Bullezzumme
[Bullezzumme è un romanzo inedito di Francesco Cozzolino. Ne pubblico un capitolo, intitolato Profezie e malombre. ot]
di Francesco Cozzolino
Bullezzumme è il termine ligure usato per indicare il mare moderatamente mosso, che per l’azione del vento schiuma e ribolle. Il bullezzumme è lo stato fra il mare calmo e il mare grosso.
_
Il sole barbagliava in fondo al vicolo, il sale lo scortava per i caruggi e insieme importunavano occhi e froge dei passanti.
Dopo l’intossicazione commerciale, Bartolomeo non disiava altro che quella rinfrancante distesa azzurra.
Attraversò piazze come francobolli e vicoli simili a corridoi, girandolò per diletto corteggiando il porto, un’ultima voltata e alfine il mare apparve.
Il solleone si mangiava il porto. La meandrica passeggiata gli aveva messo sete, si ritemprò sul gradone del molo e decise di meritarsi un cordiale.
Al tavolino del Bistrotto sbramò la sete con un Asinello, lo sorbì con sollecitudine, lasciò una buonamano al cameriere e sorrise al cielo.
Quello si rabbruzzò e gli rispose a suo modo: una libecciata investì la Città Vecchia e asciugò il madore dei vicoli.
Le si gettò tra le braccia, a spasso tra i palmizi il sentore equoreo lo mise di buonumore. Rinsaldò così il suo proponimento: Tilde.
Tilde era settivolte vedova. Lei, laconica, diceva semplicemente che s’era malmaritata.
Purchessia, come tutti i professionisti del settore, non amava entrare nel dettaglio dei fatti, anche perché soltanto semiquattro furono accertate come morti violente.
Per i primordi mariti la faccenda si risolse in breve tempo: Gilberto cominciò ad accusare dolori al petto una mattina di gennaio e già anzi la cena, steso sul talamo, la pratica era archiviata.
Tre anni dopo, Agostino fu raggiunto da furiosi singhiozzi postprandiali; noncurante uscì comunque a bagordare con gli amici. Poco dopo mezzanotte capitombolò a faccia in giù nella ritirata della fiaschetteria.
Altri semiquattro anni e, appena rientrati da un viaggio per mare, Ettore fu colto da un colpo apoplettico mentre rincasava da una malanotte spesa a corseggiare i vicoli.
Al quartario marito andò persino peggio: Felice perì durante il viaggio di nozze, scivolò dalla goletta che li portava a spasso per i mari caraibici e i pescecani s’occuparono del resto.
Amedeo, invece, lottò fino all’ultimo contro la paralisi che s’era impossessata del suo corpo. Si spense muto, sulla poltrona del tinello.
Leonardo, risultò il lutto più rocambolesco: una frizzante mattina di settembre uscì di casa e fu sfiorato da un pitale in caduta dal seigesimo piano.
Scampato all’accaduto e sicuro che l’aneddoto avrebbe intrattenuto i caffeioli per tutta la colazione, tagliò la strada in fretta. Tradito dal binario del tramvai s’allungò sulla ferrata: la decapitazione fu repentina.
Comecchessia, Bartolomeo sfilò tra la ragazzaglia che affollava il sestiere del molo e giunse al palazzaccio.
Senza troppe madamerie, Tilde lo fece entrare. Aveva lunghe borse sotto gli occhi, anche lei veniva per sicuro da una malanotte.
Bartolomeo, affannone per i nove piani di scale, ebbe appena il tempo di occhieggiare fuori dalla finestra. La distesa blu già mareggiava, ma Tilde lo scostò e serrò le gelosie. L’oscurità era d’obbligo.
Gli fece strada nel tenebrore del corridoio dove le sette buonanime occupavano tutta la parete, raggiunsero il tinello e in quella mescidanza di oggetti, Bartolomeo indentificò i suoi ferri del mestiere.
Tilde aveva bacinelle ottomane e dadi arabi, medicine andaluse e rimedi indiani d’ogni tipo.
Il libeccio s’infiltrava per tutti i pertugi e zufolava per casa. Nella penombra accanto alle gelosie c’era Norberto, il gufo di Tilde. Artigliava il trespolo con una zampetta monca e mirava fissamente Bartolomeo.
Tilde aprì la madia, piazzò la candela al centro del tavolo e fece brillare un cerino. Il lucore le bagnò il viso e la donna s’affacciò su di lui.
“Ci sono malombre intorno a te, Bartolomeo.”
“Di che tipo?”
“Del peggior tipo, giocolieri e scherzatori.”
“Cosa possiamo fare?”
“Bere.”
Tornò alla madia e gli presentò un bicchierino colmo di biancamaro.
Era ancora una bella donna, aveva fianchi generosi e occhi da lupa. Negli anni, Bartolomeo le fece tre proposte di matrimonio. Tutte per ragioni professionali, è inteso.
La primordia fu avventata, ma sincera. Tilde era già alla triaria vedovanza e a Bartolomeo sembrò un’occasione ghiotta. Lei si negò con una carezza.
L’altra avvenne dopo il trapasso di Felice ma Tilde, ancora scossa dall’accaduto, nicchiò per qualche tempo, risolvendosi poi a declinare.
L’ultima avvenne molto tempo dopo, la chiese in sposa sotto un tramonto settembrino. Fu allora che Tilde gli raccontò la sua storia.
In pochi sapevano di come lei, giovane e sola, fosse approdata in quella città brindellona, una dieciata d’anni innanzi.
Era nata su un’isola, Tilde. E da bambina parlava coi pesci e coi gabbiani. Fu quando era già ragazza che conobbe l’amorgrande.
Se la matematica non finge, si sarà notato che la lista nuziale difetta d’un consorte.
Storia infelice quella di Amerigo, si può dire l’unico che Tilde amò veramente.
Tecnicamente non ancora sposo, ma promesso tale, Amerigo fu il più grande navigatore del suo tempo. Ammiraglio in patria, raccolse titoli qua e là per il mondo.
Aveva comandato così tanti barchi che non ne ricordava più il nome o il numero. I cinque oceani gli s’inchinavano, dicevano alcuni.
Lui e Tilde strinsero il patto d’amore il primordio giorno di primavera, la mattina dopo Amerigo s’imbarcò per Kapingamarangi.
Sarebbe stato il suo ultimo viaggio, sempre che nella vita d’un uomo di mare esista invero una tale eventualità. Sennonché, la malafortuna era in agguato.
Fu la tempesta più feroce che si ricordi. Il suo vascello, il Pelagus, guerreggiò col mare per settigiornate. Alla ventuvesima alba si spezzò nel mezzo del Pacifico.
Amerigo adesso è in un abisso marino. E lei l’amò doppievolte, da vivo e nel ricordo.
Bartolomeo capì così che la vera scienza non ammette accorciastrade.
Tilde accese un legno di palosanto, si cavò tre fagioli di tasca e li lanciò sul tavolo.
Poi prese il suo dado fenomenale, quello che non aveva mai perso, e lo cacciò in mezzo ai fagioli. Quindi ingollò il biancamaro in un sorso.
“Tutto ciò è malurioso.”
“È grave?”
“Potrebbe.”
“Cosa possiamo fare?”
“Pranzare.”
S’insalivò le dita e spense il lucignolo della candela. Alfine aprì le gelosie e il bagliore straripò nel tinello.
Bartolomeo, abbacinato dalla luce, strinse gli occhi: fuori dal vetro il cielo era nemboso.
Mangiarono insieme culaccini di pane e acciughe dissalate, galletta secca, scorzonera e condiglione.
La bottiglia le sciolse la lingua: “Ci sono persone che cabalano, se presti orecchio le puoi sentire.”
Bartolomeo trangugiò il vino e si guardò intorno con circospezione.
“L’avvedutezza non servirà, Bartolomeo, gli oceani sono grandi, ma non infiniti: la Sabrina ha già lasciato il molo.”
Alzò lo sguardo, i suoi occhi saettarono per il tinello e si posarono sulla finestra.
“Cosa vedi?”
“Prue e poppe che si rincorrono, onde alte come torri. Una tempesta, Bartolomeo.”
“È grave?”
“Potrebbe.”
“Cosa possiamo fare?”
Tilde non rispose. Norberto bubolò. S’alzò in volo, fece tre cerchi intorno al tinello e artigliò la seggiola. Zampettò tra i resti del pranzo e ghermì un fagiolo.
Bartolomeo non aveva capito granché di ciò che aveva detto Tilde, ed era anche un po’ ottuso. In ogni caso si fidava ciecamente di lei: Tilde vedeva e sapeva.
Si rimise in strada alticcio, le cassandriche profezie della donna non aiutarono la digestione.
S’aggirò ramingo, in equilibrio sulle mura di Malapaga, raggiunse Porta Siberia, lì un gatto piangolava e l’accompagnò fino ai Portici dai mille passi.
Decise di lasciare che il pomeriggio si srotolasse prima di tornare per il suo cappello.
Girandolò nubivago per i vicoli, lambiccando le vetrine fino all’angolo di piazza del Caricamento; fu lì che lo vide.
Il manifesto fresco di stampa recava il timbro del Municipio e diceva Radunanza Generale.
Sarebbe iniziata da lì a poco, già sentiva la pispilloria levarsi.
E sia, si disse.