Per Sergio Nelli
di Giacomo Sartori
(Unendomi alle tante voci che esortano a leggere o rileggere gli scritti di Sergio Nelli, appena scomparso, riporto questo pezzo uscito nel numero di Nuova Prosa “La letteratura italiana con gli occhi di fuori”, nel 2018)
Sergio Nelli mi sembra essere uno dei migliori cantori del male di vivere del presente italiano. E questo in particolare nei suoi racconti, popolati da una grande varietà di uomini e donne imbrigliati nelle loro miserie e incagli affettivi, famigliari, lavorativi. Questi suoi personaggi comuni, ma strutturalmente diversi uno dall’altro, come lo siamo noi, non sono mai felici, sono anzi surrettiziamente sofferenti, e quasi un po’ depressi (spesso lo sono stati nel vero senso della parola), o comunque come ottenebrati da quello che la vita ha riservato loro, invischiati in una cupezza nevrotica. Le loro abitudini, e la quotidianità nei quali ci appaiono, sono la gabbia angusta nella quale si muovono.
Non soffrono tuttavia di claustrofobia, approfittano del loro piccolo margine di manovra. Non si disperano, vanno anzi avanti navigando a vista, cercando degli appagamenti, o almeno un po’ di pace. Le occasioni di sentirsi davvero bene, o anche solo di ridere, fanno però difetto, le gioie a cui aspirano il più delle volte si rivelano illusorie (e i disastri, quelli veri, incombono). Anelano e desiderano invano, e qualche volta sembra che potrebbe succedere qualcosa di buono, o comunque differente, ma non accade, e quindi restano impelagati nella pedissequità e nel loro non espresso malessere, in una rassegnazione di lutto, una minaccia di disgrazie ben maggiori. Solo nell’infanzia hanno vissuto qualcosa di davvero buono, solo nei ricordi di quella preistoria possono imbattersi in soddisfazioni e piacere.
La grande abilità di Nelli è di riuscire a evitare tutti i cliché con i quali osserviamo e leggiamo la nostra realtà, le nostre vite e quello che ci sta intorno, schermo che ci impedisce di vedere l’essenza delle cose. Lui non cita marche o luoghi, non rappresenta situazioni ritenute paradigmatiche, o anche solo che ci sembrano più frequenti e normali, non descrive nei dettagli. Coglie anzi i personaggi in frammenti minimi della loro intima differenza, nei gesti e ragionamenti che tradiscono la loro singolarità. Il corpo e il sesso sono molto presenti, perché è lì che può esserci qualche raro riscatto, ma non hanno uno statuto privilegiato, sono anch’essi elementi del quotidiano, della fatica di vivere le giornate. Nella presa d’atto dello stato delle cose non c’è empatia, si intuisce piuttosto uno sguardo quasi divertito.
Gran parte dei personaggi della narrativa italiana sono insopportabili, e falsi, proprio nella loro supponenza, diciamolo così, di essere paradigmatici di qualcosa, un qualcosa che non esiste. Vengono più spesso dalle classi agiate, o insomma da come ce se le rappresenta, o peggio ancora sono come le stesse si rappresentano quelle meno fortunate. Sono in realtà il prodotto di visioni stereotipate o anche semplicemente giornalistiche e televisive, a ben vedere consolatorie. Nelli riesce a riprodurre la pedissequità grigia, la totale assenza di prospettive e speranze, con minuti scarti però di individualismo e di follia, che è la cifra di fondo del nostro Paese, e che tutti conosciamo. I suoi personaggi e le sue atmosfere, hanno il gusto inconfondibile dell’Italia attuale, dei palazzoni senza attrattive che dominano i suoi paesaggi, diventano anzi esemplificazioni della quintessenza della nostra società. Sono istantanee di un paese che ha perso ogni illusione, che continua però a raziocinare e a cercare scappatoie personali, si ostina a sopravvivere. E nello stesso tempo, e qui sta la grandezza, i suoi sono esseri umani che si dibattono nel mondo, alle prese con le briglie della vita.
grazie Giacomo.
Apprendo qui la notizia, e sono enormemente rattristato. Per altro, ho conosciuto Sergio proprio grazie a NI.