Il teatro del letto
di Mario Baudino
Il passo che segue è tratto, per gentile concessione dell’editore, dal saggio “Il teatro del letto” (La Nave di Teseo, 2021), di Mario Baudino. L’immagine, scelta dall’autore: Pierre-Antoine Baudouin, “La lecture”.
Ce lo dice, una volta per tutte, Marcel Proust, a partire al notissimo e ormai proverbiale incipit della Recherche: “Per molto tempo sono andato a letto presto […] sentivo di dover posare il libro che credevo d’avere ancora in mano, e soffiare sul lume. Non avevo cessato, dormendo, di riflettere su ciò che avevo letto, ma le mie riflessioni avevano preso un corso del tutto particolare […] come dopo la metempsicosi, i pensieri di una vita anteriore: il tema del libro si staccava da me, ero libero di prestargli attenzione o no, come volevo.” La metempsicosi è una metafora degli effetti della lettura, delle vite possibili, delle vite desiderate, delle vite narrate. L’argomento del libro che si legge diventa “nostro” come in un’esistenza parallela. La lettura produce una scissione, uno sdoppiamento. Siamo di fronte a una lettura passionale, infantile, sessualizzata, gli igienisti e moralisti del passato l’avrebbero definita femminile, che si imprime nel corpo: un modo di sognare da svegli. La stanza di Combray, “la sola che mi fosse permesso chiudere a chiave, in tutte le occupazioni che invocano un’inviolabile solitudine: la lettura, fantasticheria, le lagrime e la voluttà”, fissa il punto culminante della giornata dell’autore ragazzo – una giornata in cui leggeva da mattino a sera, dovunque si trovasse: quella dove si celebrava un rito segreto e clandestino (come fra i tanti altri possibili, accade a Pennac), nel timore di essere sorpreso dai genitori e rimproverato perché questo piacere metteva a rischio il sonno.
Nelle letture dell’adolescenza, che ricorda invece nel saggio Sulla lettura, il letto o meglio l’intera camera da letto è il sacrario, un tempio che il giovane Proust non si stanca di ammirare, accarezzare con lo sguardo, esplorare. Ma non è solo questione del libro, compagno inseparabile dello scrittore, eppure lontano dall’essere una presenza esclusiva. Nella sua camera – nelle sue camere – piacere e tormento sono per Proust indissolubilmente legati, fino a quando il letto diventa finalmente il “nido”, come nella famosa pagina di La strada di Swann che indignò uno dei primi critici, essendoci un periodo di 44 righe (neanche il più lungo, pare, del gran romanzo); non la citeremo dunque per intero, ma solo nella parte più significativa: “Avevo riveduto ora l’una ora l’altra le stanze che avevo abitate nella mia vita, e finivo col ricordarle tutte nelle lunghe fantasticherie che seguivano al mio risveglio: camere invernali dove, quando siamo a letto, rannicchiamo il capo in un nido intessuto delle cose più disparate, un angolo del guanciale, l’orlo delle coperte, una cocca di scialle, la sponda del letto e un numero dei Débats roses, nido che poi alla fine si cementa secondo la tecnica degli uccelli, standovi appoggiati indefinitivamente.” Con Débat roses lo scrittore indica il Journal des Débats, che si occupava di politica e letteratura, ed era stampato su una carta lievemente colorata. Ma in questo caso non ha importanza che cosa stesse sfogliando: a parlarci è l’immagine finalmente compiuta del nido, un nido fra l’altro, come quello degli uccelli, che viene per così dire creato inconsapevolmente, obbedendo a una sorta di istinto animale, con la sola attività dell’abbandonarsi, del rannicchiarsi – ed eventualmente del dormire.
In qualche caso la sua costruzione è lenta, persino dolorosa. La prima notte del narratore nel Grand Hotel di Balbec, la località immaginaria sul mare della Normandia, è ad esempio una tempesta di estraneità. E dello spavento, “che tanti altri hanno, di dormire in una camera sconosciuta”, nella quale lo scrittore vede “la forma più umile, oscura, organica, quasi incosciente, del grande rifiuto disperato che oppongono le cose”, costringendosi a una sorta di lotta esistenziale contro le nostre paure. Quel luogo minaccioso diventerà in breve una delizia, e quella stanza sarà poi molto amata, ma solo quando anche per essa la trasformazione sarà compiuta, il nido finalmente intrecciato.
Il nido è l’amore, non necessariamente sensuale, finalmente appagato. E in esso, nella stanza parigina, com’è proverbialmente noto, foderata di sughero per tenere lontano rumori e pensieri fastidiosi, Proust scrive finalmente, a letto, il suo capolavoro. Non ci sono al proposito immagini, anche se non mancano i disegni. Fantastici, idealizzati, di quell’avventura dello spirito (e del corpo nello stesso tempo teso e abbandonato) basati sulle coordinate offerte dallo scrittore stesso: busto eretto contro il cuscino, fogli appoggiati sulle ginocchia (e berretto da notte in testa, il che non giova alla sacralità del momento, ma gli inverni, si sa, potevano essere inclementi).
Il nido, quando la distanza tra i letti sublimi e quelli legati alla bruta necessità si riduce fi no quasi a scomparire non è necessariamente un luogo felice, ma è quello più propriamente nostro; quando siamo soli e anche, al fondo, quando siamo in compagnia. Nessuno come Proust ha saputo raccontarlo in tutte le sue molteplici risonanze psicologiche; si pensi al vero e proprio combattimento con se stesso che ingaggia quando ospita e in un certo senso imprigiona a casa sua l’amata Albertine, la cui presenza o assenza dal suo letto scandisce i tempi della gelosia, dell’amore, del disamore, dei sospetti e del piacere, in un teatro però tutto interiore in cui Albertine non è in fondo che un personaggio secondario, forse un fantasma, una proiezione, un pretesto: dove accanto al “piacere di vederla dormire, non meno dolce di quello di sentirla vivere” ce n’è un altro persino superiore, quello di “vederla svegliarsi”, ovvero “lo stesso piacere che provavo pensando che abitava a casa mia”.