Arriva un carico di maiali
di Filippo Polenchi
Arriva un carico di maiali. Chi sono gli occhi che guardano? Occhi della non-appartenenza, occhi senza volto, buttati nel letame, reclamati dagli scarti, per farne biglie e bigiotteria. Le carovane della nutrizione, a 2 euro di cauzione per carrello, attraversano le esposizioni di nature morte; composizioni spettacolari di cibo che non esiste. Quello che facciamo sono descrizioni di descrizioni, sguardi su oggetti creati per l’occhio più che per il cibo. Il banco frigo che attende il carico è una composizione floreale; è lo show della longevità.
Arriva un carico di pollame nella giornata di mercurio bituminoso, dove ogni morte tace per non aggravarsi in disperazione. Sono nuvole di piume, aguzzi bargigli abbandonati nel regno degli scarti, nelle feritoie degli scarichi, di nuovo nella merda. Aspettano il carico di polli le strutture lucide e verticali della grande distribuzione organizzata. Nei capannoni freddi, scuoiati dalla disposizione delle persone all’amore – spellate lì, quelle persone, dal bisogno, dalla garrota dei debiti, dopo il viaggio oscuro dentro i confini dei confini, nell’indistinta nebbia delle tracce perdute, le proprie e quelle della propria gente – dove la musica è però la stessa che i clienti ascolteranno nel loro trip al supermercato. Il prefisso «iper». La sovrumana versificazione orfica dei padiglioni del post-macello. Anche qui sono occhi senza cranio, enucleati. Gli operai attendono con giubbotti termici, nella fredda oscurità dei padiglioni ambrati di neon. Fuori il giorno è inaccessibile: ogni scrutinio climaterico è bandito, porta germi, sensazioni organiche. Degli uomini che lavorano in quelle cupole non sappiamo niente, non riusciamo a vedere.
Arriva un carico di manzo. Porta con sé il dolore mammario, l’estirpazione filiale. La cosa più vicina allo squartamento d’una croce: nei segni levigati delle lame, delle catene, dei nastri trasportatori si annidano, incapsulate in sacche virulente, le storie di bestie scelte per la macellazione. Ma sono storie lontane: ora che l’interezza del corpo non c’è più è possibile perdersi in frantumi. È possibile, ora, darsi all’ozio della non-interezza. Chi guarda questo carico che arriva, oltre alle solite telecamere di sorveglianza? Chi assiste, in persona, all’evento? A chi possiamo chiedere cosa sta accadendo, dove sono condotti i pezzi di carne per farne macinato, fette scelte, per allungare la pappa cronologica della separazione dalla madre. Il seno della madre. Le bocce infanti dei vitelli uccisi. Il loro essere lì, per noi. Gli occhi che guarderanno, chi mai saranno, dovranno dire di essere i destinatari divini dell’ecatombe. La salvazione divinata in un codice a barre, estrapolata dalla lunga e fumante linea conservativa di bestie covate nel culto della morte. Nutrite per la morte, per la vita. S’incendiano le vie del pensiero che portano agli esemplari d’infante, che si fronteggiano: si guardano nella reciproca inconsapevolezza. Sono due bambini, d’altre specie. Sono l’umano e il non-umano, la mutazione dell’uno nella covata dell’altro. Si sorvegliano dalle placente invisibili della Terra, nella crosta morbida che li contiene e li separa, che li pone a distanze d’anni luce, che pure buca l’humus cosmico per lasciare che quegli sguardi, che le tracce disposte e separate di fotoni giungano da un occhio all’altro. Cosa hanno da dirsi? La reciproca vicinanza? La distanza indifferente della mitosi biografica, che ha costretto l’uno in una privazione estrema di cura, d’amore, di biologico accesso di nutrizione e l’altro l’ha proiettato in una culla soffice di bambagia e sguardi, attenzioni. Scatta il relè del nervo ottico per impedire l’intrusione nelle camere di morte, nei mucchi di carne macellata esposta alla paura dei morituri, nella mescolanza di acciaio, grasso per motori, olio, lame rotanti impiastricciate di sangue rappreso, bolliture, scuoiature, seghe.
E questa mattina, nell’esposizione totale di cibo che sembra imbalsamato, come quei papi che vengono esposti ai baci dei pellegrini, di gente che viene dai deserti del mondo solo per un bacio, emerge un uomo. È il sacro del cibo, la nutrizione elevata a monumento, il nostro pane quotidiano ritornato carne e fattosi pesce. È tutto quello che rivive a 4 gradi Celsius, un esperimento d’alchimia che si ripete giorno dopo giorno. Come il corpo ibernato di Walt Disney. Nei sarcofagi della grande distribuzione, tra neon rosa-azzurrini, dove vanno alla deriva pezzi d’animali e verdure, tra horror estremo e oggetti coreografici, guarnizioni da tavola e da musical, balletti colorati di pomodori e verdure, ecatombi bestiali risorge un uomo. È stato carne incidentata, guasta, triturata e danneggiata: è stata la «tragica fatalità» di qualche mese prima, di qualche anno prima, dimenticato: proviene dalla filiera corta dei passi lungo il limes della libertà. Ha solcato le strade bianche e boscose, ha traversato i segni intangibili della sorveglianza nel gelo e nei container. Ha lavorato con i guanti, gli stivali, le tute e le cannule per irrigare i fiumi di sangue animale e poi è caduto, insieme alla carne da macello, nel macello, nel mattatoio, nella triturazione h24 ed è stato fatto hamburger alle erbette, wurstel di puro suino, animelle e frattaglie.
Ma ora il corpo soggiace alla forza gravitazionale del proprio ri-aggregarsi. Le membra ricompaiono linde, mondate dal cellophane e dalla condensa del freon. Risale dalla cripta trasparente al centro della sala piastrellata, in mezzo alla spesa del sabato mattina, riflesso negli occhi dei padri con i bimbi nei carrelli. Ha il corpo brunito e nudo, quasi glabro eccetto una piccola macchia di peluria, come pigmento, sul torace. Ha una rada barba sulle gote e sotto il naso, i capelli neri, le sopracciglia sottili. È completamente nudo, viene a portare in tournée il miracolo portatile della propria risurrezione, nell’invisibile teatro che ricompone l’infranto.