Sintesi dalle radici, Riflessioni sulla raccolta di Antonia Santopietro
di Gabriele Belletti
Sintesi dalle radici, la prima opera poetica di Antonia Santopietro, prende le mosse da un’epigrafe affidata, non a caso, alla voce di Virginia Woolf. Versi ieratici che danno il via, aprono letteralmente, al libero movimento delle cadenze e alle direttrici della raccolta. Si tratta di affermare subito, attraverso di essi, la propria libertà in quanto individuo, e altresì quella coadiuvante il tentativo di scardinare le griglie tra sé e l’altro da sé, di non delimitare lo spazio in cui la mente e la voce della raccolta andranno ad abitare. Se esiste uno spazio, questo è uno spazio aperto, nell’aperto. Lì, il primo agglomerato versificatorio che il lettore incontra proviene dalle radici; da lì, quell’io, uso tanto alla stoffa quanto alla corteccia (Fronde e velluto), che si vuole sin da subito libero e interrogativo («che ne sarà del primo giorno su questa terra?», Marine litter, v. 12), si lascia coinvolgere dalle materie che accoglie e in cui è costantemente avvoltolato. La voce diventa (in) questi luoghi, in loro vive e in loro – e con loro – si dice («chiedo alla pioggia un rumore forte / un temporale se possibile», Temporale, vv. 4-5). In sintesi questa apertura diviene sintomo di una coappartenenza («La nostra solitudine / è dell’albero / e della prima alba la viola», in sintesi:, vv. 4-6) dove l’animale e il vegetale si incontrano e si confondono («liquor linfa e sangue», Ibidem, v. 1).
Esiste, è innegabile, una progettualità reticolare insita in quest’opera, incline a ricercare delle corrispondenze tra tipologie di caratteri, di elementi e di regni (Direttrici della raccolta). Vi è l’esigenza di riconoscerle per intercettare qualcosa che saprà rimpicciolire la postura umana e liberarla nelle coordinate di una nuova attenzione e in una pienezza metamorfica e comune (Anedonia). Si realizza, in tal modo, la poesia di una creatura femminile – una Donna rovesciata – che si sfilaccia e si ramifica, accoglie sul suo corpo viva materia di altri («sulla sponda estrema della schiena / sospesa, astratta neve», Terra donna, vv. 6-7; «Porto gli anni grandi, / e per ognuno e uno a uno / lentamente conto / gocce di rugiada», Gli anni, vv. 1-4); chi la ascolta presto non sa più se stia assistendo al movimento dell’altro da sé verso una forma antropica o allo spargimento di un’orma umana che si fa inesorabilmente «velo» («Nullo il passo, è velo», Terra donna, v. 1). Anche per queste ragioni, nel canto torna spesso il sentire, inteso come percezione e sentimento, ma altresì come facoltà ermeneutica di intercettare altrui orme nello spazio aperto («ne riconosco l’orma», L’osso, v. 5), e somiglianze. Fino a intravedere un’origine, l’«osso»-concepimento della voce, che del vento – materia naturale inafferrabile – «ha preso il suono» (L’osso, v. 6) e di cui si possono solo «dire poche cose» (L’osso, v. 1). Affiorano segnali, umani e no, corrispondenze («Il giorno in cui invecchiai / si era vista la pioggia», Il giorno in cui invecchiai, vv. 1-2), particolari duraturi di un sempre effimero esserci («solo candido vestito in riuso», Ibidem, v. 13), così come «lemmi piccini e fragili / che si allungano per ore» (Serpente, vv. 7-8), lacerti temporali dove momenti della giornata assumono connotazioni arboree («Accade che una linea di buio resista, / che l’aurora abbia un ramato tormento», Memoria ferma, vv. 1-2; «i giorni sono legni magri / vanno come foglie», Ibidem, vv. 5-6; «Memorie sante di luoghi fibrosi», Pudore, v. 5) e vegetali che, a loro volta, rivestono naturalmente un valore inestimabile («non perdere il colore della viola / non tradire il profumo del glicine», Pioggia, vv. 9-10).
Il bisogno di questa “libertà della mente”, tornando all’epigrafe woolfiana, in ultima istanza genera un canto che sfocia in un’urgenza di cura («Curo le linee d’orizzonte», Finis terrae, v. 9), permettendo agli elementi che si provano di interagire col corpo in ascolto che ne segue «il suono» (Ibidem, v. 8), fino a modificarlo («Ascolto ogni sintomo, / allargandomi, alleggerendomi», Il conforto della poesia, vv. 8-9). Un corpo che si espone alle intemperie del foglio, della terra (La vita sulla terra) e dell’acqua («dagli abissi motu proprio / un salmo blu / che non prendiamo sul serio», Sonorità marine, vv. 1-3), le cui labbra e le cui mani, strumenti per eccellenza della scrittura, diventano di fiori e di frutti («le labbra rose bocciolo», «le mani grappoli d’uva», La vita della terra, vv. 8 e 10). Resta la vivida consapevolezza – merwiniana – della limitatezza della lingua («la linea di confine messa / tra il mio e l’oltre è falsa», Titolo a scelta, vv. 9-10) che non rinuncia – proprio per coerenza alle materie che canta – a sempre modificarsi in brevi prose o in quasi-randomici grumi (Grammatica sterile dell’antropocene) in cui si affacciano nel «minuscolo», nella «sottrazione» (Brevitas I e II), piccole formulazioni di verità subitanee. La chiave per leggere questa raccolta sta proprio nel cogliere la convinta arrendevolezza – potente e integerrima nei suoi principi – che espone chi canta al libero mutamento, per cui viene a mancare qualsiasi suo «vantaggio inappropriato», e umano, sull’altro da sé (Un centesimo di grazia), per diventare e guardarsi diventare poeticamente un elemento cangiante e indifeso di uno spazio sempre co-abitato.
testi di Antonia Santopietro
Memoria ferma
Accade che una linea di buio resista,
che l’aurora abbia un ramato tormento.
Ricordi appena quando sotto i tigli sorridevi,
la mano del cielo aperta a cupola.
I giorni sono legni magri,
vanno come foglie.
Al mattino c’è più spazio
gli oggetti si organizzano,
di sera affaticano i nervi.
La vita sulla terra
Non era roccia, quercia o larice,
ma sabbia – e vi scrissi
con le unghie sorgenti una
lunga prigione d’ametista.
Il foglio arbusto forte mi regge
mi arroventa gli zigomi,
gli occhi sono calcina,
le labbra rose bocciolo
le gambe architetture antiche
le mani grappoli d’uva
il racconto appassisce –
tradito un migliaio di buone volte.
Grande, Antonia!
complimenti. Le poesie di Antonia Santopietro sono una delle dimostrazioni più evidenti del sublime kantiano