Svalbard, senza alzare la voce

 

 

di Nick Casini

È tradizione che ogni anno, alla fine degli ottantadue giorni di buio che calano sull’arcipelago delle Svalbard tra novembre e febbraio, gli abitanti di Longyearbyen si ritrovino sugli scalini del vecchio ospedale cittadino per festeggiare il ritorno del sole. Quegli scalini sono il primo angolo della città colpito dai raggi solari: a volte è una mattina di vento come tante altre e c’è tempo solo per dei saluti; altre, invece, ci si trattiene per brindare e scambiare qualche parola. Oggi l’ospedale non c’è più – c’è una chiesa luterana al suo posto – e anche gli scalini non sono quelli di una volta. Quelli originali sono andati distrutti, insieme all’intera Longyearbyen, sotto i bombardamenti della marina tedesca durante la Seconda guerra mondiale; ma a nessuno importa, perché non si sceglie di vivere al di sopra del 78° parallelo, dove le montagne e i fiumi mutano forma da un anno all’altro, se si ha paura del cambiamento.

***

È il ventidue ottobre, e all’una di pomeriggio lo Svalbard Lufthavn Longyear è già avvolto in un crepuscolo umido. La riproduzione in scala 1:1 di un orso polare sorveglia il nastro trasportatore dei bagagli, mentre i miei compagni di viaggio, sferzati dal vento gelido che frusta la pista di atterraggio, continuano ad entrare alla spicciolata. L’ultima mezz’ora di viaggio l’abbiamo passata con gli sguardi spalmati sugli oblò, mentre sotto di noi scorreva un panorama di basse montagne ghiacciate simile ad uno sconfinato pannello fonoassorbente, che si appianava solo di fronte al mare o per spingersi verso l’entroterra sotto forma di spaventose valli disabitate. Lo stesso accade quando il pullman che ci porta verso Longyearbyen (il capoluogo) si lascia l’aeroporto alle spalle. Percorriamo a bassa velocità una delle poche strade asfaltate dell’arcipelago e guardiamo da lontano il Seed Vault, il famoso parallelepipedo conficcato nella montagna custode della natura del pianeta terra. Non sono l’unico a trovarlo poco impressionante (piccolo) rispetto alle attese, ma la voglia di stupore è tale che nessuno si lamenta ad alta voce. Intanto, Longyearbyen (il nome viene da John Munro Longyear, l’imprenditore minerario americano che fondò qui – nel 1906 – il primo insediamento, e da byen che vuol dire città) compare poco alla volta, preceduta da una piccola zona industriale che non si rivelerà poi così diversa dalla città stessa.

Nonostante i condomini a quattro piani di recente costruzione, Longyearbyen ha l’aspetto di un grande avamposto da cui tutti sembrano pronti a fuggire con poche ore di preavviso. Gli edifici non hanno fondamenta – i continui movimenti del permafrost le rendono inaffidabili – e, per lo stesso motivo, molte tubazioni sono posate fuori dalla terra, come giochi dimenticati in giro da un bambino. Non ci sono ospedali né cimiteri; niente alberi, aiuole o semafori. Longyearbyen è lo scheletro di una città, la sua radiografia. I fiumi rimangono ghiacciati e coperti di neve per mesi, le montagne sono basse, franose e dalle cime appiattite, il mare ha il colore del petrolio. Dove non c’è il bianco della neve, c’è il grigio della roccia (o del ghiaccio) e il nero del carbone. In giro vedo solo persone giovani, in salute e che sembrano di passaggio. Mi dà subito la stessa impressione anche Léna, una musher (il termine con cui si identificano i conducenti di slitte trainate da cani) francese di cui faccio la conoscenza a cena. Il ristorante dove ci conosciamo è ricavato in una serra che guarda verso i binari di una miniera di carbone in disuso, ai margini della città. Léna è qui da due anni, e prima ha lavorato in Svezia, in Alaska e nello Yukon. Un trittico – letteralmente – da brividi.

“Alaska is where the money is”, dice senza rimpianti in un inglese smussato dall’accento francese. “But Yukon is the most beautiful place on earth.”

Adesso vive con il fidanzato poco fuori Longyearbyen (quindi al confine con il nulla), ma non si sbilancia su quanto intenda rimanere. Nemmeno la cameriera meranese che ci serve ha intenzione di trattenersi a lungo: mi dice che è stata una bella esperienza, ma presto tornerà a casa. Due tavoli più in là, avvolti in maglioni colorati, chiacchierano quattro ventenni venuti a studiare geologia e geofisica all’UNIS (University Centre in Svalbard) che, come tutto il resto da queste parti, è il world’s northernmost. Quassù, tra il serio e il faceto, qualsiasi cosa è definita la world’s northernmost: il parrucchiere del centro commerciale, il birrificio artigianale, il furgoncino di street food di Ulf Kjelleberg, il quale se la ride quando, uscito (io) per un’improvvida passeggiata notturna, gli faccio notare che ci vuole coraggio per fare la sua professione da queste parti. Ulf ha il viso rotondo e lo sguardo gioviale, ma nessuna voglia di parlare di sé stesso. Cambia discorso e mi offre un hot dog, che rifiuto visto che ho la pancia piena di foca (che sa di fegato) e patate lesse. Mi chiede cosa ne penso della Roma che, il giorno prima, ha perso 6-1 contro il FK Bodø Glimt, squadra norvegese di cui non conoscevo l’esistenza e che scopro giocare in uno stadio da nemmeno cinquemila posti all’interno del circolo polare artico (poco sotto Tromsø). Una vittoria così larga contro una formazione di blasone come quella Roma è un evento che da quelle parti ha fatto scalpore, ma io, per sua grande sorpresa, non ne so nulla. Ci salutiamo presto perché iniziano ad arrivare i primi clienti, attirati fuori dalle bollenti stanze di albergo dallo Svalbard Blues, il festival musicale (dai prezzi d’accesso esorbitanti) che si tiene in quei giorni per salutare l’inizio della polar night, la stagione in cui il sole non sorge più all’orizzonte. A differenza che nel resto d’Europa, qua le stagioni sono soltanto tre, e la fine (o l’inizio) di ciascuna di esse è sempre motivo di festeggiamenti. C’è la polar night, che va da fine ottobre a fine febbraio e corrisponde al crepuscolo (o buio) permanente; il midnight sun, che va da fine aprile a fine agosto e in cui c’è luce a qualsiasi ora del giorno e, per ultimo, il day sun che è l’alternanza, più o meno bilanciata, del giorno e della notte (come la conosciamo noi continentali) e che copre i mesi di transizione, quindi marzo-aprile e settembre-ottobre. Inutile chiedere agli autoctoni quale preferiscono, perché le risposte che si ottengono sono sempre molto democristiane.

“Ogni stagione ha le sue bellezze”, mi assicurano i commessi dei molti e fornitissimi negozi di abbigliamentooutdoor. Io però insisto, e alla fine ammettono che quasi tre mesi senza sole sono lunghi. Nessuno nomina però il freddo, come se quello – davvero – fosse solo una preoccupazione da turisti.

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Il kennel dove lavora Léna si trova ad una manciata di chilometri ad est di Longyearbyen, all’imbocco della tundra di Adventdalen, e ha l’aspetto di un piccolo ranch. C’è una struttura principale – dove alloggiano Léna, il suo fidanzato e gli altri soci – e una struttura più piccola che fa da magazzino. Vicino all’ingresso c’è una capanna di legno dove, al termine delle escursioni in slitta, i turisti vengono rifocillati con aria calda, solbærsirup (succo di lampone zuccheratissimo e bollente) e biscotti, mentre le guide narrano storie sugli orsi polari (ci sono sempre di mezzo gli orsi polari nei racconti per turisti). Tipo quella volta che un orso (affamato e spaesato) è arrivato indisturbato fino in città – per l’esattezza davanti ad uno dei pub più frequentati della città – costringendo gli avventori a barricarsi dentro e la polizia a narcotizzarlo e rispedirlo, tramite elicottero, nelle aree protette (e inaccessibili) del nord. Oppure, quando un orso si è intrufolato nella dispensa di un kennel, proprio uguale a quello dove siamo adesso, e si è trangugiato le riserve per un mese di cibo per cani. Anche in quel caso la procedura era stata narcotici e trasporto aereo, solo che la pancia dell’orso invece che essere vuota come al solito era piena, e l’effetto muscolo-rilassante dei narcotici aveva causato la fuoriuscita di un fiume di bisogni corporali che si era riversato nell’elicottero rendendolo inutilizzabile per i tre giorni successivi. Anche se siamo all’inizio dell’escursione, invece che alla fine, Léna continua a raccontare storie, mentre io e miei compagni di avventura (un italiano di casa a Tromsø che ci tiene a non parlare italiano e un carpentiere norvegese ubriaco arrivato da poco a Longyearbyen con la moglie) scendiamo dal van e i cani, sopraffatti dall’eccitazione, iniziano ad abbaiare ad un volume infernale. Saranno almeno un centinaio (un affettuosissimo incrocio tra Greenland dog e husky, mi assicura Léna), sparpagliati davanti a cucce di legno coperte dove vengono tenuti legati quando non ci sono esercitazioni da fare o turisti da portare a spasso. Léna corre ad accarezzarli con trasporto materno, mentre il marito (uno spagnolo barbutissimo) viene ad accoglierci all’ingresso e si occupa subito di formare su una lavagna i team di cani che ci guideranno nella tundra. Ogni team è formato da due cani leader che vengono legati in testa alle slitte (sono i cani dotati di maggior esperienza ed affidabilità) e da altri quattro che compongono il resto del motore. Appena i team sono formati, Léna ed il marito ci invitano ad andare a prenderci i cani, ricordandoci di accarezzarli e familiarizzare con loro prima di slegarli. Se fanno resistenza, o cercano di andare dove pare a loro, ci consigliano di sollevargli le gambe anteriori per togliergli due punti d’appoggio e poi tirarli per il collare. Visto che non è ancora caduta abbastanza neve, ci dicono anche che invece delle slitte di legno tradizionali utilizzeremo delle slitte con le ruote, simili a go-kart senza motore, di modo da non sciupare il permafrost. Ogni slitta è dotata di due posti – uno in piedi per il musher e uno a sedere per il passeggero – e il musher ha davanti a sé un manubrio con un freno simile a quello di una bicicletta che, agendo sulle ruote, dovrebbe aiutare i cani a capire quando è il momento di rallentare. Il manubrio serve anche a girare, ma Léna ci raccomanda (tre volte) di impostare le curve con largo anticipo perché non sempre i cani hanno voglia di seguire la direzione indicata dal musher. Per quanto riguarda l’accelerazione, ci dice invece di non preoccuparci perché i cani vogliono sempre andare al massimo.

Svalbard 2021

Impregnati da capo a piedi dell’odore selvatico (e dai peli) dei nostri compagni di viaggio, una volta che tutti i team sono stati tutti assicurati ai rispettivi go-kart, usciamo in strada e puntiamo verso est. Camion carichi di carbone ci sfrecciano accanto ad intervalli radi ma regolari, mentre renne sparpagliate tutt’intorno brucano scheletri di cespugli. Tralicci dell’energia elettrica sorvolano chilometri di nulla, mentre sulle montagne circostanti sono ancora visibili, come cicatrici, i binari delle antiche miniere di carbone. Davanti a noi, come un castello, svetta il profilo scuro della Gruve 7, l’ultima miniera di proprietà norvegese ancora attiva nell’arcipelago (i russi ne hanno una tutta loro nella vicina città di Barentsburg, ma quella fa storia a sé). Come le sue predecessore, anche la Gruve 7 è destinata a chiudere i battenti (nel 2023, a quanto pare), e si lascerà alle spalle un’ottantina di operai senza più un lavoro e qualche rimpianto soffocato in nome del progresso.

Léna allunga la mano verso sinistra, e allora lasciamo la strada asfaltata e ci avventuriamo nella tundra vera e propria. I cani si distendono nello sforzo, e adesso le ruote dei nostri go-kart scorrono (un po’ impacciate) sulla neve. La tundra è una sconfinata prateria ghiacciata di cui la crescente oscurità sfuma i confini, dove le distanze si moltiplicano nel momento in cui ci si avventura a percorrerle. Basse montagne innevate la circondano come argini di un fiume, ricordi di quando tutto questo era sommerso sotto chilometri di acqua. Cerchiamo di impostare un buon ritmo di marcia, e i cani – entusiasti – ci assecondano, ma il go-kart guidato dal norvegese sbronzo sbanda paurosamente un paio di volte e allora siamo costretti a fermarci per capire cosa c’è che non va. Mentre Léna cerca una soluzione, l’italiano trapiantato in Norvegia – quello che non vuole parlare italiano e che alla partenza mi ha ceduto senza cerimonie il ruolo di musher – si alza dal sedile per godersi la grande luna chiara che si è impossessata del cielo. Una nuvola la copre come un velo, dando l’impressione che stia andando a fuoco. La neve – un manto candido e ininterrotto – brilla come sale marino sulle montagne. Longyearbyen, l’ultimo appiglio di civiltà che ci eravamo portati dietro, intanto, è scomparsa alle nostre spalle. Provo a scattare qualche foto, ma tengo sempre una mano ben stretta sul freno del go-kart perché i cani si agitano e hanno una gran voglia di ripartire. Léna torna indietro caracollando e fa cenno che è tutto a posto. Ha il viso arrossato dalla fatica (ha riparato qualcosa, in barba ai miei pregiudizi sul norvegese ubriaco a cui attribuivo ogni colpa), ma ha anche dovuto cedere il suo maglione alla moglie dell’ubriacone che scopriamo essersi presentata per l’escursione (-15°C) con un pile da après-ski, ed adesso è in ipotermia. Mentre corre, Léna cerca di tenere fermo il fucile che le balla sulla schiena e dal quale non si separa mai. Sembra che rida, che tutto questo (gli imprevisti, la tundra gelata, quei cani pestiferi) la diverta sul serio. Il norvegese ubriaco le chiede, urlando, se crede davvero di riuscire a fermare un orso polare con quel fucile.

“It’s cold, it’s dark and bears are big,” dice. Poi ride sguaiatamente.

L’italiano trapiantato in Norvegia lo guarda male perché sta facendo fare una brutta figura alla sua patria adottiva davanti ai miei occhi. I cani ricominciano ad abbaiare e a tirare come ossessi perché hanno capito che stiamo per ripartire.

***

Per il visitatore, al di là degli aneddoti e qualche raro incidente, quella degli orsi polari è una minaccia tanto onnipresente quanto disattesa. In quei giorni di fine ottobre, strisciando dentro grotte congelate, facendo trekking su ghiacciai e lunghe escursioni in un mar glaciale artico ancora navigabile, mi viene spontaneo associarla alle albe e ai tramonti, momenti annunciati con precisione scientifica ma che sembrano non arrivare mai. La luce cresce e cala a ritmi estenuanti, uno stillicidio che fa rimpiangere la frenesia dell’equatore dove i cambi di luce hanno la fretta degli uccelli migratori. È la neve, invece, a mantenere ogni promessa; non c’è fiocco che vada perduto. Cade fitta e addolcisce il panorama, gli dona sembianze che risultano familiari anche ai miei occhi continentali, nasconde il grigio inquietante di un ghiaccio che non se ne andrà per i prossimi sette mesi. È un evento inevitabile, spoglio della retorica con la quale viene celebrato nei paesi del sud Europa e in linea con lo spirito di essenzialità del luogo. Me ne vado dopo sette giorni senza la pretesa di sapere granché di Longyearbyen, ma sotto molti aspetti non l’ho trovata così diversa rispetto al pezzo di mondo da cui si trova tanto isolata. I turisti – come in ogni paese di buon senso – sono temuti perché minacciano la magia e l’integrità del luogo, ma sono indispensabili a un’economia ormai affrancatasi dall’estrazione del carbone. Di rassettare le camere negli alberghi, di fare i commessi al supermercato e i sottocuochi nei ristoranti, non importa se siamo al 78° parallelo, se ne occupa (in gran parte) una foltissima comunità filippino-thailandese, e non so perché la scoperta mi abbia stupito. Gli orsi polari sono trattati con riguardo pari a quello riservato agli esseri umani, ma al negozio più chic di Longyearbyen ce n’è uno (impagliato) in vetrina importato dalla Siberia. I menù dei migliori ristoranti propongono piatti a base di foca, renna, arctic char e balena, ma – escludendo i vezzi dei turisti – ad andare per la maggiore sono pizza, hamburger e patatine fritte.

Quello che di diverso c’è da qualsiasi altrove è una fiducia preventiva nei confronti del prossimo, figlia di un turismo ancora vergine che dà per scontate onestà e prudenza. Il controllo del rispetto delle regole, la loro emanazione, non è delegato agli uomini allo stesso modo in cui lo è in qualsiasi altro paese – in sette giorni non ho mai visto in giro un poliziotto e le guide, anche di escursioni pericolose, trattano tutti come adulti – ma affidato al contesto, ribadito in ogni istante dal vento gelido che penetra i guanti e duole alle dita, dalle montagne ghiacciate che stringono la città, dal mare artico che la lambisce e dall’immensità deserta della tundra che la circonda. C’è un delicato equilibrio da mantenere a tutti i costi, e non c’è bisogno che qualcuno te lo dica ad alta voce.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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