Incursione nella Romagna hippy (1969)
Il festino era partito bene. C’erano alcuni ragazzi delle panchine, Dennis, due ragazze hippy di Faenza capitate per caso a Mezzaluna, e la Cammellona, con la minigonna e gli stivali, i lunghi capelli castani che incorniciano il bel viso ovale. La chiamano in quel modo perché cammina dinoccolata e ha un paio di gambe lunghissime. Ogni volta che sfila nella piazza del paese c’è sempre qualcuno che la indica: “Ohéi, guardate che c’è la Cammellona, la Cammellona!” e tutti la guardano con gli occhi sgranati, questa gigantessa magra e flessibile come lo stelo di un fiore. I ragazzi le riempivano di attenzioni, mentre io mi davo da fare coi dischi e preparavo le bevande.
A un certo punto mi siedo sul pavimento e sento Dennis che dice, rivolto alla Cammellona: “Bah, Jack Kerouac non è poi questo gran scrittore che dicono.”
L’ho guardato con gli occhi sgranati per la sorpresa. Ma che diavolo stava dicendo? Abbiamo parlato per ore, per giorni della grandezza di Kerouac, delle emozioni che esprime che si identificano con le nostre. Mi sono avvicinato, sicuro di avere frainteso il senso delle sue parole. Macché, senza degnarmi di uno sguardo ha continuato: “Molte sue pagine sono pura confusione di ubriaco, e lo stile non è certo la cornucopia dell’innovazione.” Ha detto proprio così, la cornucopia. A questo punto non ho avuto dubbi: quel traditore opportunista diceva quelle sciocchezze per farsi bello agli occhi della Cammellona. Dennis è molto bravo a parlare, assume dei toni dottorali che incantano l’interlocutore. E poi è furbo, preparato, sarcastico. Nessuno riesce a tenergli testa. Ma abiurare in quel modo Jack! E a casa mia poi! Non potevo tollerarlo. Tutti sanno che Jack è il mio scrittore preferito, è mio fratello, il mio protettore. Come si permetteva Dennis di parlare in quel modo in mia presenza? Sono intervenuto, cercando di mantenere un tono calmo, distaccato: ho detto che Kerouac è un maestro, che la sua tristezza è la nostra tristezza; come nessun altro ha espresso il senso di vuoto che ci circonda.
Dennis mi ha guardato con due odiosi occhi sornioni e ha detto: “Uhm, non è altro che la visione tragica dell’alcolista, che quando si alza al mattino dopo la sbronza vede il mondo come un enorme teatro del disastro.”
Quel furbastro! La frase enorme teatro del disastro l’ha letta in un articolo riferita a Céline, e la utilizzava per Kerouac! Mi sono innervosito, l’ho aggredito con una voce che ho sentito stridula, insicura. “Ma cosa dici!” ho esclamato. La Cammellona mi ha guardato, intuivo le palpebre che sbattevano dietro le lenti viola. Dennis se ne stava seduto come un guru che ascolta le domande sciocche dell’allievo, lisciandosi con un a mano la barbetta bionda da capra.
“Ma quale alcolista! Kerouac… insomma!”
Mi è salita una rabbia che mi ha accecato. Ho gridato, sono balzato in piedi.
“Kerouac è grandissimo! Lui… la sua scrittura è un flusso continuo di rabbia, sofferenza, gioia, e…”
“Bah” mi ha interrotto Dennis, calmissimo. “I cosiddetti flussi kerouachiani sono nulla in confronto a Joyce. Dico, l’hai letto il monologo finale dell’Ulisse?”
Mi sono irrigidito, colto alla sorpresa da quella domanda a bruciapelo. Cosa c’entrava Joyce? Non contento di quel colpo basso Dennis ha detto: “Per quanto la rabbia il dolore eccetera Kerouac è acqua fresca di fronte a quella teppa di Céline.”
Una pugnalata alle spalle. Potevo forse sminuire il sommo Céline? E poi, che senso hanno questi confronti? Ogni scrittore è unico, esprime il suo mondo interiore in cui noi troviamo riflesse parti del nostro mondo interiore. Ero schiumante di rabbia, ho gridato un “vaffà” e sono andato a trafficare col giradischi. Ma ho fatto saltare la puntina, così sono uscito e sono andato in bagno.
Quel vigliacco traditore. Venire a dire quelle stupidaggini qui, a casa mia! Come poteva mancarmi di rispetto in quel modo?
Mi sono lavato la faccia con acqua fredda e sono rientrato in camera. Avevano abbassato le luci, e sul piatto Jim Morrison gridava: “Padre? Sì, figlio? Voglio ucciderti!”
Le ragazze erano sedute sul pavimento, rivolte verso Dennis, che aveva incrociato le gambe nella posizione del semi loto. La Cammellona gli era di fronte. L’ho sentito che diceva: “Per quanto riguarda la prosodia devo dire che Pound…” Quando pronunciava il nome del poeta pazzo assumeva un tono solenne, Paaund, Paaund… e si lisciava la barba.
Situazione assolutamente insopportabile!
Che andasse a infangare Kerouac fuori da casa mia!
Ho acceso la luce, ho aperto la porta e ho detto: “Adesso basta, fuori!”
Tutti mi hanno guardato stupiti, le ragazze hanno ruotato le teste e hanno puntato su di me le lenti viola, azzurre, verdi. Dennis invece è rimasto impassibile, come se avesse previsto la mia reazione. Ho sentito in me qualcosa che schioccava come un colpo di frusta.
“Fuori, avete capito o no?”
Le ragazze sono state le prima ad alzarsi, mentre i ragazzi dicevano: “Insomma Jimi, maccheccacchio…”
Sono usciti tutti, ho sbattuto la porta alle loro spalle.
Ho messo il disco di Jimi e ho preso il basso. Ho di nuovo spento le luci, acceso il faretto e aperto lo sportello dell’armadio con lo specchio.
Ecco, stiamo partendo. C’è questo inizio in sordina, quasi incerto, qualche fraseggio con la chitarra e la voce e poi l’attacco dell’organo. Chi suona l’organo? Nel disco non c’è scritto, però abbiamo letto su Freak che è Steve Winwood, quel ragazzino prodigio. E al basso c’è addirittura il grande Jack Casady, il bassista dei Jefferson Airplane, che si alterna con Noel Redding. Sì, sono tutti con me, sono miei ospiti, miei amici, fanno la loro parte in questo straordinario concerto che sconvolgerà la storia della musica rock. Faccio partire la voce, canto con gli occhi chiusi, ci metto tutta la grinta che fa di me un cantante originalissimo, oltre che il chitarrista più poderoso e creativo che sia mai esistito. Ci metto la mia rabbia, che è la rabbia di tutti i giovani del mondo che rifiutano il dio denaro, la guerra, il razzismo. In platea ci sono molti giornalisti, le televisioni, c’è addirittura un inviato del Quotidiano del popolo di Pechino perché la mia musica non conosce frontiere, parla alle persone di ogni razza e lingua. Ci sono anche dei musicisti, Eric Clapton, i Rolling Stones al completo, B. B. King, Miles Davis, che di recente ha detto che io sono l’unico vero artista che proviene dal rock. E poi c’è lei, il mio amore: Julie Driscoll, la cantante più fantastica della galassia, la mia ragazza. E’ seduta in platea con le amiche, ma ogni tanto si alza per venire dietro al palco. Intuisco i suoi riccioli, la sua giacca coi disegni psichedelici, i pantaloni gialli a campana. E’ fiera di essere la mia ragazza, ed io l’amo come non ho mai amato nessun’altra.
Quando sto per lanciarmi nell’assolo principale, col ritmo devastante dell’Experience che mi segue e l’organo che si insinua come un urlo tra le note della chitarra, succede qualcosa.
Tump tump tump!
Qualcuno bussa alla porta. Ho un attimo di sbandamento, l’assolo parte ma io sono fermo, sto uscendo di scena. Tump tump! Vedo davanti a me, riflessa nello specchio, l’immagine di un ragazzo con un vecchio basso a tracolla mentre la musica scivola via come acqua da una bottiglia mezza vuota.
NdR Questo testo è il secondo capitolo del romanzo “Un amore di Jimi”, appena pubblicato da Clown Bianco Edizioni