della preparazione.
*
Estrai i tuoi vocaboli nuovi dall’ossario. Esponili alla loro ovvia brillantezza, ai loro crampi di dolore. Con la voce appoggiata al filo spinato, col sole che ci inoltra le sue mille lame nel petto. Oggi siamo felici. I bambini fiatano nella bocca del mondo e fanno luce aprendo le mani. Non andartene più, e dalle ciglia ti volano semi d’oro, attese, tormenti.Tu dillo, e saremo. Con le fiamme fra i denti, saremo. L’ultimo grammo di ossigeno che si insinua in una frattura. Saremo noi stessi la frattura, lo sfogo del getto d’acqua, un’alluvione nella memoria. E saremo gentili nella lotta, radunando dolcemente cadaveri e fogliame.Vi prego, corpi di qui. Vi amo, corpi di qui. C’è dell’acqua sulle dune delle vostre pance gonfie. C’è un tremolìo di anelli, una radice trasparente, una nascita, il sangue.
*
Se torneremo a cucire l’orlo alla veste del mondo, se sapremo saltare la fune, fendere il sacco. Se i muti resteranno con i loro vocaboli dimenticati nel cesto. Gli angeli si toccano i genitali nel buio. Da qui si vede che erano umani e che nei loro corpi agivano maree. Si spaccano i petti a furia di tossire. Hanno le unghie piene di nero, i denti rotti a metà. La gioia è una belva con le rughe. E ora mostriamo al mondo le nostre teste calve. Vagiti. Nudità. Deragliamenti. Spostiamo vagoni di noi, avanziamo scrostando la ruggine sulle rotaie. Ammucchiamo le ossa sotto gli archi. I nomi soprattutto. Ha espulso il feto. Si è crogiolato nel suo rosso. La fine. È già stata qui mille volte.