Critical Màs : Gabriele Romeo
LO STATO DELL’ARTE in conversazione con Gabriele Romeo
di Mirco Salvadori
Guardo il mio interlocutore mentre si appresta a raccontare il suo complicato ma gratificante percorso professionale nel mondo dell’arte e stranamente mi tornano alla mente le parole di una vecchia canzone dei Joy Division: Here, Everything is by design. Here, Everything is kept inside. So take a chance and step outside, Your hopes, your dreams, your paradise. Siamo fondalmente diversi, potremmo sembrare come i punk un tempo seduti sugli scalini della Fenice che scambiavano le proprie sigarette con i new romantic. Due figure apparentemente contrapposte, culturalmente e musicalmente diverse che in comune possedevano la volontà nel riuscire a cambiare quanto era prestabilito, osando quel salto che li avrebbe forse condotti a realizzare le loro speranze e i loro sogni.
La prima domanda che verrebbe spontanea a chi si trovasse seduto al tavolino di un bar con Gabriele Romeo, curatore, critico e storico dell’arte, sarebbe la classica: a che punto siamo, qual è lo stato dell’arte? Ma attendiamo alcuni passaggi, conosciamoci meglio. Usiamo questo intervallo sospeso per approfondire la nostra conoscenza e quella delle bollicine che giungono dalla Franciacorta. Partiamo da te e dal tuo importante e impegnativo ruolo come Presidente della sezione italiana dell’AICA (Associazione Internazionale dei Critici d’Arte).
Finalmente la sezione italiana di AICA è rinata! Adesso possiamo essere un coro di voci. È stato, e lo è tutt’ora un lungo processo. Nell’aprile dello scorso anno fui eletto a Parigi dai membri storici della sezione italiana alla guida e alla ricostruzione delle attività critiche e intellettuali della nostra categoria. Recentemente, abbiamo ritenuto opportuno, riscrivendone lo statuto, ricostituire l’associazione ufficiale, l’unica riconosciuta in Italia dalla casa madre parigina e abbiamo optato di denominarla “Nuova AICA Italia” per voltare pagina e adeguarci ai tempi.
Ho avuto il piacere di fare la tua conoscenza al Padiglione Italia, nel corso dell’ultima Biennale di Architettura, qui a Venezia. Sono sincero: ero pronto ad assistere alla classica performance del critico che espone il suo pensiero dispensandolo come altera verità, una certezza tra l’altro diffusa in un mondo che si professa intrusivo ma in realtà è assai chiuso e criptico, nei confronti del normale fruitore. Più si procedeva nel dialogo, più mi rendevo però conto che esisteva una sorta di legame che univa i nostri apparentemente lontani mondi, quello dell’arte e quello musicale. Era il bisogno di indipendenza. Torno quindi alla domanda iniziale riformulandola senza giri di parole e veli che la rendano più piacevole: come e cosa è il mondo italiano dell’arte visto da un addetto ai lavori? Esistono più realtà che operano nello stesso settore ma in contrapposizione? Come nel mondo musicale italiano (anche quello in teoria “indie”), ci si scontra con l’immobilità e l’arretratezza ideologica di una realtà saldamente ancorata all’esile pensiero mainstream?
E sì! È stato un incontro davvero formidabile, soprattutto per la grande attenzione sul concetto della Resilienza intercalato su diverse aree tematiche dell’architettura dal curatore del Padiglione Italia, Alessandro Melis. Tornando alle tue domande che si prefissano di avere una delimitazione – credo anche per una questione di spazio e per non annoiare il lettore – ti risponderò come segue:
L’arte è un campo vastissimo prodotto dallo scibile umano come eredità inalienabile. E non bastano per un critico scrupoloso una, due, tre, ed una infinità di vite, per cercare realmente di scoprire ed esplorare tutte le possibili interconnessioni fenomenologiche che legano l’artista al suo tempo. Infatti, è proprio il tempo subordinato al suo contesto, cioè quello nel quale un determinato artista genera un’opera, che si apre e si rivela al fruitore il “prodotto artistico” assumendo, quest’ultimo, l’aspetto di forme mediali multisfaccettate. Per essere più chiaro, mettendo a confronto le Arti visive di due periodi storici differenti e contrapposti, da un lato l’arte fiamminga e dall’altra il Fluxus, noteremo come la prima sorregga la sonorità musicale enunciata indirettamente dentro la pittura di Hieronymus Bosch, ma non è udibile, semmai essa può essere deducibile; mentre la seconda – a noi più vicina come arco generazionale – con artisti quali Dick Higgins, George Maciunas, George Brecht, sia pervasa invece a tutto campo da relazioni sinestetiche, che attraversano l’esplorazione degli organi sensoriali, per dar sfogo alla concertazione tra la scrittura, la musica, la poesia visiva, il teatro e la performance.
Alziamo i calici in questa assolata fondamenta e brindiamo a chi molto ha significato per te: Gillo Dorfles. Amerei moltissimo entrare nel tuo ricordo legato a questa possente figura del pensiero filosofico e artistico, un Virgilio che ti ha accompagnato anche lungo le pagine del tuo ultimo libro di cui andremo a parlare in seguito.
Il mio primissimo ricordo legato a questa importantissima figura e testimonial indiscusso della nostra categoria, risale al 2003. Allora ero un giovane studente universitario, curioso e affamato – cicchetti a parte – di scoprire più cose possibili sugli aspetti semantici dell’arte. All’epoca ci fu un importante seminario per presentare, a Palermo, presso il dipartimento di Estetica, della Facoltà di Lettere e Filosofia, la riedizione del testo di Rudolf Arnheim intitolato “Arte e percezione visiva”. Dorfles, che ne aveva scritto la prefazione, celebrava lo psicologo tedesco con un dibattito insieme agli studenti. Lo rividi molti anni più tardi, nel 2013, presso la sua abitazione a Milano. Conversare con lui, seduti sul suo divanetto rosso e circondato da opere di Carla Accardi con tutti quei manoscritti, mi diede molti stimoli.
L’Intervallo Sospeso – Connettoma Cronico Dell’Arte è il titolo del tuo volume uscito lo scorso anno per Mimesis. Un titolo che cita l’intervallo perduto di Dorfles aggiungendo però un riferimento alle connessioni del cervello umano e alla sua capacità di processarle. Un titolo complesso per un saggio scritto e pubblicato in un periodo altrettanto difficoltoso, lo stesso che sembra ispirare il tuo scritto: il tempo della pandemia.
Sì, è proprio vero! È stato un anno molto difficoltoso per tutti. Anche per il miei studenti. In quel periodo ho pensato cosa potessi fare, nel mio piccolo, per dare un mio contributo alla società. Dalla mia ricerca personale è nato questo saggio forse per prendere io stesso consapevolezza di questa irruente trasformazione in diretta della cultura e delle espressioni artistiche che inarrestabilmente stavano mutando. Credendo, però, alla condivisione e ho ritenuto opportuno mettere insieme le mie impressioni su quanto avevo analizzato per seminarle “a parole mie” tra la gente.
Gli spunti che riesci a cogliere e che vanno a irradiare di dati le nostre connessioni di pensiero sono molti e in gran parte legati alla fruizione dell’arte da parte del semplice visitatore di museo, ora strana creatura virtuale capace di scivolare lungo gli schermi del proprio smartphone entrando nel digitale e superando la cornice che un tempo delimitava e definiva il confronto con l’opera d’arte.
Quando scrivo provo a mettermi sempre dalla parte del fruitore. Cerco di rispondere a delle probabili domande orientandole al futuro. Quest’occhio di discrezionalità e di neutralità credo debba essere fondamentale per chi intende esercitare la professione del critico. C’è anche da dire che il campo visivo digitale, la finestra della pagina bianca dell’editor può essere, a volte, un’arma a doppio taglio per quanti devono comunicare con le parole per raccontare o semplicemente recensire una mostra piuttosto che un artista. Navigando e leggendo molti articoli scritti da critici freelance, da un lato infatti, si omettono molti particolari, ci si dimentica spesso di includere le bibliografie e frequentemente, sembra andar di moda in maniera del tutto scorretta, eludere i riscontri scientifici delle fonti comparative che si analizzano sul campo.
A proposito di digitalizzazione museale, permettimi questa semplicistica definizione. So che si sta sviluppando sempre più, anche grazie o a causa della pandemia, questa modalità fino a poco tempo fa impensabile. I musei si visitano sempre di più attraverso un interfaccia digitale, lo schermo di un pc o di uno smartphone.
Questo comportamento esplorativo di cui parli “cioè dell’interfaccia digitale per far visita ai musei” già da tempo all’Estero è esplorato dagli internauti di ogni fascia d’età. L’Italia, così come tutto quello che riguarda i processi di digitalizzazione, è rimasta indietro per anni, le strutture museali – in particolare quelle amministrate da organi locali e periferici – fanno fatica a digitalizzare, inventariare il nostro immenso patrimonio culturale e in particolar modo quello custodito nell’interesse del pubblico. È come dire guardiamo i dati, Brexit a parte, sul sito web del V & A (Victoria and Albert Museum), all’interno sono reperibili e consultabili all’istante 1.2 milioni di oggetti della collezione qui.Un esempio totalmente opposto e del tutto italiano, tanto per giocare in casa a Venezia, lo troviamo invece sul sito web della Fondazione Musei Civici di Venezia. Nel quale un turista, o o un semplice studioso, non riesce ad avere la possibilità di reperire online informazioni sulle collezioni complete di Brustolon a Cà Rezzonico (Museo del Settecento Veneziano), piuttosto dell’entità specifica delle opere scultoree di Merardo Rosso conservate a Cà Pesaro (Galleria Internazionale d’Arte Moderna).
Controtendenza, assistiamo miracolosamente ad esempi d’eccellenza per la diffusione dei contenuti delle mostre canalizzate sul web. Ne sono modelli positivi le attività interattive e digitali portate in rassegna, grazie all’impegno della sua Direttrice, Carolyn Christov-Bakargiev al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, e certamente il funzionamento dell’efficentissimo Dipartimento Educativo – con interessantissimi approfondimenti scientifici e didattici – presso la Fondazione di Palazzo Strozzi a Firenze, struttura curata dalle competenze scientifiche di Arturo Galansino. In Italia la strada da percorrere in tale direzione è davvero molto lunga, e non credo che alla meta si possa arrivare in tempi brevi. Occorre molta più sensibilità e predisposizione ad ascoltare il rinnovamento della comunicazione.
Mi hai molto colpito quando dici: “In questo momento storico, l’arte ha bisogno di chi sa e di chi non ha paura di interfacciarsi con la tecnologia, con la posa di esposizione”.
Intendiamoci! Quando uso la seguente espressione “di chi sa” faccio riferimento al sapere universale e alla predisposizione che ha l’individuo (un artista visivo, un musicista , un critico, un curatore) di metterlo in campo, in azione, rendendolo in questo modo relativo – sapere pensante e dialettico – e non marcandolo con un valore assoluto. La tecnologia, ai nostri giorni, supporta le nuove modalità divulgative rivolte alla comunicazione e alla diffusione dei messaggi da storicizzare, rimpiazzando, ad esempio, quei supporti che furono impiegati tanti secoli fa dai nostri avi per tramandare la cronaca attraverso quelle splendide scritture apposte sugli antichi codici miniati, sulle Cinquecentine. Quando parlo di esposizione, non mi riferisco all’esibizione, bensì al coraggio che detiene “l’individuo autocritico” di argomentare varie tematiche tessendole come una ragnatela di connessione.
Portando un esempio indiretto, ma a mio avviso molto esplicativo, il grande Dubuffet afferma in una parte del suo testo “Asphyxiante culture” (1968):
“Niente svia più profondamente il pensiero del fatto di considerare le nozioni come forme fisse che si prestano a una definizione permanente, mentre non sono forme ma tendenze, orientamenti, la cui forma iniziale si modificherà incessantemente a mano a mano che muterà quella delle nozioni a cui si oppongono”.
Ho trovato estremamente interessante il capitolo dedicato alla Geek Colture, lì dove si cita una frase dell’ex amministratore delegato di Google, Eric Schmidt che dice: “Sappiamo dove siete. Sappiamo dove siete stati, Sappiamo più o meno a cosa state pensando“, parole queste che introducono il concetto di capitalismo di sorveglianza che tu sviluppi in modo esaustivo. Parlacene.
Mi è piaciuta molto l’analisi condotta dallo storico dell’arte Tony Godfrey, all’interno della pubblicazione edita nel 2020 da Einaudi, ed intitolata per la stampa italiana, L’arte contemporanea, Un panorama globale. Credo si tratti di uno dei più importanti manuali aggiornati su questa visione di trasformazione dell’arte ai tempi della sorveglianza controllata dai social media. Ne ho tratto sicuramente spunto per le mie indagini contenute nel mio saggio.
Il tempo dell’isolamento non è ancora terminato, si fatica anche solo pensare di poter visitare una mostra, un museo. La pandemia sembra aver azzerato le nostre capacità di movimento, di relazione interpersonale. Come accennavo prima, gli schermi dei nostri dispositivi si sono trasformati nei luoghi pubblici di incontro e visione. Cambia la modalità di fruizione e cambia anche la dimensione nella quale ci muoviamo. Due esempi hanno attratto la mia curiosità di semplice visitatore e fruitore di questi luoghi: la dimensione spaziale, come tu la chiami, rappresentata dall’opera presentata al Padiglione della Lituania e il Museo Aero Solar. Altre definizioni, forse innovative del vivere e cercare di comprendere il messaggio artistico. Uso impunemente il link del Museo Aero Solar, presentato alla 17a edizione della Mostra Internazionale di Architettura. Un link che mi invita ad affrontare il tema Biennale Arte di Venezia. Sono seduto in compagnia con un ottimo storico, critico, curatore d’arte e trovo quantomeno naturale ascoltare una sua valutazione sulla prossima 59a Esposizione Internazionale d’Arte, curata da Cecilia Alemani. Che gusto avrà il Latte dei Sogni e quale sarà l’unica Storia della Notte con il Destino delle Comete secondo Gabriele Romeo? Serviranno a creare, parafrasando il titolo di un capitolo del tuo ultimo libro, delle riflessioni sul nostro mondo in tumulto?
Innanzitutto, estendo il mio augurio ai curatori: Cecilia Alemani per la sezione generale della Biennale e a Eugenio Viola per l’Italia. Conoscendo molto bene la realtà è il patrimonio artistico della Biennale, penso sia opportuno ripensare a rimodulare con architetti creativi gli allestimenti dei singoli Padiglioni, cercando una connessione “centrale” per il coordinamento curatoriale tra le le partecipazioni internazionali dei rispettivi Stati. Credo, inoltre, che il Padiglione Venezia, ai Giardini, potrebbe divenire un luogo sperimentale per le arti applicate, mantenendo così fede alla mission della sua storica fondazione, nel 1932. Se un tempo, infatti, l’economia della città di Venezia risiedeva nel vetro di Murano, nei merletti di Burano, nei mosaici, oggi questi aspetti artistici vengono disattesi. Si potrebbe comunque pensare di creare al suo interno una sezione permanente con tipologie di prototipi ad hoc su categorie precedentemente enunciate con la consapevolezza di legare – in una revisione contemporanea da parte degli artisti ospitati – le arti tradizionali a quelle innovative e tecnologiche. Ricordo ancora la Biennale Arte curata da Massimiliano Gioni. Quell’edizione con il “Palazzo Enciclopedico” fu fenomenale e ricca di contenuti. Per quanto concerne il concept o il tema che si intenderà affrontare con questa edizione potrebbe esserci il rischio, ma ancora non lo sappiamo concretamente, di avere troppi artisti rappresentati dalle Gallerie, con pochi critici militanti aperti alla critica fuori dai giochi, e in questo modo si adeguerebbero temi di facili portata alla vestizione dell’intera esposizione. E’ normale che io mi ponga questi ragionamenti pensando al grande ruolo sociale e politico svolto tra il 1974 e il 1978 dall’allora Presidente Carlo Ripa di Meana. Siamo passati, infatti dalle Biennali della Contestazione alle Biennali del qualunquismo. Ma questo non è colpa certo dell’Istituzione. Riallacciandomi alla conversazione iniziale, ci vuole davvero tanto coraggio, così come lo ebbe anche un’altro socio storico, nonché Segretario Generale di AICA Italia della prima stagione: Giovanni Carandente. A lui si deve presso la Biennale la costituzione dell’ASAC (Archivio storico per le arti contemporanee), e grazie alla sua formazione di storico dell’arte e di conservatore, – svolgendo prima il ruolo di Soprintendente Venezia, e di Direttore della Sezione Arti Visive alla Biennale tra il 1988 e il 1990 – ha lasciato un segno indelebile alla memoria dell’arte, pensando lui stesso grazie al suo nobile gesto preventivamente al futuro dei giovani studenti e ricercatori.
Due domande secche, giusto per finire questo DOCG che molto ci ha tenuto compagnia nel corso della bella conversazione. Alla luce di quanto successo dal post lockdown fino ad ora, ha ancora senso il famoso invito della Abramovich al popolo italiano duramente colpito dal COVID. Un invito alla cooperazione tra simili, alla fratellanza nella speranza per un cambiamento della coscienza umana? E per ultimo: l’arte è un salvavita?
Accendo la risposta! E’ affermativa! Abbiamo la necessità di cooperare in sinergia, anche negli scontri vernacolari e dialettici che apparentemente separano, il lavoro del critico da quello del curatore, il pensiero dell’artista, dall’intercettazione del fruitore. In questi casi basta pensare a quattro fratelli che litigano, si prendono a parole per futili incomprensioni e poi si riappacificano, perché si vogliono bene.
Credo che in questo campo, e non soltanto in questo, urge la necessità di condividere momenti, dialogare, parlare, pensare con la propria testa. In un mondo perfetto bisognerebbe ripudiare le invide le gelosie, i pressappochismi, ma aprendo gli occhi ci accorgiamo che viviamo una realtà imperfetta, perché l’essere umano è imperfetto. L’Arte è uno strumento che può in questi casi dare sollievo alle nostre imperfezioni di insicurezza, vivendo e manifestandosi in contatto tra la gente per tentare – anche un pochino – di edificare una integrazione migliore tra la società e l’estetica contemporanea a “misura dei generi”.
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Ho letto da studente, lo rileggerò per riflettere alla domanda: in quale direzione va, in questo specifico caso, l’Arte senza il lavoro del Critico e del Curatore? sta diventando tutto possibile? Perché? Può essere colpa del “gioco” di un virus?