Dalla periferia del senso all’apparenza veritiera
di Biagio Cepollaro
[Pubblico qui l’intervento che apre la sezione dedicata alle autoantologie poetiche del n. 78 de il verri.]
Il progetto delle autoantologie in questo tempo di espressività diffusa vorrebbe costituire un momento di lentezza, di ripensamento, di responsabilità autoriale proprio quando il paesaggio si configura come tendenziale indebolimento del nesso tra passato e futuro, caratterizzato da smemoratezza, da “naturale” assenza di fondamenti. La parola poetica non può essere considerata indipendentemente dai contesti entro cui nasce e a cui direttamente o indirettamente si rapporta. L’estetizzazione diffusa, maturata a partire dalla fine degli anni ‘70 soprattutto attraverso la pervasività della pubblicità, si è accompagnata al sorgere del nuovo fenomeno dell’espressività diffusa grazie al successivo diffondersi dei social network nel corso degli anni ’10 del nuovo secolo. La dimensione estetica sfuggita alla centralità ed esemplarità del “look” degli anni ’80 si è disseminata e implementata nella quotidianità dell’uso comunicativo delle piattaforme social. Come negli anni ’80 a sottendere l’estetizzazione diffusa era un “pensiero debole” programmaticamente privo di fondamenti, così oggi ad innervare l’espressività diffusa pare sia la percezione di un’estetica debole, priva di fondamento storico e di progettualità. La risonanza in poesia di quel debolismo estetizzante poteva essere allora l’ideologia letteraria che animava l’antologia de “La parola innamorata” che sarebbe poi diventata di fatto l’archetipo di una sorta di monocoltura poetica alimentata in seguito dalla rete. Quest’antologia fu percepita allora da alcuni come il segno del “riflusso” politico dopo la stagione dell’impegno che intendeva smascherare il nesso tra ideologia e linguaggio. E dieci anni dopo, sul finire degli anni ’80, l’antologia “Poesia italiana della contraddizione” provava, appunto contraddicendo, a invertire la rotta affiancando alle ricerche degli anni ’60 più aggiornate prove poetiche che in alcuni casi sarebbero state poi definite, tra l’altro, “post-avanguardia”. Col senno di poi si potrebbe pensare che quel movimento dalle apparenze neoromantiche e intimistiche in realtà stesse esprimendo (o piuttosto subendo per rimozione) senza molta consapevolezza la trasformazione degli assetti della comunicazione e della conversazione sociale in quel passaggio così drammatico e violento della società italiana nel cuore degli anni “di piombo”. Il transitare dall’estetizzazione diffusa all’espressività diffusa è stato determinato dalle nuove tecnologie della comunicazione ma anche dall’approfondirsi del paradigma culturale (e politico) che vede sempre più l’individuo atomizzato e relativamente anonimo come quotidianamente impegnato in una sorta di “scarica” espressiva costeggiante più il territorio della compulsione anestetizzante che quello della ideazione creativa. Atomizzazione e compulsione ormai s’impongono come dati naturali, secondo il consueto processo ideologico della naturalizzazione di un fatto storico e relativo.
L’espressività diffusa oggi si modella sui processi di customizzazione, sulla personalizzazione di programmi standard: un certo numero di opzioni rendono possibile un minimo di differenziazione codificata. Di queste opzioni sembra vivere per molti aspetti l’estetica debole che tende a saturare l’iconosfera e la semiosfera del nostro paesaggio. I contenuti possono essere creati solo all’interno delle forme prestabilite, come se la soggettività empirica fosse possibile solo all’interno di una identica soggettività trascendentale incarnata a priori dalla piattaforma. Al di fuori di tali condizioni pare che non si dia gioco “sociale”, non si possa “condividere” nulla. La “condivisione” sembra presupporre come requisito non il confronto intersoggettivo tra alterità quanto piuttosto l’omogeneità di fondo, la stessa aria di famiglia, lo stesso produttore. Tale massiccia diffusione dell’atto comunque esteticamente intenzionato, anche se frammentato, debole e sganciato dai tradizionali sistemi di riferimento, ha simulato, nei modi del paradosso caricaturale, uno dei sogni delle avanguardie storiche: la radicale “democratizzazione” del fatto artistico. La polverizzazione autoriale di cui spesso si dice si associa alla polverizzazione estetica: parole e immagini trascinano la semiosfera e l’iconosfera contemporanee in un incremento vertiginoso di oggetti e di soggetti a cui si negano, per statuto tecnologico prima ancora che semiologico, la persistenza e la consistenza. Gli oggetti oggi non si possono dire neanche più “liquidi” perché anche il liquido è uno stato della materia, come il solido e il gassoso, mentre è proprio la materia a sparire in qualunque stato si possa presentare. La materia sparisce non perché risolta in virtuale come si temeva negli anni ‘90 ma perché al di fuori di ogni rappresentazione e rimossa mentre la violenza dei rapporti di forza si scatena alle spalle, per così dire, dell’espressività diffusa. In un paesaggio del genere pare che la parola che si voglia letteraria fatichi a trovare una sua legittimità: risultano improbabili o poco raggiungibili il tessuto di accoglimento e l’orizzonte condiviso di attesa proprio quando sulla carta sembra aumentare la praticabilità materiale della diffusione, anche grazie a internet. Le istituzioni deputate alla selezione e alla promozione ponendosi al confine sempre più friabile tra autore e pubblico, di fronte alla frammentazione dei pubblici incoraggiata dalla rete, o si ritirano in silenzio o esasperano ostinatamente la propria autoreferenzialità. In tali contesti la ricerca può forse tentare di tornare allo specifico della parola e del testo come luogo in cui configurare i mutamenti del paesaggio assumendo e metabolizzando sin dall’inizio le trasformazioni che riguardano oggi lo stesso statuto della parola e la sua perdita di centralità. Da questa periferia che non è più solo del testo ma che diventa marginalità del senso l’intenzione letteraria può ripartire come per una scommessa rischiosa. Qui la percezione dell’attrito è indispensabile, la lettura è costretta a fermarsi, il flusso a incepparsi, s’impone la necessità di tornare indietro per riprovare la tensione dell’interpretazione. L’attrito interrompe lo scorrere anodino del paesaggio e la parola residuale sembra cercare un territorio che alluda ad una soggettività messa a tacere ma da cui comunque occorre ripartire per provare a smascherare il gioco delle apparenze anestetizzanti che sostanziano l’espressività diffusa. Dalla periferia del senso all’apparenza veritiera.
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