Esperimento su Bòttego
di Fabrizio Bondi
Esperimento su Bòttego è un progetto che parte dalla mera e quasi disarmata descrizione di uno specifico oggetto culturale: il monumento parmigiano all’esploratore Vittorio Bòttego, appunto. Da qui si dipanerà un libro (?)aperto a ogni digressione, che incorporerà stralci letterari, citazioni, montaggi di documenti via via più complessi e specifici sul Monumento, sullo Scultore del medesimo ma soprattutto sul suo Protagonista, sul suo centro: l’Esploratore.
Tale ‘libro senza forma’ nonché a relativamente bassa autorialità (l’autore, le sue idee e le sue fìsime vi compaiono come un oggetto tra gli altri) tenterà sí di riflettere sul significato della nostra prima ambigua esperienza coloniale in Africa, ma attraverso di ciò carpire anche un quid allo Spirito stesso del Colonialismo: di quello italiano, soprattutto, ma non solo.
Un tale manufatto composito e aspecialistico mira a conti fatti a rispondere a una domanda (o forse a esserne in un certo senso l’equivalente): se e come l’idea europea di esplorazione, di sfida all’ignoto, di appropriazione ‘scientifica’ della natura non facciano tutt’uno con un’interminabile generale volontà di presa sul mondo, che non ha smesso di segnare i nostri rapporti col pianeta.
«Nazione Indiana», documentando qui con generosità l’ouverture dell’Esperimento, darà eventualmente notizia ai lettori del suo verosimile naufragio.
Esperimento su Bòttego
Erezione: da usare solo per i monumenti.
Flaubert, Dictionnaire
… l’uomo agisce come un animale «drammatico» di fronte al masso granitico di una natura che può essere sempre e soltanto il quieto sfondo delle operazioni umane. Il pensiero ontologico dello scenario continua a restare in vigore anche dopo l’avvio della rivoluzione industriale, sebbene la natura-sfondo venga ora intesa come un integrale deposito di risorse e come un’universale discarica pubblica.
P. Sloterdijk, Cos’è successo nel XX secolo?
…qualcosa di scritto…
Pasolini, Petrolio
PROTOCOLLO I
Autopsia.
Avendo affari di vario genere nella città di Parma molte volte mi sono trovato al cospetto del monumento a Vittorio Bòttego. Del resto, essendo quest’ultimo esattamente prospiciente all’entrata della stazione, è difficile non gettarvi almeno un’occhiata, anche non volendo. Da anni mi sono riproposto di esaminarlo con maggiore cura, ma come accade con le cose che ci sono troppo propinque e di comodo accesso, ho sempre rimandato.
Qualche tempo fa, invece, avendo perso una coincidenza proprio a Parma, ed avendo più di un’ora da aspettare, mi decisi finalmente ad avvicinarmi al monumento e dedicarmi alla vagheggiata ispezione.
Sento il bisogno di avvertirvi, però — prima che l’osservatore qualunque (quale io peraltro ero e volevo essere in quel momento: osservatore sguarnito di ogni nozione, dunque al caso anche di ogni pregiudizio, solo seminfarinato da una voce di wikipedia intraveduta sul cellulare: e magari anche meno), prima che l’osservatore dicevo cerchi di farne l’analisi del periodo, di individuarne il soggetto e l’azione principali, e i complementi, o addirittura azzardarne un’analisi retorica o a maggior ragione un’ermeneutica — che il suddetto monumento parmigiano a Vittorio Bòttego è per così dire protetto da due insidie di natura grafo-fonetica.
Si tratta naturalmente, in primo luogo, della baritonesi del cognome, un fiero sdrucciolo: guai, infatti, a chi si azzardi ad accentare Bottègo, riportando l’intrepido esploratore dell’ignoto ad una dimensione che gli è del tutto e costituzionalmente estranea, anzi contraria: quella della ‘bottèga’, appunto, del borghesuccio commercio, con la relativa ‘casa’ e tutto l’armamentario maleodorante della figliolanza, dei pasti, del dolce ma granitico giogo coniugale.
L’altra insidia, che insieme alla precedente sbarrano l’accesso al segreto del monumento a Bòttego, è quella relativa al nome del suo autore, lo scultore Ximenes, del quale molti pronunciano la consonante iniziale come la x di xilofono, mentre invece essa, in verità, è una illustre aspirata greca o spagnola (traslitteriamola, un po’ alla buona, ch-). Questa notizia la appresi vent’anni orsono da un mio tonante professore di storia dell’arte. Sembra niente ma a me, il viaggiatore-osservatore ignaro e un po’spaurito, l’omino con l’ombrello e l’impermeabile che voglio essere ora, queste nozioni rassicurano. (Sembra niente ma simili tranelli tendevano gli Arconti della Gnosi alle anime in viaggio verso il Plèroma – altro accento bizzarro, ci sono insidie ovunque, devo stare attento – esigendo parole d’ordine particolarmente astruse. Quelle basivano e… Ritenta, cara animula impreparata e poco pia: torna a Settembre).
Io, in questa prima fase, sono e mi voglio al riparo da quelle due insidie soltanto: per tutto il resto, nudo come un verme.
Dunque vediamo. L’esploratore troneggia (in piedi) in pizzo a uno sperone di roccia, appoggiato non si capisce se a un fucile o a una picozza, vestito correttamente da esploratore, ovvero con l’elmetto o casco e le brache alla zuava. Ha due baffoni, Bòttego, e uno sguardo fiero, uno sguardo che potrebbe essere materia di leggende locali, tipo lo sguardo di Bòttego ti segue, eh, se tieni fisse le tue pupille nelle sue e ti muovi. Ovviamente non succede niente del genere, né a Parma se ne è parlato mai, almeno che io sappia.
Alla destra, e alla sinistra, della svettante figura di Bòttego, su di un suolo che appare lussureggiante di flora e di roccia, giacciono due simulacri di corpi seminudi (invero adeguatamente scultorei) che non saprei definire altrimenti che col sostantivo «indigeni» e col participio aggettivale «sgominati» (naturalmente dall’eroe, da lui, da B.), facendo così spirare, me ne rendo conto, su questa pagina un aroma come di vecchio giornalino o romanzo d’azione da edicola (vecchia pure quella). Del resto, colle loro lunghe penne svettanti in capo, la coppia mi ricorda certi soldatini che tesaurizzavo da piccolo. In effetti è come se l’eroe medesimo non appaia solo come un esploratore, ma anche come una specie di poliziotto al cui arrivo i due pennuti delinquenti siano arretrati fino a cadere all’indietro, dalla paura che hanno preso.
O forse, piuttosto, si è trattato di una competizione per il possesso dello speroncino di roccia, una specie di corsa con salto finale nella quale Bòttego sia risultato vincitore, atterrando a piedi pari al centro del detto speroncino e facendo, contestualmente, cadere di lato i due indigeni (magari aiutandosi con qualche gomitata ben piazzata) che di conseguenza si siano trovati disposti, uno di qua, uno di là, col posteriore sulla Madre Terra: al contatto della quale si diceva che il gigante Briareo suo figliolo ripigliasse forza, se atterrato nel corso di una delle titaniche battaglie che usavano allora.
In questo caso non ci è dato sapere se i due pennuti, in un frame successivo della sequenza evenemenziale rievocata, si siano poi rialzati, rompendo così quelle che mi azzarderei a definire le loro pose plastiche. I due, infatti, giacciono sulle rispettive stiene o fianchi con una certa eleganza, direi, parzialmente poggiandosi ai gomiti con stile neoclassico. Per ora, cioè per l’eterno (?), essi si limitano a guatare il trionfatore con aria miope e cattiva; se la scena si fosse svolta, putacaso, a Roma, essi avrebbero potuto masticare fra i denti all’indirizzo dell’intrepido qualche interiezione gustosa tipo «Li mortacci tua», o simili.
Ma insomma non mi risulta che Bottego fosse andato in Africa per fare la guerra — anche se pure un disinformato babbeo come me ci arriva, a pensare che un terreno ben esplorato e dunque noto sia poi più facile da colonizzare ed occupare manu militari — ma bensì allo scopo di scoprire, di cartografare, nonché naturalmente di sfidare nientemeno che l’Ignoto, e «giungere là dove nessuno è mai giunto prima», per citare un telefilm che si rifiuta ostinatamente di passare di moda.
Ora mi viene in mente, o meglio mi rampolla su da chissadove, una mezza frasetta che non posso comunque ricacciarmi in gola, benché suoni piuttosto antipatica. La mezza frasetta è la seguente: «vincendo l’ostilità delle popolazioni locali». Clichés a parte, è logico ed evidente che le popolazioni locali debbano essere state ostili all’impresa di B., almeno, a rigore, in quell’ultima fase di presa del roccione, sennò mica c‘era bisogno di rappresentarle così, marchianamente vinte. Le popolazioni, deduco, devono avere in qualche modo cercato di rendergli la vita difficile, di sbarrargli l’accesso al poggiolo, al podio roccioso di dove egli contempla la stazione dei treni di Parma, da poco – come il Monumento medesimo – ristrutturata. Anche questa collocazione è invero piuttosto misteriosa: perché hanno piazzato il monumento proprio lì?
Forse per beneaugurio ai viaggiatori, anzi agli utenti delle Ferrovie, anch’essi in viaggio, diciamo così, verso un loro piccolo ignoto, un ignoto in sedicesimo?
Ma perché, d’altra parte, essere così minimalisti? La presenza carismatica, benché in simulacro, dell’esploratore potrebbe aver avuto ben altra e più alta funzione, nella mente dei commmittenti e degli artisti che realizzarono il Monumento. Insomma: là d’«in su la cima» come da un traliccio trasmittente lo spirito di Vittorio viene forse insufflato in ogni viaggiatore transitante per la stazione di Parma, in modo tale che egli intraprenda il suo viaggio collo stesso spirito di avventura, sete di conoscere, disprezzo del pericolo che furono (ipotizzo fiducioso) caratteristiche dell’Eroe, e che dunque portino il viaggiatore sunnominato a vedere in ogni tratta, in ogni scambio una sfida (non è forse un po’ così del resto, Bòttego o non Bòttego, quando prendiamo il treno?); in ogni viaggio torturante sopra un regionale in via di disgregazione come su una costosissima «freccia» un’epica cavalcata, o una marcia forzata ai limiti delle possibilità umane; in ogni tappa raggiunta, un trionfo, con relativa bandiera conficcata maschiamente nel terreno. Mentre risalgo sul convoglio che mi deve portare nella mia città io stesso mi sento piuttosto elettrizzato, come se questo viaggio fosse una breccia nel Possibile, l’anello che non tiene, il varco (piegate le sbarre) nella gabbia di insopportabile monotonia che pervade le nostre vite: al punto che, se non ci fossero ogni tanto le disgrazie a movimentàrcele, pochi di noi sopporterebbero di vivere.
All’arrivo alla stazione sono infatti accolto da una folla che, lo so, è lì per me. Sono pervaso da un senso di benessere e di benevolenza, di importanza, di fertile equilibrio interiore: sono una bambola gonfiabile gonfiata dall’aria dei Tempi d’Oro. C’è la Banda, ci sono gli Orfanelli coi fiori e i canti, il Sindaco con la corona, il Prete che benedice. La folla si apre al mio passaggio, guardandomi con volti illuminati dal sorriso della felicità e come ammiccanti, quasi mi invitassero ad alzare il capo e a volgere i miei occhi verso l’alto e allora – allora lo vedo, il Monumento. Abbattutto quello, superfluo, a Garibaldi (che aveva prima, comunque, soltanto la funzione di indicare con la spada drizzata la direzione verso il Centro Città) alla stazione di Cremona è stato eretto ora un monumento a me: e la cosa mi sembra giusta e naturale, la approvo senza gonfiarmi di vanto né incipriarmi di falsa modestia.